IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Il non detto dell’agenda sociale del governo

Salario minimo e reddito di cittadinanza sono per la destra strumenti dannosi per il mercato del lavoro: furore ideologico funzionale a congelare lo svantaggio sociale. La disoccupazione dipende dalle esose pretese di chi non è disposto ad abbassarsi il salario: la storia ha già sconfessato questo postulato dell’economia neoclassica.

Qual è l’agenda sociale della destra al governo? E quale idea di stato sociale emerge dai provvedimenti sin qui adottati o messi in cantiere, a cominciare dalla tanto discussa revisione del Reddito di Cittadinanza? Poco meno di un anno non è un tempo sufficientemente ampio per trarre delle conclusioni. Alcuni segnali sono tuttavia inequivocabili.

Poveri non meritevoli

Il Governo ha chiarito cosa intende fare del Reddito di Cittadinanza: distinguere nettamente tra poveri meritevoli che non possono lavorare e che potranno avere accesso al sussidio e poveri, evidentemente non meritevoli, ma abili al lavoro che dovranno trovarsi un’occupazione, qualunque essa sia. Per loro ci saranno i Centri per l’impiego e la reintroduzione dei voucher per il lavoro accessorio. Introdotti per la prima volta nel 2003 con la legge Biagi per favorire la regolarizzazione del lavoro domestico, i buoni lavoro sono stati prima liberalizzati a tutti i settori nel 2012 (Governo Monti) e poi aboliti nel 2017 (Governo Gentiloni), sotto la minaccia di un referendum abrogativo promosso dalle organizzazioni sindacali. La liberalizzazione del 2012 era stata presentata come un modo per agevolare le assunzioni regolari nei settori ad alta intensità di lavoro e bassa produttività (turismo, agricoltura, commercio, cura), replicando il modello dei minijobs tedeschi. Come parte integrante delle tanto discusse riforme Hartz, i minijobs hanno rappresentato una delle parti più controverse delle riforme che hanno consentito alla Germania di aumentare i tassi di occupazione, ma al prezzo di una crescita senza precedenti del lavoro povero. I buoni lavoro replicavano lo stesso schema, ma in peggio, per l’assenza del reddito minimo garantito.

“Ogni offerta crea sempre la propria la propria domanda”

Adesso la storia potrebbe ripetersi, tornando al punto di partenza. Da un lato viene rivendicata l’abolizione del Reddito di Cittadinanza per chi è povero ma può lavorare, dall’altro, si ripropone il voucher come strumento di inserimento lavorativo, senza rendersi conto che così facendo aumenterà ancora di più l’area del lavoro povero. Ma d’altra parte, per chi vuole abolire il Reddito di Cittadinanza non è rilevante la povertà da lavoro, perché qualunque lavoro, anche quello sottopagato, è preferibile agli effetti perversi dell’assistenza. Sembra di sentire riecheggiare la vecchia Legge di Say secondo cui “ogni offerta crea sempre la propria la propria domanda”. Tradotto in concreto, il problema della disoccupazione dipende dalle pretese troppo esose di chi non è disposto ad abbassarsi il salario per entrare o rientrare nel mercato del lavoro. La storia si è già incaricata di sconfessare questo postulato dell’economia neoclassica. Stupisce semmai che a distanza di così tanti anni e nel pieno di una crisi che rischia di avere effetti di nuovo devastanti, si pensi ancora che la disoccupazione sia una scelta e che il rimedio non possa che essere l’abbattimento del costo del lavoro.

La domanda di lavoro, un oggetto misterioso

Le modifiche al Reddito di Cittadinanza produrranno certo dei risparmi (2-3 miliardi all’anno si stima) ma i problemi di chi è a rischio povertà nonostante abbia un lavoro rimarranno. Anzi, è molto probabile che aumenteranno. I dati li conosciamo e sono preoccupanti. Più dell’11% della forza lavoro in Italia è a rischio povertà, una percentuale nettamente al di sopra della media europea (l’8,9% nel 2021), con le punte di maggiore disagio tra i giovani, le donne e nelle regioni del Sud. Il paradosso è che non si contano così tanti occupati in Italia come oggi, come ha ricordato l’Istat nell’ultimo rapporto sull’occupazione (+465 mila unità rispetto allo scorso anno). Ma non basta aumentare l’occupazione per avere condizioni di lavoro decenti, se quasi la metà dei lavoratori italiani ha contratti scaduti che non vengono rinnovati. E non basta eliminare o dare una stretta al Reddito di Cittadinanza perché gli attivabili trovino un lavoro, né basta dire che sarà rafforzata la formazione. Già oggi i beneficiari devono seguire corsi di formazione. Lo stesso programma GOL (Garanzia di occupabilità dei lavoratori) ha tra i suoi target i percettori di Reddito di Cittadinanza. Ma anche con i nuovi corsi di formazione i risultati rischiano di rimanere al di sotto delle attese, specie nelle aree del paese più deboli, dove peraltro la presenza delle agenzie private di collocamento (che entreranno nel sistema di attivazione) è scarsa. E questo per un semplice motivo. Quando la domanda è debole o stagnante, come in molte aree del Mezzogiorno, quando il lavoro pagato poco o sommerso è l’unica alternativa alla disoccupazione, le politiche attive del lavoro possono poco se rimangono slegate da interventi per creare e fare emergere nuova domanda di lavoro. Niente, in effetti, è previsto sulla domanda di lavoro, come fosse un oggetto misterioso. Semmai viene sempre riproposto il tema degli incentivi alle assunzioni, peraltro già previsti dall’attuale normativa sul Reddito di Cittadinanza e di fatto poco utilizzati dalle stesse imprese.

