L’ideologia del capo nasce a destra. È sostenuta e alimentata dal Movimento sociale, sin dalla sua formazione (1946-1947). E, un anno dopo, alla vigilia delle elezioni del 1948 sarebbe stata posta al centro del suo “programma istituzionale”. L’obiettivo perseguito dai reduci di Salò era quanto mai chiaro: «un capo eletto dal popolo e non scelto con un compromesso tra i partiti»[i].
D’altra parte, per i nostalgici del regime il nemico da abbattere non era genericamente l’assetto democratico delineato dalla Costituzione, ma più specificatamente la democrazia parlamentare, incardinata sul sistema dei partiti. E non a caso definita, dai suoi detrattori, una democrazia acefala: una democrazia senza capo.
Il parlamentarismo come deviazione dalla vera sovranità popolare
A tracciare, i lineamenti istituzionali del presidenzialismo missino, sarebbe stato, nel corso degli anni Cinquanta, Carlo Costamagna, uno dei giuristi di punta del regime fascista, poi avversario inflessibile dell’ordinamento democratico-costituzionale e, segnatamente, del «principio parlamentare», da questi sprezzantemente liquidato – in un articolo apparso sulla rivista Tabula Rasa – come una vera e propria deviazione della sovranità popolare[ii].
In quegli stessi anni, a rinvigorire il mito della democrazia del Capo, sarebbe stato però anzitutto l’avvento della V Repubblica in Francia (1958). In Italia a ostentarne pregi e virtù avrebbe provveduto, in particolare, il repubblicano Randolfo Pacciardi, leader e fondatore nel 1964 di una nuova formazione politica: “L’Unione Democratica per la Nuova Repubblica”.
Gli obiettivi perseguiti da “Nuova Repubblica” erano prevalentemente due. Da una parte, costruire le condizioni politiche idonee per imprimere al Paese una svolta in senso presidenzialista (sul modello della quinta Repubblica francese) al fine di ripristinare, anche in Italia, l’autorità di un «capo responsabile della Nazione»[iii]. Dall’altra colpire e disarticolare il sistema dei partiti. Insomma, per gli ideologi della democrazia immediata, anche in Italia era giunto il momento di «seppellire lo sconcio regime partitocratico che in Francia non tornerà più»[iv].
All’interno di questa prospettiva, la repubblica presidenziale era destinata pertanto a rappresentare il momento di fondazione di una nuova unità nazionale, il luogo di ricomposizione delle drammatiche lacerazioni del passato alimentate dalla guerra partigiana. Un percorso certamente arduo e che solo Pacciardi («l’antifascista da sempre») avrebbe potuto guidare, dichiarandosi disponibile ad accogliere nelle proprie file «i militi della Repubblica sociale in nome di un’Italia nuova»[v].
Ma, nella contingenza storica di quegli anni, l’instaurazione della repubblica presidenziale aveva anche un altro immediato e strategico obiettivo da realizzare: «porre fine alla “dittatura d’assemblea” e schiacciare il partito comunista»[vi].
Prospettiva fatta propria dal Movimento sociale e, segnatamente, da uno dei suoi esponenti di spicco: Giorgio Pisanò, ex repubblichino e leader del Movimento Seconda Repubblica. Nella sua visione la «lotta per il presidenzialismo» aveva il compito di «riorientare la politica dell’estrema destra»[vii] e ridefinirne le coordinate.
In quegli stessi anni avrebbe preso piede nel Paese la strategia della tensione, permeata da trame occulte e “golpismo” (dal golpe Borghese al “golpe bianco” di Edgardo Sogno), il cui obiettivo ultimo era imporre una svolta autoritaria in Italia per rigenerare le fondamenta della Repubblica, concentrando tutto il potere politico nelle mani di un Capo eletto direttamente dalla Nazione[viii].
Governabilità e sinistra presidenzialista
A cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta la questione costituzionale si apprestava però a subire una torsione senza precedenti: la retorica del capo avrebbe d’improvviso travalicato i confini della destra. E anche a sinistra avrebbe iniziato a prendere progressivamente piede il revisionismo costituzionale, il cui obiettivo di fondo era anzitutto uno: l’instaurazione del presidenzialismo.
Entrata in crisi la centralità del Parlamento, iniziarono contestualmente ad affermarsi nel senso comune altre istanze e altri valori[ix]. In primis: l’etica del capo, enfaticamente sfoggiata, da taluni giuristi, come la panacea di tutti i mali, la sola «credibile strategia intesa a recuperare la governabilità del Paese»[x].
