IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Confusione, intellettuali e nuovo “ordine meloniano”

Qualche giorno fa, prima dell’ovazione che Giorgia Meloni ha ricevuto a Rimini, sulla prima pagina dell’Humanité si leggeva: “Les fascistes aux portes du pouvoir”.

Galli della Loggia, l’intellettuale nuovo che confonde squadristi e partigiani

Una esagerazione? Un assaggio di cosa accadrà, dopo il possibile successo della destra, si può forse cogliere nelle reazioni al post di un giovane candidato del Pd. La sua colpa è di aver celebrato alcuni anni fa l’Ottobre sovietico. Scendono in campo, come è naturale, i giornali della destra, per i quali è possibile condividere il culto del lettone di Putin. Non è tollerabile, invece, “un capolista dem che inneggia alla rivoluzione d’Ottobre” (Il Giornale). Partiti e leader, non solo del Carroccio, possono avere rapporti politico-finanziari con ambigui filosofi e frequentare centri di influenza di Mosca, che si offrono di anticipare i rubli per i loro viaggi ad Oriente. E’ però un crimine intellettuale evocare i dieci giorni che sconvolsero il mondo (“Tra i capilista del Pd anche il tifoso dell’URSS”, La Verità). Niente di strano che la destra, nei giornali di riferimento, denunci “Intenzioni sinistre: Sarracino celebra sul web la rivoluzione bolscevica con tanto di foto di Lenin” (Il Tempo). E’ invece alquanto fuori luogo l’intervento di una Giorgia Meloni indignata (“ora arriva anche chi inneggia all’Unione Sovietica”). Anche in questo caso conferma l’estraneità della sua cultura politica alle vicende dell’Italia repubblicana. Almeno cinque tra Presidenti dell’Assemblea Costituente e Presidenti della Camera, e due Presidenti della Repubblica, hanno in passato condiviso (e quando ancora la Russia era il grande nemico ideologico-militare dell’Occidente) i contenuti ideali del post del candidato di Napoli. Oltre alle più elevate cariche istituzionali, un Presidente del Consiglio (ma chissà se anche al giovanissimo Craxi qualche riconoscimento al mito del ’17 sarà scappato) e svariati Vicepresidenti del Consiglio (da Nenni a De Martino, persino l’americano Veltroni nel 1977 ha cantato la bellezza dell’Ottobre al Cinema Adriano) hanno ossequiato la presa del Palazzo d’Inverno.
Si può comprendere la ritrosia di Giorgia Meloni a riconciliarsi con le libertà moderne, lei che invoca l’italiano nuovo (“generazioni di nuovi italiani sani e determinati”), che supera le “devianze” (come obesità e anoressia), e con i dispositivi dello Stato prospetta la mutazione antropologica del carattere nazionale. E’ un fatto però che le istituzioni democratiche in Europa rinascono quando due giovani soldati dell’Armata Rossa alzano la bandiera con la falce, il martello e la stella sul tetto del Palazzo del Reichstag.
Chi nello stemma ancora ostenta la fiamma (simbolo inaugurato nel 1947 da quanti, appena pochi anni prima, stavano dall’altra parte nell’epopea di Stalingrado) si accinge ora a conquistare il governo in una Repubblica nata dalla Resistenza antifascista. Questo passaggio, del tutto compatibile con le procedure della democrazia che si limita a registrare il consenso effettivo, provoca scossoni sul terreno delle egemonie culturali. In previsione dell’evento che strattona il paradigma fondativo dell’antifascismo, Meloni già può intascare i frutti del revisionismo storiografico del “Corriere”. In un editoriale il quotidiano, che ospita diversi “parvenu del fascismo liberale” (per usare un’espressione di Giuliano Ferrara), reinterpreta il ‘900 italiano come sedimentazione di “culture antidemocratiche”. Osservando le azioni dei movimenti collettivi con “lo sguardo lungo e profondo della storia”, Galli della Loggia rileva che Pci e fascismo sono movimenti politici che odiano ogni forma di regime liberale. E quindi sono tradizioni del tutto assimilabili, “un tutto unico”, perché “usano entrambi la violenza”.
