È vero che uno dei problemi tedeschi (specie se visti da sinistra) è il declino del sindacato e delle relazioni industriali? Il tema non è nuovo, dal momento che uno studioso importante come Streeck aveva messo in guardia da questo pericolo più di dieci anni fa. Esso però va, a mio avviso, ri-declinato. Non si tratta di uno dei fattori causali dell’attuale crisi tedesca, quanto piuttosto di una delle conseguenze di scelte strategiche più ampie che hanno riguardato, dopo l’unificazione, il modello di sviluppo e il mercato del lavoro. La vera domanda da cui partire è: come è possibile che siano bastati due anni di stagnazione economica a mettere in crisi un sistema così oliato e potente? o sono (anche) altre le variabili che si sommano all’incertezza economica e aumentano la diffusa insoddisfazione sociale?
Una crisi di lungo periodo
L’insicurezza diffusa e i potenziali di frattura sociale sono fattori di lungo periodo. Tutto ha inizio circa vent’anni fa all’epoca dell’ultimo governo socialdemocratico a guida di Schroeder che precede quello attuale, ormai agli sgoccioli, di Scholz e prima della lunga stagione costruita intorno alla leadership della Merkel. In quel periodo vengono fatte due operazioni di grande portata che continuano a produrre effetti nel lungo periodo: e sono entrambe operazioni discutibili o comunque chiaroscurali, che troviamo alla radice delle attuali difficoltà tedesche.
La prima riguarda la scelta di concentrare lo sviluppo intorno alla grande industria esportatrice (motore tradizionale ma non esclusivo). Anche quello era un momento di passaggio e di rallentamento economico e tale opzione porta alla centralità economica del modello di crescita fondato sul primato ‘export led’ che aveva cominciato a prendere fiato negli anni successivi all’unificazione tedesca. Alla centralità politica di quel modello, preesistente, si aggiunge ora quella economica e sociale. Si tratta di una scelta di politica industriale diremmo noi, visto che la Germania non ha rinunciato a svolgere questa funzione di indirizzo politico nella sfera economica.
Il rilancio della produzione di qualità da parte delle grandi manifatture tedesche aveva evidenti benefici dal punto di vista della dinamica economica: se ne avvantaggiavano le industrie più importanti e anche i loro lavoratori, che godevano di elevate protezioni e di livelli salariali prossimi ai nostri ceti medi. Ma era una opzione che lasciava dietro, insieme alla domanda interna, interi settori produttivi, dentro e fuori la Germania: nell’ambito di quelle catene del valore che concorrevano alla definizione del prodotto finale, e di cui una parte si trova anche nelle aziende subfornitrici italiane. Questa operazione, dunque, spingeva in direzione della contestuale accettazione della presenza di un settore sociale e produttivo meno dinamico e meno protetto accanto a quello centrale, e iper-protetto, organizzato intorno al primato dell’industria (esportatrice) e della classe operaia manifatturiera.
Il Piano Hartz. Nasce un ‘secondo’ mercato del lavoro
E a questo punto intervengono le famose leggi e il Piano Hartz (dal nome del ministro del lavoro) – il secondo tassello conseguenza del primo – mediante le quali prende forma e si definisce lo spazio di questo secondo mercato del lavoro, insediato soprattutto nei servizi. Esso è interdipendente con il primo, e dunque accompagna la concentrazione di risorse e di impegno strategico verso il primato dell’industria come prototipo di ‘via alta’ alla competizione: centrata cioè – a differenza di larga parte di quella italiana – sulla qualità dei prodotti e su un elevato valore aggiunto.
Questo secondo mercato del lavoro viene istituzionalizzato e per quanto possibile tutelato. Esso si compone di lavoratori con occupazioni e/o orari brevi, i cosiddetti mini-jobs, che si situano strutturalmente in una posizione più bassa rispetto ai lavoratori del settore centrale. Ma ottengono alcuni benefit per i periodi in cui non lavorano e sul piano della complessiva garanzia del loro reddito (comunque distante da quello degli altri).
Quasi tutti gli studi ed analisi parlano di un dualismo introdotto consapevolmente e usato per strutturare e disciplinare il mercato del lavoro in funzione delle priorità dell’assetto economico. Non, quindi, una operazione sgangherata e casuale, come si sono rivelate una parte delle traiettorie italiane relative ai lavori flessibili e discontinui, bensì una elaborazione consapevole ed intenzionale mirata a rilanciare l’economia tedesca tenendo sotto controllo le divisioni e le tensioni sociali.
Come sappiamo queste scelte, non dissimili da quelle poi ereditate ed implementale dalla Merkel, hanno assicurato un funzionamento accettabile all’apparato economico tedesco. Non grandi ritmi di crescita, ma costanti, avanzi di bilancio, un equilibrio sociale faticoso ma funzionante e costi scaricati all’esterno nei settori più deboli dell’economia e nei paesi più deboli e messi in riga dalla disciplina del Patto di Stabilità europeo.
La caduta della sindacalizzazione e della copertura contrattuale
Questo dualismo ha avuto inevitabili effetti erosivi (anche) sul sindacato tedesco e sulla tenuta complessiva delle relazioni industriali. Se guardiamo ai dati generali si potrebbe pensare ad un ridimensionamento significativo (sulla scorta anche delle considerazioni di Streeck e di altri). Infatti, l’ultimo ventennio è caratterizzato da un declino costante della sindacalizzazione, che si situa ormai sotto il 20%. E anche dal restringimento, più preoccupante, del tasso di copertura contrattuale, che supera non di molto la quota fatidica del 50%.
