Il Consiglio Europeo ha deciso che le elezioni si terranno tra il 6 e il 9 giugno 2024. Il Parlamento Europeo, da parte sua, ha chiesto che nel numero dei 716 membri stabiliti, sia compresa una riserva di 28 seggi in favore di liste transnazionali. A tutt’oggi, il Consiglio non ha ancora preso posizione su questo punto.
Le liste transazionali, presentate da singoli partiti o da partiti in coalizione, dovrebbero proporre al voto degli elettori, candidati la cui circoscrizione è costituita dall’intera Unione, questa quota, attualmente simbolica, potrebbe aumentare di legislatura in legislatura fino a sostituire, un domani, la rappresentanza degli eletti su base nazionale.
Si tratta di un processo importante perché, nel Parlamento Europeo, organizzato in gruppi politici, si assiste ad una dicotomia crescente tra rappresentanza nazionale e posizioni politiche nei vari gruppi. È infatti frequente che questi ultimi si scompongano nel voto proprio perché il così detto “interesse nazionale” prevale sull’appartenenza politica.
D’altra parte, c’è già il Consiglio Europeo che rappresenta, appunto, i Governi dell’Unione, il Parlamento non dovrebbe duplicare questa funzione, piuttosto, assumere un punto di vista più generale, dettato da differenti visioni politiche e da programmi conseguenti.
L’inedita alleanza tra popolari e conservatori
È evidente che le elezioni Europee concorrono a delineare possibili maggioranze politiche nel Parlamento, tuttavia, appare semplicistica la trasposizione a livello Europeo di maggioranze nazionali così come vorrebbero Giorgia Meloni – anche in veste di Presidente del Partito Conservatore e riformista Europeo – e Manfred Weber- capogruppo del PPE-, anche perché la Commissione Europea non è espressione né di un voto diretto, né del voto del solo Parlamento Europeo.
Quest’ultima è frutto della designazione dei 27 governi e deve essere votata dalla maggioranza del Parlamento, ciò rende necessario un accordo che non può prescindere dai rapporti di forza, sia nel Consiglio, che nel Parlamento, e, di fronte a vittorie della destra nelle ultime elezioni in Italia, Svezia, Finlandia e a quello che potrebbe avvenire in Grecia e in Spagna, seppure è prevedibile uno spostamento ancora più a destra negli equilibri, non è affatto detto che una maggioranza popolari- conservatori, ammesso che vi sia compatibilità piena tra queste forze, possa prevalere. Ciò detto, è la sinistra e le forze progressiste che appaiono assenti sia dal dibattito che dall’iniziativa politica.
Le sinistre nostrane si sentono rassicurate dal fatto che, essendo il sistema delle elezioni europee di tipo proporzionale, non hanno l’onere di formare eventuali coalizioni e si preparano alla conta con scarsa considerazione su come rendere attuabili i propri programmi nella dimensione europea.
La convergenza destra-sinistra sulla guerra
Le posizioni sulla guerra non hanno visto differenze tra destra e sinistra, almeno nella parte maggioritaria di quest’ultima, infatti, tutte le risoluzioni approvate dal febbraio 2022 in poi, in quel Parlamento, hanno visto maggioranze larghissime unicamente a sostegno della opzione bellica a fianco dell’Ucraina, sotto l’egida della NATO.
È curioso vedere come, rispetto a tentativi di aprire spazi a negoziati o almeno al cessate il fuoco, operati dai più diversi soggetti come: Cina, Turchia, Brasile, Sud Africa, Unione Africana, Indonesia, Vaticano; nulla è avvenuto e avviene per iniziativa UE.
L’unica opzione per la NATO e, conseguentemente per l’Unione Europea, è quella della sconfitta militare della Russia, ciò, di giorno in giorno, apre scenari apocalittici, fino alla minaccia, sempre più concreta, del ricorso agli armamenti atomici, per non parlare del rischio derivante dal collasso della centrale atomica più grande d’Europa e delle distruzioni indicibili e irreversibili già avvenute.
A rendere ancor più difficile la via della pace è il fatto che la questione territoriale, gravissima e ingiustificabile come atto di aggressione, si combina ad altri elementi ideologici e politici, non negoziabili se non con la sconfitta totale del nemico.
Mi riferisco al cambio di regime ripetutamente invocato da entrambe le parti, alla natura etica assunta da questa guerra come scontro tra democrazie e oligarchie. Quello che è in discussione, in fin dei conti, è un diverso ruolo dei vari attori negli equilibri mondiali, questione, che potrebbe trovare altri mezzi di composizione che non la guerra. Ciò è testimoniato anche dalla collocazione di grandi Paesi quali Cina, India, Brasile e di interi continenti come l’America del Sud, l’Asia, l’Africa.