Secondo la penna di punta del “Corriere”, il Pci e il fascio littorio hanno un comune codice genetico, quello che attesta che nella ideologia della violenza Mussolini non è troppo diverso da Gramsci. E le squadracce che ammazzano e impongono con il terrore un regime totalitario non usavano metodi difformi dai partigiani che nel 1943 “sono confidenti nell’uso della forza”. Nella lettura di Galli della Loggia, dopo la violenza “sporadicamente praticata” nel 1945, nel dopoguerra i comunisti coltivano il credo mistico della violenza come ideologia, che nella sua funzione salvifica viene ufficialmente “teorizzata ed evocata”. Insomma, i seguaci di Togliatti guardano alle armi come ad una mitologia rigeneratrice che dal partito viene “a lungo ammirata e politicamente condivisa”.
Giustamente Nadia Urbinati e un giurista di formazione liberale, Andrea Pertici, ricordano alla firma del “Corriere” l’elemento essenziale di ogni riflessione sulle dinamiche storico-istituzionali italiane: il fascismo è stato un regime totalitario, non una semplice cultura politica. E i comunisti hanno offerto un contributo fondamentale nella progettazione, nella realizzazione e nel consolidamento della democrazia costituzionale. E’ in questo preciso quadro storico che Cesare Pavese ha potuto annotare: “è possibile che uno s’accosti al comunismo per amore di libertà? A noialtri è successo”.
Nella sua equiparazione tra rossi e neri, che condividono una ideologia populista (“sono stati entrambi l’espressione di un tratto di fondo della storia italiana novecentesca che è stato il populismo”) e violenta, Galli della Loggia cancella i processi reali nella speranza che “l’Italia deve ancora compiere un’opera di auto-comprensione di sé in relazione a questo suo passato così complesso”. Queste lezioni di spavaldo revisionismo possono certamente essere raccolte come l’ideologia dell’epoca nuova. Anche sulla “Stampa” c’è chi saluta nell’ascesa di Meloni “la vittoria del femminismo” e rimane estasiato da “una donna che giganteggia sulla linea del fronte”. Però il voto di settembre potrebbe anche confutare le categorie del revisionismo storico, confermando che i conti per la comprensione della loro modernità politica sono già stati fatti dagli italiani il 25 aprile e il 2 giugno.
Non è comunque il fascismo del 1922 che oggi è alle porte, con le squadracce in armi e le uccisioni dei nemici politici. E’ una variante di destra radicale che vuole, con il voto e non con una marcia violenta, rovesciare la forma di governo parlamentare e la forma di Stato unitaria.
Nella sua comunicazione, la madre, patriota e aspirante dietologa di Stato camuffa il volto di classe della flat tax e la distruzione del Sud che procede con l’autonomia differenziata. Senza una vera cultura politica, conquista il consenso sui social esaltando le eroiche Forze dell’Ordine che bloccano un “gruppo di immigrati” o i Vigili del Fuoco intervenuti in soccorso di una bimba di 12 mesi in aereo, inneggiando al blocco navale per “fermare le partenze dei barconi” o, addirittura, riproducendo il video di uno stupro a Piacenza perché perpetrato da un richiedente asilo.
Les fascistes aux portes du pouvoir” allora? Cresce, in realtà, la sensazione che non sia del tutto scontato che un corpo elettorale sfiduciato, deluso, non rappresentato da grandi culture politiche si consegni nelle mani della signora in nero. Come avere fiducia in chi dopo tanti anni di esperienza parlamentare (16) e di governo (oltre 3) non sta volentieri nelle istituzioni (“Dio sa se fare la cameriera m’abbia insegnato più di quanto m’abbia insegnato spesso stare in Parlamento”)?