In realtà, è soprattutto quest’ultimo il dato più preoccupante. Il tasso di sindacalizzazione tedesco è stato storicamente sempre ridotto, se misurato su scala comparata, salvo un rimbalzo verso l’alto nel periodo successivo all’unificazione. La forza del sistema e, quindi, il potere che ne deriva del sindacato, è piuttosto da attribuire all’elevata giuridificazione (una pista opposta a quella italiana) che ha consolidato sin dai primi anni cinquanta gli istituti delle relazioni industriali sul terreno della rappresentanza, dei diritti dei lavoratori in ambito aziendale (i quali si estendono, inclusi quelli elettorali, alle imprese minori ) , degli strumenti di partecipazione che nel 1976 si spingono fino a delineare un assetto compiuto di codeterminazione (Mitbestimmung).
Questo impianto, tipico della strategia socialdemocratica, è stato nella sostanza accettato e mai messo in discussione anche dai cristiano-democratici. I quali ne avevano elaborato i fondamenti già nel primo dopoguerra, così come avevano impostato l’economia sociale di mercato che ne era un presupposto: cosa che dava vita a quello che in seguito sarà definito come ‘capitalismo renano’, costruito intorno all’idea di un reciproco vantaggio tra sviluppo capitalistico e diritti sociali. Una costruzione delle relazioni industriali che costituiva un retroterra importante e una risorsa di potere, che non veniva messa in discussione e continuava a svolgere le sue funzioni, seppure in un quadro divenuto meno favorevole. Tanto che per molti studiosi di relazioni industriali il sindacato tedesco resta il più potente al mondo. La capacità di adattamento del sindacalismo tedesco, grazie soprattutto all’importanza delle organizzazioni di settore come la Ig Metall, ha a lungo confermato e riattualizzato questa valutazione. La diponibilità a concertare la dinamica salariale e a tenerla moderata, in particolare nei momenti critici, a valutare politiche di orario tese ad aumentare la produttività, la progressiva accettazione delle clausole d’uscita dai contratti di settore con lo scopo di accrescere la flessibilità negli accordi aziendali: un ampio strumentario che ha confermato il ruolo del sindacato come partner indispensabile nelle politiche industriali e di crescita.
La talpa della dualizzazione del mercato del lavoro
La crescente dualizzazione del mercato del lavoro ha operato nel lungo periodo come una talpa impegnata a scavare e a delimitare gli spazi dell’azione sindacale. Mentre nei settori centrali la presa sindacale restava salda, anche sul piano associativo, è nel secondo mercato del lavoro, e più generale nei servizi, che invece è possibile osservare un cedimento. Infatti il principale buco organizzativo, e la caduta degli iscritti, si trovano nella parabola del sindacato di settore Ver.Di. Nato con l’ambizione di essere il protagonista della rappresentanza nei nuovi settori e nella attitudine ad unificare il mondo variegato delle attività nei servizi, dopo un iniziale successo, perde progressivamente peso quantitativo e capacità di influenza. Segnalando una generale difficoltà a radicarsi e a svolgere un ruolo dentro un ambito dove è avanzata la frantumazione del lavoro in lavorini e le riposte contrattuali appaiono incerte e problematiche.
Il dualismo nel mercato del lavoro ha, dunque, prodotto, come era forse inevitabile, un dualismo crescente nelle relazioni industriali: solide e importanti nel core dell’economia tedesca, decisamente marginali nei suoi segmenti periferici. L’effetto sul sindacato potrebbe essere ancora più distruttivo se dovesse prendere quota, trainato dalla caduta dell’automotive, un ridimensionamento storico dell’industrialismo tedesco, che a sua volta trascinerebbe con sé, per la prima volta nel dopoguerra, un restringimento della cintura di sicurezza – occupazionale e salariale – degli operai centrali manifatturieri. Anche perché in parallelo si manifestava, come già ricordato, il restringimento della copertura contrattuale, dovuto alla debolezza nei servizi privati e alla spinta di una parte del padronato tedesco a disaffiliarsi dalla loro Confindustria, sebbene limitatamente agli impegni di derivazione negoziale.
Il ‘salvagente’ del salario minimo
Tutti e due i problemi si trovano alla base della svolta praticata dal sindacalismo tedesco, che capisce l’importanza di ricorrere ad un salvagente che tuteli i salari, in particolare quelli bassi. E dunque richiede e concerta con il governo (Merkel) l’introduzione del salario minimo legale. Passaggio che in effetti avviene con successo, e con impatti considerati favorevolmente, nel 2015.
Il dualismo istituzionalizzato condanna, però, le relazioni industriali tedesche ad essere, anche esse giocoforza, sempre più dualistiche. Con il rischio che la coperta diventi in progress ancora più corta. E soprattutto che le difficoltà del settore trainante dell’economia contribuiscano ad alimentare l’insicurezza sociale crescente. Un dato legato ai bisogni materiali, divenuti più incerti e insoddisfatti, rispetto a cui l’ostilità verso gli immigrati costituisce un rassicurante ombrello e collante ideologico. La crisi tedesca è ormai anche, se non innanzitutto, una crisi sociale e di identità oltre che di modello produttivo, il che richiederebbe alla sinistra di rimettere mano seriamente ad un progetto di società più equo e meno divisivo.