In Italia a interpretare compiutamente queste istanze fu il presidenzialismo craxiano. Ne sarebbe scaturita un’offensiva senza precedenti, finalizzata a decretare la fine della democrazia parlamentare e a porre le condizioni essenziali per una più complessiva riscrittura della Carta del ’48, ritenuta oramai «non più adatta alle esigenze della nostra moderna dinamica società»[xi]. Negli anni a venire, il presidenzialismo craxiano sarebbe rapidamente tramontato. Ma non gli obiettivi istituzionali da esso perseguiti.
Tra gli anni Ottanta e Novanta, due soluzioni, in particolare, sarebbero venute contendendosi il monopolio della strategia riformatrice:
a) il premierato elettivo. Riforma avallata, in quegli anni, con singolare rigore concettuale, dal “Gruppo di Milano”, coordinato da Gianfranco Miglio. Il “Gruppo” pur dichiarandosi, in via di principio, favorevole all’instaurazione di una repubblica presidenziale nelle forme sperimentate dalla «Costituzione statunitense e (in parte) da quella francese della Quinta Repubblica», riteneva tuttavia che «un regime “presidenziale puro” sarebbe stato soggetto, qui in Italia, a notevoli rischi di degenerazione»[xii]. «Convinzione» che avrebbe indotto il Gruppo ad accordare, in ultima istanza, la propria preferenza alla «ipotesi della distinzione fra “capo del Governo” e “capo dello Stato”, riservando soltanto al primo l’investitura diretta, popolare (e squisitamente “politica”), quale si addice al titolare del “potere attivo”. Da qui un regime del tipo che si suole chiamare “del Primo Ministro”»[xiii].
b) il revisionismo presidenziale di matrice cossighiana. Nel corso del suo settennato, Cossiga, oltre a inaugurare una prassi presidenziale insofferente e quanto mai riluttante ad accettare statuti e vincoli della forma di governo italiana, non avrebbe esitato a tracciare un articolato processo di riforme, sebbene tutte concordi ad «affermare in concreto la naturale e primigenia preminenza della sovranità popolare e il carattere originario dell’essere il popolo in democrazia l’unico vero sovrano reale»[xiv].
Il premierato elettivo
Il premierato elettivo proposto recentemente dalle destre si colloca all’interno di questo crinale ideologico. Analoghe le soluzioni, affini le strategie, identiche le parole: governabilità, democrazia decidente, governo di investitura, elezione diretta dei capi dell’esecutivo (la relazione di accompagnamento al disegno di legge costituzionale è un condensato di tutto questo). Un linguaggio che perpetua la smania di rivincita che aveva animato il revisionismo costituzionale missino nel corso della “prima Repubblica”, ma questa volta artatamente combinato alle istanze e alle parole d’ordine del “nuovismo” dei primi anni Novanta del secolo scorso. Anni nei quali (quasi) tutta la politica italiana si era illusa che bastava travolgere il «diaframma partitico» (a livello territoriale e, in prospettiva, anche nazionale) per rivitalizzare la vita democratica del Paese. Una costruzione ideologica che (grazie alla copertura offerta dal sistema mediatico e, attraverso esso, dalla grande impresa) ha, in passato, goduto di un appeal straordinario in Italia. E – a ben vedere – non solo in Italia.
Presidenzialismi e crisi della rappresentanza
Erano quelli gli anni del crollo del muro di Berlino. Anni nei quali anche i Paesi dell’est europeo, nell’avviare la transizione democratica, decisero di introdurre nelle loro costituzioni l’elezione diretta del vertice dell’esecutivo (seppure perseguita con modalità e soluzioni variegate). Ma questo – come ho appena detto – accadeva nel secolo scorso.
Il quadro che viene oggi dipanandosi davanti ai nostri occhi è di tutt’altro tenore. Ed è un quadro impietoso: in questi anni il mito della governabilità è stato repentinamente sopraffatto da una drammatica crisi della rappresentanza. Gli elettori non scalpitano – come molti avevano auspicato – per eleggere il capo dell’esecutivo. Né a livello locale, né a livello regionale (eppure stiamo parlando dei cd. enti di prossimità). Le nuove democrazie dell’est europeo sono degenerate in molti casi in autocrazie. E anche le altre democrazie di investitura, quelle attive nei cd. paesi a costituzionalismo stabilizzato, oggi non godono più di buona salute. Pensiamo alle tensioni politiche venute maturando, proprio in queste settimane in Francia e negli Usa. Crisi che sarebbe sbagliato liquidare nei termini iconici di crisi di leadership. In entrambi i casi siamo di fronte a vere e proprie crisi di sistema. Né vi è da sorprendersi: in questi anni le società sono divenute sempre più complesse e pensare di governarle escogitando drastici strumenti di semplificazione del consenso, più che un’illusione, è un azzardo.