Alla fine, forse, magari per il riaffiorare di una residua capacità di calcolo dei veri interessi, gli elettori percepiranno che gli svantaggi di un potere senza classi dirigenti e adeguata cultura di governo superano di gran lunga le assai dubbie convenienze. Una destra della paura (“che coraggio questo signore: catenina restituita e ladro in galera!”, esclama la leader della fiamma per esaltare lo sforzo ginnico di un anziano italico all’inseguimento di un marocchino) potrebbe essere la prima vittima della paura contagiosa di vedere i palazzi delle istituzioni occupati dalle esagerazioni verbali e scenografiche di Meloni, Salvini e dalla loro corte di “fascisti liberali” immaginari. [estratto da “Il Riformista” del 26 agosto 2022]

Sulla “Stampa” il direttore Massimo Giannini, gridando “è ora di agire”, ha proposto la convocazione di un’assemblea costituente.

Massimo Giannini, la Costituente “eversiva” che mette in soffitta l’art. 138

Sarebbe, a suo dire, la strada con maggiore efficacia e anche la più legittima per risolvere in radice la crisi di una democrazia che vive da anni sotto lo scettro abusivo di un “presidenzialismo di fatto”. Malgrado i tentativi opportunistici intrapresi regolarmente dai vincitori delle elezioni, la Costituzione materiale non riesce a tramutare in un regime giuridico bilanciato la personalizzazione del potere galoppante e in tal modo a ratificare la nuova forma di governo emersa nelle cose. Secondo il quotidiano della Fiat, che pure se la prende con “l’occasionalismo costituzionale” che in questi anni ha imperversato provocando profonde lacerazioni formali, “non c’è un minuto da perdere”.
Si può anche concedere qualche confusione concettuale tra il presidenzialismo e il modello del cosiddetto “Sindaco d’Italia” (che sarebbe, nel suo impianto, un unicum a livello mondiale, ma per Giannini “è chiaro, è semplice, è utile”: peccato che il regime del “premierato forte” o “assoluto” fu bocciato nel referendum confermativo del 2006). Invece del tutto irricevibile è la prospettiva di un’assemblea costituente, la cui invocazione mostra il grado di scivolosa approssimazione che accompagna il manifesto del foglio torinese. In apparenza, la costituente dovrebbe “garantire” tutti i soggetti politici in un percorso di riforma più sorvegliato e sottratto agli appetiti strumentali delle maggioranze congiunturali. In realtà, si tratterebbe di un rimedio velenoso come pochi altri.
La Carta non contempla ulteriori strumenti di reciproca rassicurazione come arnesi supplementari rispetto alle stringenti (e talune volte forzate in maniera censurabile) regole di revisione consegnate all’articolo 138. Per garantire tutti gli attori del sistema politico, Giannini suggerisce di oltrepassare proprio l’articolo di sistema, quello che contiene le chiavi di accesso al congegno costituzionale secondo clausole di sicurezza. Se ancora nel “sistema” della Costituzione si intende permanere, e secondo la sua logica operare degli innesti solo parziali di correzione, allora non si può manipolare proprio l’articolo che autorizza i modi più sicuri di entrare nel meccanismo per eseguire gli interventi migliorativi progettati.
Non si può difendere la Costituzione annichilendo il suo strumento principale di immunizzazione rispetto alla volontà di potenza di maggioranze occasionali che coltivano sogni sleali. L’alternativa è anche qui tra riforma (incrementale, con innesti parziali secondo il “sistema” ora vigente) o rivoluzione (cambiamento di sistema, con una esplicita discontinuità formale rispetto alle regole e ai valori dell’ordinamento). Con la battaglia ingaggiata dalla Fiat per convocare la costituente, il padronato sceglie in maniera disinvolta la via della rivoluzione che fa saltare equilibri e procedure.
