Secondo la teoria delle relazioni internazionali nota come realismo (o neorealismo), che ad avviso dello scrivente più di altre consente di decifrare gli accadimenti in corso, protagonista della scena internazionale è lo Stato e il conflitto, politico o militare ne costituisce il carattere dominante. Essendo il potere la posta in gioco, ogni stato mira ad accrescere forza e influenza a danno di altri. Si tratta di una teoria in essenza a-valoriale, che a dispetto dello stupore dissenziente del cosiddetto Occidente non fa distinzione alcuna tra sistemi democratici (liberalismo politico/economia di mercato) e autocrazie o dittature. Secondo tale ermeneutica, i canoni di condotta dei soggetti internazionali sono costanti, a prescindere da tempi e luoghi, i momenti di cooperazione rari e instabili e le difformità da contesto a contesto toccano solo aspetti minori.
In seno a tale scuola di pensiero le leggi identificano le tendenze, le invarianze e le possibili associazioni, mentre le teorie spiegano le ragioni di tali associazioni. Per i realisti, in sostanza, la storia tende a riproporsi ovunque sulla scorta di simili modelli e canoni di comportamento.
Diversamente, per la scuola idealista il mondo procede costantemente in direzione del progresso, come lo storicismo in filosofia. L’essere umano è al centro dell’azione dello stato e la pace perpetua costituisce il fine da perseguire tramite le istituzioni internazionali, l’interazione bilaterale e l’impegno valoriale. Tale obiettivo presuppone l’impegno etico a battersi contro il cinismo e l’indifferenza, anche quando il successo è faticoso e la battaglia un’apparente scelta d’ingenuità.
Entrambe le scuole suggeriscono di sottrarsi a un’esegesi schematica prendendo distanza da ideologismi e pregiudizi, poiché solo uno sguardo candido e consapevole sulla realtà – che resta comunque espressione di molte sfumature di senso – tiene in vita la speranza di costruire una società più umana e priva di alienazione.
Per la scuola marxista (figlia dalla codificazione marxiana di fine secolo XIX), sono la lotta di classe (all’interno) e la rivalità tra i paesi ricchi e quelli poveri (all’esterno) a caratterizzare i rapporti di forza, sia tra gli individui che tra le nazioni. Pur in uno spazio minimo, deve comunque rilevarsi che l’idealismo socialista resta orfano di un coraggioso confronto con la prassi e la teoria. Con l’abbandono della premessa veritativa al servizio dei bisogni essenziali dell’uomo e l’accantonamento di un pilastro fondativo della riflessione del filosofo di Treviri – il cui nocciolo è sintetizzabile in un’antropologia ontologica in tensione verso una comunità universale di libere individualità – il comunismo novecentesco cancella il valore della libertà, giudicato sul fronte ideologico al servizio del capitalismo e su quello della prassi un rischio per l’oligarchia dominante. È su queste obliterazioni che il socialismo reale novecentesco impone l’oblio pregiudiziale di una sfera basilare per l’emancipazione e la lotta al nichilismo; e con la parallela creazione di una classe artificiale incaricata di puntellare la nomenclatura, rinnegherà il nocciolo duro del Marx idealista, ponendo le premesse del proprio tramonto, dopo aver inferto un colpo ferale alle prospettive di un mondo diverso.