Lo scenario descritto non ha visto alcuna significativa iniziativa della sinistra nel distinguersi dal furore bellicista guidato dalla NATO, fino ad accettare che parte dei Fondi Europei destinati alla riconversione ecologica, agli squilibri territoriali ed alle politiche sociali, possano essere destinati da parte dei 27 all’acquisto di armi e munizioni.
L’uso politico della storia
L’egemonia delle destre in Europa si è costruita nel tempo attraverso l’amalgama della vecchia e nuova destra dell’ovest con i Partiti nazionalisti dell’est producendo programmi xenofobi e regressivi, avvalendosi di un uso politico della storia, al fine di individuare nel “comunismo”il nemico principale, cosa che attenua le corresponsabilità di molti nel collaborazionismo con il nazismo e il fascismo, sia ad est che ad ovest, fino al risultato che, oggi, alcune di queste formazioni sono entrate a far parte di governi.
A questo proposito, fu emblematico il voto del Parlamento Europeo nel 2019 che, in occasione della ricorrenza della fine della seconda Guerra Mondiale, in una risoluzione votata a larga maggioranza e con pochissime distinzioni negli schieramenti politici, equiparò il giudizio sul nazismo a quello sul comunismo.
Nel bellissimo libro di Emmanuel Carrère : “Limonov”(2011), romanzo che descrive, al pari di tanti pregevoli saggi, quel tragico e confuso periodo che fu la transizione Russa dalla caduta del muro all’era Putin, vi è un passo che colpisce il lettore per la sua preveggenza ed è quello in cui Zachar, giovane Nazbol (Nazionalista Bolscevico), si rivolge a Eduard (Limonov) loro capo, denunciando il “disgusto per quell’ondata di propaganda che nega quanto gli è stato insegnato ad amare e mette l’ideale per il quale hanno combattuto i loro padri sullo stesso piano del nazismo. Che fare di quel disgusto, come tradurlo in posizione politica?” conclude Zachar. La risoluzione del Parlamento Europeo si colloca appieno in questo contesto.
Prima di tutto, la guerra
Se la guerra non costituisce un discrimine tra destra e sinistra e, più in generale, tra forze progressiste e conservatrici, è molto difficile affrontare una campagna elettorale, in particolare per chi vorrebbe dare una dimensione europea alle proprie posizioni ed ai propri programmi , eppure, obiettivi da indicare a questo scopo ci sarebbero: a cominciare dalla proposta di riprendere il percorso che portò nel 1975 ad Helsinki alla Conferenza sulla Cooperazione e Sicurezza in Europa ed al relativo Trattato e, in seguito, alla Carta di Parigi del 1990; all’adesione dell’UE al Trattato Internazionale sulla proibizione delle armi atomiche (TPNW), entrato in vigore nel Gennaio 2021, sottoscritto da 68 Paesi, che ha visto l’adesione di 56 tra ex Primi Ministri e Ministri di Paesi aderenti alla NATO.
Sul controllo delle armi atomiche, poi, vi è stato recentemente un preoccupante allarme lanciato dal SIPRI (Stockholm International Research Institute) il quale denuncia un aumento preoccupante della fabbricazione e detenzione delle stesse e, seppure il 90% del potenziale è concentrato in USA e in Russia, l’aumento appare generalizzato e riguarda soprattutto Cina e UK, quest’ultimo ha dichiarato che non intende più dar conto del numero di testate di cui è in possesso.
Ci si è rassegnati anche alla fine di quella” diplomazia del nucleare” indispensabile al bilanciamento controllato, fino all’obiettivo della scomparsa delle armi atomiche.
Queste questioni, che definirei esistenziali, sembrano sfiorare la politica; di esse si occupano associazioni della società civile a cominciare dalla Lega Internazionale per la Pace ed il Disarmo e le molteplici espressioni dell’associazionismo laico e cattolico; difficilmente entrano a far parte di programmi e, temo, che non lo saranno neanche in vista delle elezioni Europee.
“Prima di tutto la Pace”, slogan programmatico ai tempi di Enrico Berlinguer, sembra essere stato consegnato alla Storia come reperto inservibile.
Altro che Europa della difesa, l’economia di guerra
Alla guerra è legata indissolubilmente l’economia, infatti, la decisione di destinare fondi Europei e fondi nazionali legati a programmi europei di riconversione ecologica, sociale e di sviluppo territoriale, segnano una pericolosa e plateale svolta nello sviluppo futuro di questa Unione Europea.
