La tutela dell’ambiente era già parte integrante dell’ordinamento. A ribadirlo era stato in più occasioni lo stesso giudice costituzionale per il quale «sebbene il testo originario della Costituzione non contenesse l’espressione ambiente, né disposizioni finalizzate a proteggere l’ecosistema, [la] Corte con numerose sentenze aveva riconosciuto (sentenza n. 247/1974) la “preminente rilevanza accordata nella Costituzione alla salvaguardia della salute dell’uomo (art. 32) e alla protezione dell’ambiente in cui questi vive (art. 9, secondo comma)”, quali valori costituzionali primari» (sentenza n. 210 del 1987).
Una revisione superflua e gattopardesca
Il recepimento formale nella prima parte della Costituzione della tutela ambientale ci pone, pertanto, al cospetto di una «revisione-bilancio». Una revisione superflua, non finalizzata a introdurre in Costituzione ius novum (in coerenza con le finalità sottese all’art. 138 Cost.), ma protesa esclusivamente a offrire una sanzione formale a innovazioni normative già consolidatesi nell’ordinamento.
Le modifiche introdotte in Costituzione si sono limitate, in altre parole, a riepilogare soluzioni normative che erano già state recepite sul piano giuridico (grazie alla progressiva sedimentazione del diritto nazionale, eurounitario e internazionale) e ampiamente consolidate sul terreno giurisprudenziale. Di qui l’impianto gattopardesco sotteso a questo modello di revisioni: cambiare la forma del testo costituzionale senza cambiare nulla nella sostanza.
La revisione costituzionale non è uno spot da confezionare per sensibilizzare e diffondere fra i cittadini una più salda coscienza ambientalista. Né tanto meno può essere liquidata alla stregua di un espediente semantico da adottare per meglio esplicitare il significato sotteso ai nuovi obblighi internazionali in materia ambientale o per meglio filtrare i contenuti della giurisprudenza della Corte. Si tratta, in tutti questi casi, di finalità certamente virtuose, ma che mal si conciliano con la fisiologia costituzionale dell’art. 138 Cost. e soprattutto con i criteri che dovrebbero sovrintendere alla stesura delle disposizioni di principio, per loro natura concise ed essenziali.
Con la recente revisione costituzionale il Parlamento è intervenuto sui principi fondamentali (artt. 1-12 Cost.). E questo, nel corso della storia repubblicana, non era mai accaduto. Si è così venuto innestando, su questo delicato terreno, un precedente, un antefatto che in futuro potrebbe essere maldestramente impiegato per scalfire direttamente, e non più per vie traverse, come è altre volte avvenuto (si pensi alla revisione dell’art. 81 Cost.), norme e principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale «che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana» (Corte cost., sent. n. 1146/1988).
Né parrebbe convincente (e soprattutto efficace) la soluzione, da tempo prospettata, protesa a inibire esclusivamente le revisioni «regressive» dei principi supremi. La distinzione tra revisioni progressive e revisioni regressive dei principi supremi, seppure chiara in astratto, appare foriera di non poche incognite sul piano costituzionale. Sia in ragione delle inevitabili ripercussioni che la modifica costituzionale di una norma di principio è destinata a innescare sugli altri principi e, quindi, sul testo costituzionale nel suo complesso. Sia perché la selezione dei criteri di distinzione adottabili, per discernere gli emendamenti peggiorativi da quelli migliorativi della Costituzione, è destinata ad essere filtrata, o meglio soggiogata, da valutazioni di tipo politico aventi ad oggetto le modifiche contingenti da apportare al testo. Modifiche che, soprattutto, in caso di avallo popolare ex art. 138.2 Cost., nessun giudice costituzionale sarà in grado di arginare al fine di vanificarne l’efficacia o, laddove necessario, scongiurarne i possibili effetti para-costituenti.