Sul piano storico-istituzionale, la costituente indica, per la sua specifica natura, l’irruzione di un potere di fatto. A seguito di grandi eventi e cesure esplicite, nei processi reali affiorano vuoti istituzionali per via della caduta di un regime. Ciò impone la convocazione di un organo chiamato a legittimare un nuovo ordinamento attraverso la redazione di un solenne documento costituzionale. In tal senso, la categoria di “costituente” si riferisce, nella dottrina classica di Sieyès, Constant, Marx, all’evento creativo originario e non imbrigliato in una forma. Essa quindi riconduce alla dinamica assolutamente creativa perché non rallentata in una rete di forme previste nel funzionamento del potere “costituito”.
Il problema teorico è di una trasparenza assoluta. Nelle esperienze politiche in cui la costituzione non esiste e va creata, o nei casi di abbandono della Carta antica per la scrittura di una nuova, interviene la nozione di costituente. Quando invece la costituzione esiste già e va solo ritoccata in taluni meccanismi usurati, domina la categoria di potere costituito operante con un bilanciamento dei poteri. Non a caso l’assemblea costituente non è contemplata nell’articolo 138 e in nessun’altra disposizione della Carta quale momento di revisione costituzionale. Si tratta infatti di una istituzione eruttiva-creatrice che fonda un ordine, non lo revisiona con piccoli ritocchi. Nella sua portata generativa, postula una situazione di vuoto, la caduta dell’ordinamento con la sospensione delle procedure della costituzione vigente.
Nella sua portata effettiva, la “costituente” indica dunque una pratica di fondazione di un ordine che appare a tutti gli effetti eversiva, in un senso tecnico, rispetto alla configurazione dei poteri. Al direttore di quella che un tempo era la “Gazzetta Piemontese” sfugge che, proprio nella politica post-unitaria e sino alle soglie del fascismo, la parola “costituente” era ritenuta una dizione altamente sospetta. Il termine coincideva infatti con una manifestazione di chiara ostilità al Regno. E, di conseguenza, chi la utilizzava era trattato dalla magistratura come interprete pericoloso di una categoria sovversiva da ostacolare in ogni modo. Con le armi sanzionatorie del diritto penale, lo Stato liberale-monarchico colpiva chiunque incautamente rispolverasse la formula della “costituente” nella sfera pubblica.
La Repubblica, nella sua giusta vocazione tollerante verso le idee anche più radicali, non ha le stesse manie repressive dell’Italia liberale, chiusa in maniera poliziesca verso le parole vietate. E tuttavia il lecito pensiero sovversivo della “costituente” evoca una pratica di dissolvenza delle forme, che allarma in tempi di contagiosi sovranismi illiberali. Di per sé l’assemblea costituente, preso il nuovo organo nel senso pregnante racchiuso nel concetto, si colloca come un evento che si impone al di fuori della norma. Il suo procedere coincide con un atto storico-politico di sovranità sprigionante una forza effettuale che, nel vuoto di forma o nella discontinuità istituzionale rispetto all’ordinamento repubblicano, si incarica di rompere il quadro normativo esistente per definirne uno qualitativamente diverso sul piano valoriale-istituzionale.
Secondo Giannini, entro poteri “costituiti” della Repubblica ritenuti ormai inadeguati andrebbe collocato un inedito potere “costituente” estraneo all’ordinamento e con il mandato di disegnare la grande riforma. Oltre le regole e i poteri costituiti, che funzionano secondo i dettami della Carta e le procedure scolpite nell’articolo 138, affiora l’assunzione da parte di un potere imprevisto, e quindi tendenzialmente senza vincoli, del compito di redigere le pagine di una diversa Carta fondamentale. Se l’assemblea è “costituente” appare arduo delimitarne i limiti, se invece l’organo è eletto con compiti revisionali circoscritti non si comprende la necessità dell’aggiramento delle regole già ora in vigore.