La reductio ad unum del sistema può essere efficacemente sperimentata in comunità omogenee, ma non in società sempre più divise e frammentate al loro interno: il rischio che si corre è quello di mettere a repentaglio la fisiologia del sistema e la stessa capacità di tenuta dell’ordinamento.
La crisi democratica che sta oggi erodendo le società contemporanee non può essere elusa. Da dove nasce allora questa pretesa di voler fare come in Polonia, Russia, Ucraina, Turchia, nonostante Duda, Putin, Zelensky, Erdogan? Siamo veramente convinti che grazie all’elezione diretta del capo saremo in grado di governare meglio le nostre società? Non ci dicono nulla le mobilitazioni in Francia di questi mesi? E soprattutto come non vedere che in Francia bersaglio di questa crescente insofferenza politica e sociale non sono solo le manovre di vertice ordite da Macron, ma più complessivamente il sistema politico. Quel sistema che ha prodotto Macron e le sue politiche sociali.
Uscire dalla Quinta Repubblica. È questo che chiedono i tanti giovani che, nei mesi scorsi, si sono riversati nelle strade di Parigi. E se ne comprendono le ragioni: fino a oggi, la Quinta Repubblica francese ha solo prodotto «verticalità del potere, un assurdo centralismo, […] l’assenza di dialogo, il disprezzo per le parti sociali, il culto del leader e la sopraffazione del parlamento»[xv].
Anche per i francesi è, insomma, giunto il momento di dare vita a una repubblica «pienamente parlamentare, pienamente rappresentativa, che porti finalmente la Francia nel tempo della democrazia moderna»[xvi]. Un progetto arduo e quantomai ambizioso. Auguriamoci che, almeno in futuro, la Francia possa riuscirci. Ma, soprattutto, evitiamo che a precipitare nella spirale del Capo sia ora il nostro paese.
[i]Programma per elezioni politiche (1948), in F. D’Arcais (a cura di), Il Movimento sociale italiano: documentazione sulle premesse ideologiche e i precedenti storici, Italgraf, Roma, 1951, p. 190.
[ii] C. Costamagna, Una Costituzione impossibile (1956), in G. Malgeri (a cura di), Carlo Costamagna, Sette colori, Vibo Valentia, 1981, p. 146.
[iii] R. Pacciardi, Una Repubblica da riformare (10 maggio 1964), in Id., Scritti e discorsi (1937-1971), CRD- Camera dei deputati, Roma, 2011, p. 221.
[iv] R. Pacciardi, La repubblica partitocratica (11 maggio 1969) in Id., Scritti e discorsi, cit., 351.
[v] G. Flamini, L’Italia dei colpi di Stato, Newton Compton Editori, Roma, 2007, pp. 76-77.
[vi] M. Volpi, Il semipresidenzialismo tra teoria e realtà, Bononia University Press, Bologna 2014, p. 99.
[vii] Ivi, 100.
[viii] E. Sogno, La storia, la politica, le istituzioni. Considerazioni sull’antifascismo, sulla storiografia contemporanea e sulle riforme costituzionali, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1999, p. 234.
[ix] E. Cheli, La “centralità parlamentare”: sviluppo e decadenza di un modello in Quad. cost., 1981, pp. 343 ss.
[x] G. Amato, La riforma delle istituzioni centrali: la forma di governo e il sistema elettorale (1979), in Id., Una Repubblica da riformare, Il Mulino, Bologna, 1980, p. 194.
[xi] B. Craxi, Relazione alla conferenza programmatica di Rimini (1990), ora in Id., Scritti e discorsi, Ed. Avanti, Roma, 1991, p. 55.
[xii] G. Miglio, Introduzione, in Gruppo di Milano, Verso una nuova Costituzione, Giuffrè, Milano, 1983, I, p. 37.
[xiii] Ivi, pp. 37-38.
[xiv] Messaggio alle Camere del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga del 26 giugno 1991.
[xv] M. Vogel, «Si la Ve République a longtemps prétendu être un rempart contre l’arrivée au pouvoir de l’extrême droite, elle en est aujourd’hui le chemin le plus assuré», in Le Monde, 24 aprile 2023.
[xvi] Ibidem.