Il principio ambientalista e il caso Ilva
Non era, pertanto, necessario costituzionalizzare, sul piano testuale, il principio “ambientalista” per renderlo vincolante o bilanciabile con altri interessi o principi. La tutela dell’ambiente già lo era. Altra cosa è, invece, il modo in cui, nel corso del tempo, si è concretamente proceduto al suo recepimento o bilanciamento ogni qual volta le ragioni della tutela ambientale si sono scontrate con altri diritti o altri interessi costituzionalmente protetti (il lavoro, la libertà di impresa, il “valore” di un suolo). Su questo terreno il saldo finale derivante dall’impiego delle tecniche di bilanciamento (il “bilancio dei bilanciamenti”) è quanto mai deludente: le pratiche speculative hanno continuato ad essere tollerate dal sistema; gli incentivi “tossici”, corrisposti a produzioni ritenute nocive per la salute di chi lavora e per l’ambiente, hanno seguitato a prosperare; gli interessi dell’impresa hanno (quasi) sempre prevalso sulle ragioni della tutela ambientale. Il caso Ilva docet.
Un esito che non può essere banalmente ricondotto alla risalente assenza in Costituzione (e segnatamente nell’art. 41) della tutela ambientale, ma che andrebbe semmai fatto discendere dalle soluzioni, quanto mai deboli o per lo meno opinabili, avallate, in sede di bilanciamento degli interessi, dal legislatore e dal giudice costituzionale.
Che la nozione di «fini sociali» (ex art. 41.3) includesse la tutela ambientale e che il concetto costituzionale di sicurezza (ex art. 41.2) ricomprendesse anche la salute e l’ambiente era a tutti noto (in primis a dottrina e giurisprudenza). E lo era anche al Governo che, nel procedere alla stesura del discusso art. 3 del d.l. n. 92/2015 (cd. decreto Ilva) non avrebbe esitato a evocare «il necessario bilanciamento tra le esigenze di continuità dell’attività produttiva, di salvaguardia dell’occupazione, della sicurezza sul luogo di lavoro, della salute e dell’ambiente salubre, nonché delle finalità di giustizia».
Nella stessa direzione si era mosso, qualche anno prima, il giudice delle leggi intento a rimarcare i presupposti del «ragionevole bilanciamento tra diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione, in particolare alla salute (art. 32 Cost.), da cui deriva il diritto all’ambiente salubre, e al lavoro (art. 4 Cost.)» (Corte cost., sent. n. 85/2013).
L’ambigua equità intergenerazionale
La revisione costituzionale, al terzo comma dell’art. 9, ha costituzionalizzato, infine, «l’interesse delle future generazioni». Si tratta di un nodo quanto mai delicato. Un tema ricco di implicazioni politiche, giuridiche e soprattutto filosofiche. Ma, allo stesso tempo, denso di insidie e di ambiguità. Sia perché non siamo in grado di prevedere quale sarà la reale portata degli interessi e delle aspirazioni delle future generazioni. Sia perché le generazioni si susseguono ininterrottamente, senza soluzioni di continuità, a tal punto da rendere impossibile ogni distinzione tra gli interessi dell’oggi e quelli futuri. A ciò si aggiunga che il tema delle “generazioni future” è stato in questi anni agitato (soprattutto su impulso dei Trattati Ue) al fine precipuo di offrire copertura giuridica e una più estesa legittimazione costituzionale alle politiche di austerity. Ci si riferisce al tentativo, oramai da tempo perseguito, di dotare il sistema di golden rule (recepito in Costituzione con la revisione dell’art. 81) di una seconda gamba: un nuovo parametro costituzionale in grado di blindare ulteriormente le politiche di bilancio e fornire, per questa via, un aggancio normativo esplicito agli incalzanti cedimenti registratisi, nel corso degli anni, su questo delicato terreno. Cedimenti che hanno investito appieno anche la giurisprudenza costituzionale. Si pensi alla sent. n. 88/2014 con la quale la Corte non ha esitato a ricavare dalla nuova formulazione dell’art. 81 la nozione di «equità intergenerazionale».
Nozione dalla quale discenderebbe «la necessità di non gravare in modo sproporzionato sulle opportunità di crescita delle generazioni future, garantendo loro risorse sufficienti per un equilibrato sviluppo» (Corte cost., sent. n. 18/2019).
Su questo terreno si è venuta recentemente innestando anche la riforma dell’art. 9 Cost. Un ulteriore tentativo di costituzionalizzazione delle politiche di austerity, proteso a blindare indirizzi e contenuti dell’azione di bilancio, già posti oggi sotto controllo dalle istituzioni Ue, dalle agenzie di rating, dalle istituzioni economiche globali. E tutto ciò solo a fin di bene. O meglio per il bene delle generazioni future.