La pandemia, che avrebbe dovuto causare un profondo ripensamento negli stili di vita, nella produzione e nella destinazione delle risorse in favore di sistemi sanitari pubblici capaci di difendere e preservare la vita e la salute dei cittadini, sembra anch’essa archiviata e prevale la smania di tornare ad un “prima” che è quello che ha causato i disastri che pure abbiamo recentemente e dolorosamente vissuto. Il ritorno ai criteri originari del Patto di Stabilità segue precisamente questa logica anche se si riuscirà a raggiungere quella “flessibilità”che alcuni Paesi, tra cui l’Italia,richiedono.
Oblio e irrazionalità sembrano prevalere e, in questo clima, avanzano interessi quali quelli che alimentano l’industria della guerra.
Il riarmo in atto non ha nulla a che vedere con la Politica di Sicurezza Comune Europea, esso avviene su base nazionale e risponde ai criteri stabiliti dalla NATO alla cui dipendenza l’UE si è consegnata.
Oggi pare non bastare neanche quel 2% del Pil che era stato richiesto in passato ai Paesi Nato come investimento sugli armamenti e questo rischia di consegnare anche l’Europa a quell’Apparato Militare- Industriale che domina la politica e l’economia USA. Al contrario, la politica di Difesa Comune Europea, oltre che necessitare di un assetto istituzionale e costituzionale adeguato, aveva in sé la promessa di una diminuzione delle spese militari grazie alla sinergia tra i sistemi dei vari Paesi, la quale avrebbe assicurato un risparmio per tutti.
La Francia del Commissario Europeo Thierry Breton e l’Italia del ministro della difesa Crosetto, proprio per la loro contiguità con gli interessi delle industrie militari, sono divenuti i paladini dell’aumento delle spese ,cui concorre l’imponente progetto di riarmo della Germania , della Polonia e dei Paesi Baltici.
Poiché la pace e la guerra non costituiscono un dettaglio, non è difficile prevedere, purtroppo, un enorme vuoto di rappresentanza che può aggiungersi alla già scarsa partecipazione al voto europeo che, seppure nelle elezioni del 2019 è stato il più alto degli ultimi 20 anni, ha di poco superato il 50%.
Nel processo elettorale,poi, andrebbe decisamente superata l’esperienza ridicola degli Spitzenkandidaten e cioè quella dell’indicazione di un nome come presidente della Commissione nelle liste dei partiti nei vari Paesi, cosa che non ha mai prodotto risultati conseguenti se non nella designazione del popolare Junker che sarebbe ,in ogni caso, avvenuta.
Approfondimento vs allargamento
È importante capire, poi, come finirà la promessa delle riforme. Sembra essere tornati all’inizio del millennio quando, con il Trattato di Nizza, si pensò di risolvere il dilemma “approfondimento versus allargamento”.
Oggi, nonostante l’enfasi che il Presidente Macron dette all’avvio del processo sul “futuro dell’Europa,” le ambizioni di un cambiamento significativo nel funzionamento dell’Unione, sembrano svanite.
Al di là delle velleità e della retorica che ammantano questi processi, anche esaminando le varie proposte, il problema dei problemi pare essere quello del voto all’unanimità del Consiglio Europeo, questione difficile da superare con la procedura di revisione di un Trattato che richiede essa stessa l’unanimità.
Il peso delle destre sovraniste e l’afasia della sinistra renderanno impraticabili le riforme necessarie al superamento del carattere intergovernativo impresso dal Trattato di Lisbona alle Istituzioni Europee ; c’è da sperare che si riesca a cancellare almeno la duplicazione della Presidenza del Consiglio e della Commissione Europea, ruoli che si sovrappongono soprattutto nella rappresentanza esterna dell’UE (ricordiamo ancora con imbarazzo la vicenda del divano cui fu destinata la Presidente della Commissione Van der Leyen in Turchia mentre il suo collega Louis Michel troneggiava accanto al Presidente Erdogan).
L’assetto istituzionale non è indifferente rispetto alle politiche che si vogliono perseguire, certo non è di per sé sufficiente, tuttavia, come dimostra la nefasta politica sull’immigrazione, è sicuramente un elemento di aggravamento il fatto che essa non sia una politica “comunitaria” e che ciascun governo, scaricando su altri le proprie responsabilità, contribuisce alla barbarie cui stiamo assistendo in spregio allo stesso “diritto” dell’Unione che vieta i respingimenti collettivi.
Come è stato possibile che l’intera sinistra europea, tranne alcune minoranze, si sia identificata in tutto e per tutto con questa politica bellicista che esclude perfino di accompagnare il sostegno militare a Kiev con proposte e iniziative che abbiano lo scopo di riportare il conflitto su altri piani che non siano esclusivamente quelli militari?
L’analisi è complessa e, a mio avviso, ha radici lontane ed ha a che fare con la più recente storia dell’integrazione europea.