E’ evidente che, se di assemblea costituente davvero si tratta, allora occorre assumere per intero l’inferenza logico-politica conseguente all’introduzione di un organo che per sua natura appare di carattere straordinario. Se per davvero la costituente è l’obiettivo, ne discende che la sospensione della validità della Carta comporta, come un corollario logico strettamente connesso, l’adozione di misure quali la nomina di un Capo dello Stato provvisorio e l’archiviazione della Corte costituzionale, che diventa un organo incompatibile con l’apertura di un processo di correzione strutturale della legge fondamentale.
Anche se si riduce la portata della nozione di costituente, contraendone l’estensione rispetto al nucleo concettuale correttamente inteso, restano aperti dei nodi istituzionali evidenti. Si può paragonare una costituente istituita entro organi dello Stato che pure sussistono nella loro operatività giuridica ad una anestesia, che comunque addormenta le strutture dell’ordinamento, costrette, nel corso delle operazioni di chirurgia istituzionale, a confidare nel senso del limite dei costituenti. Chi si introduce nel cuore del sistema dormiente procede in ogni caso con un potenziale conflitto per via della presenza di un dualismo dei poteri e di una possibile doppia maggioranza, con incertezze formali (l’articolo 138 tornerà ad essere utile per le correzioni future o per ogni ritocco della Costituzione servirà una nuova costituente?), con un incontenibile desiderio di allargare il ventaglio della manutenzione. I paletti stabiliti dall’articolo 138 possono rivelarsi, a quel punto, fragili rispetto alla pienezza di competenze rivendicata da un organo investito dal popolo con il mandato della grande riforma.
Prima di maneggiare una categoria così calda come quella di costituente (è lecito con l’articolo 138 superare completamente l’articolo 138?), Giannini dovrebbe sentire un piccolo senso del brivido culturale perché sta autorizzando una rottura drastica, una rivoluzione rispetto alla Repubblica nata dalla Resistenza. In una democrazia costituzionale è garantita la reversibilità dei ruoli (di governo e di opposizione), non la possibilità di passare ad un altro regime politico. La costituente, intesa come il percorso di un nuovo potere che si istituzionalizza, non è compatibile con la logica di una costituzione perché implica una situazione di fatto che, solo in caso di successo riportato nella dura prova della lotta, può tramutarsi in una nuova condizione giuridica. [estratto da “Il Riformista”, 20 agosto 2022]

Le “grandi manovre d’Oriente” (e anche l’invito a Mosca per il G20 in Indonesia) smontano pezzi importanti del dispositivo ideologico di una guerra ineluttabile tra democrazia e autocrazia che viene attualmente utilizzato come il principale schema interpretativo delle relazioni internazionali.

La crisi mondiale di oggi vista con gli occhi di Gramsci

Insieme alle autocrazie di Russia, Bielorussia, Tagikistan e Cina ha partecipato infatti alle esercitazioni militari congiunte anche l’India. Ovvero, la più grande democrazia mondiale che vanta una storia di “modernizzazione” in cui molto pronunciata è l’influenza occidentale.
L’Europa e l’America trascurano quel fenomeno politico rilevante rappresentato dalle molteplici esperienze di statualità che nel mondo seguono percorsi alternativi rispetto a quelli liberal-democratici tracciati dall’Occidente. Con una impostazione dei rapporti internazionali nei termini di un generale scontro di civiltà tra mondo libero e Stati canaglia, le sorti dei valori democratici e l’avanzata della cultura dei diritti fondamentali non migliorano di sicuro. Miliardi di persone, che non vivono sotto l’ombrello delle liberal-democrazie, non possono essere sacrificati sull’altare del loro regime politico interno assunto quale misura dell’asimmetrica legittimazione posseduta dagli Stati nelle relazioni internazionali.