L’Europa di Maastricht, basata prevalentemente sul mercato, sull’economia e sulla moneta, molto meno sulla cultura e in modo formale sulla democrazia e lo Stato di Diritto, ha impiegato ben 15 anni ad accogliere i Paesi dell’est, i quali, nel frattempo, erano immediatamente entrati a far parte della NATO, avevano smarrito nelle loro opinioni pubbliche l’iniziale slancio europeista e vissuto una transizione socialmente drammatica nel passaggio all’economia di mercato.
Questi ingredienti hanno fatto si che la stessa Unione Europea, ai loro occhi, fosse percepita come un sottoprodotto della NATO, mentre si andavano costituendo partiti nazionalisti, come reazione alla storia di “forzata integrazione” nell’URSS.
Tutto ciò è entrato in una certa sintonia con partiti di destra dell’ovest, i quali, da parte loro, sono riusciti ad interpretare agli occhi delle opinioni pubbliche ed anche di molti lavoratori, colpiti nella loro condizione di vita e di lavoro, un argine alla globalizzazione neoliberista, mentre la sinistra sembrava accettarne acriticamente tutte le conseguenze.
Non secondario in questo processo è stato, come già accennato, “l’uso politico della storia” così ben documentato nel libro di Guido Crainz, “fantasmi d’Europa”.
La sinistra europea ha sottovalutato questi processi al punto che, se si esamina chi ha promosso, seguito, negoziato, la famosa risoluzione del 2019, si scopre che la quasi totalità era costituita da Parlamentari dell’est.
Ciò segnala un vuoto politico e culturale imperdonabile e la rinuncia a fare del Parlamento Europeo uno dei luoghi di confronto e di sintesi tra le diverse memorie storiche.
Nel tempo, poi, si è determinata una sproporzione insanabile nelle relazioni economiche tra Europa (vedi soprattutto Germania) e Russia mentre le relazioni politiche andavano deteriorandosi anche per la deriva autoritaria della Presidenza Putin, che ha utilizzato anche questo allontanamento ai fini della sua narrazione vittimistica.
La sinistra silente di fronte alla guerra
La guerra ha spiazzato completamente la sinistra, la quale, messa sotto pressione dal combinarsi di una sintonia tra Paesi dell’est, USA e parte della destra, dopo qualche iniziale e timido accenno ad aperture negoziali da parte del Cancelliere Tedesco Scholz, ha scelto di accodarsi a quello che si è imposto, anche grazie alla propaganda martellante, come “il comune sentire”. La distruzione del Northstream 2 ha agito, a questo proposito, come potente ammonimento.
L’anticomunismo, ingrediente onnipresente nella narrazione della destra, quanto discutibile nelle sue trasposizioni alla realtà contemporanea, è servito per mitigare il giudizio storico sul nazifascismo. Cosa ha che fare la Russia di Putin con il comunismo? Certo la formazione di quest’ultimo è avvenuta nei temibili servizi segreti dell’URSS, tuttavia, nei discorsi che hanno preceduto e accompagnato l’invasione dell’Ucraina, Putin ha portato un ferocissimo attacco sia a Lenin che a Krusciov: Il primo reo di aver riconosciuto l’Ucraina come Repubblica, il secondo per avergli ceduto la penisola di Crimea nel 1954.
I riferimenti culturali di Putin costituiscono un caleidoscopio complesso recentemente oggetto di molti interessanti saggi che mostrano, anche in questo caso, un uso spregiudicato della Storia.
Anche esperienze positive di governo, come quelle della sinistra in Spagna e Portogallo, non bastano a contrastare processi che prescindono dalla dimensione nazionale e richiederebbero una soggettività politica, almeno nella dimensione istituzionale europea.
In sintesi: la sinistra in Europa, appare frammentata e ininfluente, incapace di darsi una dimensione teorica, politica, programmatica all’altezza della sfida che la destra sta già praticando con qualche successo.
Qualche novità sembra arrivare dal Congresso della CES (Confederazione Sindacale Europea) dove, per la prima volta, è emersa la consapevolezza e la necessità della costruzione di una dimensione europea nelle rivendicazioni del mondo del lavoro, si è indicato il “contratto europeo” come uno degli obiettivi da perseguire, d’altronde l’inflazione e la guerra hanno colpito principalmente le classi lavoratrici.
C’è da sperare che il conflitto sociale possa costituire quell’elemento nuovo, capace di rianimare una situazione di pericolosa stagnazione e di sostanziale crisi, tuttavia, ciò rischia di non bastare in assenza di una sinistra in grado di elaborare una lettura autonoma della realtà ed una prospettiva che non si limiti alla sommatoria di punti programmatici, spesso disattesi