Enumerando gli “elementi per calcolare la gerarchia di potenza fra gli Stati”, Gramsci nei Quaderni (Q. 4, (XVIII), p. 38 bis) ne elencava tre: “1) estensione del territorio, 2) forza economica, 3) forza militare”. A questi tre indicatori di carattere quantitativo egli aggiungeva, come quarto indice da considerare, anche “un elemento imponderabile”, cioè quello che rimarca “la posizione ideologica che un paese occupa nel mondo in ogni momento dato, in quanto ritenuto rappresentante delle forze progressive della storia”. Il possesso di tutti questi ingredienti conferisce una spiccata capacità di influenza (“un potenziale di pressione diplomatica da grande potenza”) dato che, oltre alla forza effettuale (che mostra la vittoria prevedibile sulla base del dispiegamento delle milizie), dispensa allo Stato una forza ipotetica capace di condizionamento. In virtù di questa calcolabilità delle prerogative militari, economiche ed ideologiche, alla grande potenza riesce possibile “ottenere una parte dei risultati di una guerra vittoriosa senza bisogno di combattere”.
Le relazioni internazionali esprimono, secondo l’approccio di Gramsci, un terreno di rapporti interstatali dal carattere asimmetrico perché in essi gioca, accanto alla stretta effettualità della potenza, un ruolo cruciale il momento dell’egemonia. “Il modo in cui si esprime l’essere grande potenza è dato dalla possibilità di imprimere alla attività statale una direzione autonoma, di cui gli altri Stati devono subire l’influsso e la ripercussione: la grande potenza è potenza egemone, capo e guida di un sistema di alleanze e di intese di maggiore o minore estensione”.
Non conta, dunque, solo la giuridica prerogativa di un territorio di essere un soggetto formalmente presente nelle arene delle relazioni internazionali. Va presa in considerazione anche la sostanziale possibilità di esprimere una posizione incisiva ed esercitare una visibile influenza nelle cose del mondo. Questi requisiti connessi alla capacità di influenza e direzione accompagnano solo poche delle entità statali. Una “direzione autonoma” non si esaurisce nel riconoscimento giuridico di essere parte degli attori che sono ospitati negli organismi delle Nazioni Unite; serve una effettuale condizione che mostri, nelle relazioni con gli altri, i segni dell’autonomia ovvero della forza.
Accanto a Stati che dispongono di significative risorse per esercitare un “influsso” e avere una certa “ripercussione” nei processi politici, esistono delle statualità con una rilevanza pari allo zero. Si incontrano poi altre e più grandi entità politiche organizzate dotate di una forza tale che consente loro di rivendicare il ruolo di potenza egemone. Questi Paesi sono in grado di esercitare pressioni, concordare aiuti, fornire assistenza e quindi di proporsi come Stati guida alla testa di una alleanza di nazioni che si contendono, con altre aggregazioni, il governo del mondo.
Con lo scioglimento del Patto di Varsavia, gli Stati Uniti hanno coltivato la sensazione reale di essere entrati in un mondo divenuto ormai unipolare. Sulla base della supremazia, spalancata plasticamente con il collasso storico del nemico della lunga guerra fredda, il punto 4 di Gramsci, quello cioè relativo alla ideologia, è diventato il caposaldo di una operazione condotta nel solco della “fine della storia”, con le potenze del bene, dei diritti, della democrazia, autorizzate a celebrare il loro trionfo irreversibile.
Questa pax imperiale americana è durata poco perché tutte le potenze escluse, umiliate, marginali, o anche in ascesa, si sono variamente riaffacciate sulla scena. Perso il richiamo numero 4 (la mobilitazione ideologica) che accompagnò il grande mito sovietico, alla riesumazione della potenza nazionalista e bellicosa dell’autocrazia russa contribuiscono il punto 1 (estensione territoriale, con risorse naturali di notevole rilevanza) e il punto 3 (la forza militare, con il possesso di armi atomiche). Anche se il punto 2 (la consistenza del “potenziale economico”) non è paragonabile a quello vantato dalla superiore macchina americana, il territorio pieno di risorse energetiche attribuisce alla Russia un potere di ricatto capace di indebolire la capacità produttiva delle potenze industriali occidentali.
Trascurare la rinascita russa e, addirittura, “abbaiare” con i simboli della Nato ai confini, adottando una strategia di puro contenimento militare con allargamenti ai limiti della intransigenza nei vecchi territori di influenza sovietica, non sono le sole politiche possibili verso Mosca. Il risentimento e l’esplosione dell’orgoglio nazionale dell’impero ferito (che ha un’ampia estensione territoriale, ma senza “una popolazione adeguata, naturalmente” per condurre davvero una minacciosa politica di espansione e conquista continentale) conducono a fenomeni bellici prolungati che rendono più complesso, e meno vantaggioso per l’America stessa ma soprattutto per i satelliti europei, il governo del mondo attraversato da nuove polarizzazioni militari.
Secondo Gramsci, “nell’elemento territoriale è da considerare in concreto la posizione geografica”. Nel caso specifico russo, si tratta di una territorialità di carattere pluri-continentale che mostra il governo di Mosca sospingere i propri progetti ora verso Occidente, ora verso Oriente. Mentre Pechino venne attratta in passato dagli Usa in efficaci politiche di contenimento dell’espansionismo sovietico, oggi la Cina è sospinta per ragioni tattiche verso Mosca che organizza i molteplici centri di resistenza al dominio americano. Un capolavoro con tracce di insipienza tattico-storica degli strateghi Usa ha condotto, come naturale reazione precauzionale-difensiva, verso un’alleanza tra due grandi Paesi (storicamente rivali) che accantonano differenze e convergono in una comune istanza di contenimento dell’Impero a stelle e strisce.
La Cina è la sola grande potenza che può già oggi cominciare a competere con gli Usa sulle quattro variabili indicate da Gramsci (anche nella dimensione militare e navale, infatti, sembra ormai aver imboccato la strada per colmare il divario) e ciò giustifica la crescente accentuazione del sentimento di rivalità che caratterizza l’America ossessionata dal pericolo di un sorpasso. E’ vero che il profilo ideologico non è più quello di sessant’anni fa, ma una narrazione e un simbolismo caratterizzati dal richiamo al marxismo (espressione della cultura occidentale) rimangono pur sempre nella iconografia del regime di Pechino.
Se, come suggerisce Gramsci, “nella forza economica è da distinguere la capacità industriale e agricola (forze produttive) dalla capacità finanziaria”, si comprende in radice il timore serpeggiante nel governo americano. Il potere statunitense percepisce che la globalizzazione, proprio da Clinton accelerata, ha minato la tradizionale egemonia nordamericana nell’economia-mondo e ha corroso persino la sovranità del dollaro e della borsa (anche sul versante finanziario Pechino sfida apertamente gli Usa con minacce e ritirate).
Dinanzi alle “grandi manovre d’Oriente”, l’America può continuare nella battaglia frontale attirando a rimorchio un’Europa che grazie alla sua memoria storico-giuridica serve all’Impero per condurre in maniera più credibile la battaglia n. 4 (per la democrazia e i diritti). Ma alla sfida per il riconoscimento lanciata da Russia, Cina, India e Iran, Stati assai influenti e provvisti di una autonoma capacità di decisione nel campo della politica estera, l’Occidente non può rispondere spingendo semplicemente sulla leva militare. Un accomodamento politico creativo alla spinosa emergenza di Taiwan va pure escogitata, e con tempestività. La cooperazione, il multilateralismo, la soluzione diplomatica agli obiettivi di potenza alla fine rappresentano una opzione meno costosa, più pacifica e più utile agli stessi interessi occidentali in declino e chiamati necessariamente a ridefinirsi su basi diverse, alla luce dei nuovi equilibri visibili su scala mondiale [Estratto da “Il Riformista” del 24 agosto 2022].

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