Furore ideologico

In Italia abbiamo dovuto attendere decenni prima di arrivare all’introduzione di una effettiva politica contro la povertà. Nonostante l’impatto positivo dimostrato nel ridurre la povertà, il Reddito di Cittadinanza rischia oggi più che mai di essere travolto dal furore ideologico di chi lo ritiene non solo inefficace ma anche fonte di sprechi e clientele alimentate dall’assistenzialismo della peggiore specie. Non basta a giustificarne l’utilità il milione di persone sottratte alla povertà assoluta certificato dall’Istat, né il contributo alla tenuta dei redditi delle famiglie in una delle fasi più difficili dal dopoguerra con lo scoppio della pandemia e la caduta drammatica del Pil. Banca d’Italia ha stimato che a fronte di una caduta del Pil dell’8,9%, il calo più contenuto dei redditi, nell’ordine di 2,8 punti percentuali in termini nominali (2,6 in termini reali) si deve all’aumento dei trasferimenti: ammortizzatori sociali, misure emergenziali e anche Reddito di Cittadinanza.

Se c’è una cosa che dovrebbe averci insegnato la pandemia è che di ammortizzatori sociali e sussidi, soprattutto quelli contro la povertà, non si può fare a meno, perché svolgono una funzione di stabilizzazione sociale e anche economica fondamentale, tanto più in periodi di crisi. Domandiamoci piuttosto che cosa ne sarebbe stato della questione sociale senza gli interventi di salvaguardia del reddito. Eppure, la narrazione dominante, specie quella governativa, continua a essere quella di uno strumento, da un lato troppo costoso, dall’altro addirittura dannoso per gli effetti spiazzamento che produrrebbe sul mercato del lavoro. In spregio a qualunque valutazione supportata dai dati (si veda il Rapporto Inps 2022), il mantra che continuamente viene ripetuto è quello di beneficiari che trovano più conveniente stare sul divano piuttosto che cercarsi un lavoro, qualunque esso sia, anche pagato poco o precario. E’ questo il fil rouge che congiunge molte delle proposte sin qui avanzate dalla destra al governo: non solo una stretta alle politiche di contrasto alla povertà, ma anche la ferrea opposizione al salario minimo, anch’esso giudicato dannoso. Il salario minimo non serve ad aumentare le retribuzioni. Serve a non farle scendere al di sotto di livelli troppo bassi.

 Tagli al cuneo fiscale senza vincoli

 Ma perché in Italia le retribuzioni sono basse? Le cause vanno ricercate nella composizione della occupazione e nelle caratteristiche strutturali del mercato del lavoro aggravatesi negli ultimi decenni. Le retribuzioni sono basse, in primo luogo, perché da anni la gran parte dell’occupazione viene creata in settori a bassa produttività, poco qualificati e strutturalmente esposti a un problema di concorrenza. La stagnazione delle retribuzioni a partire dagli anni Novanta, a fronte della crescita media europea del 30%, è in altri termini l’effetto diretto di una struttura della domanda di lavoro in cui è cresciuta l’occupazione, ma al prezzo di uno schiacciamento drammatico delle retribuzioni, dovute al forte aumento del lavoro a termine, raddoppiato dall’inizio degli anni Novanta, al basso numero di ore lavorate, paghe orarie spesso misere e un livello senza in eguali in Europa del part-time involontario femminile (il 61,2% contro una media del 21,6%). Ed è questa destrutturazione del mercato del lavoro che determina la persistenza e l’aggravamento dei bassi salari anche in settori ad elevata produttività ma basse garanzie (pensiamo alla logistica ma non solo). Ma non solo fattori strutturali vanno tenuti in considerazione. Per comprendere i cambiamenti del mercato lavoro e gli effetti, in negativo, sui lavoratori, in particolare quelli più giovani, vanno considerate anche le cattive riforme del mercato del lavoro, non solo quelle che hanno introdotto flessibilità senza garanzie, ma anche quelle, più recenti, che hanno puntato all’incentivazione delle assunzioni con i tagli al cuneo fiscale senza alcun vincolo di politica industriale e stabilità occupazionale. Di tutto questo nell’agenda politica della destra non c’è alcuna traccia. Alla narrazione sui fannulloni (che non accenna a diminuire) fa da contraltare un non interventismo che tende a congelare i fattori di svantaggio prodotti dal mercato, siano essi relativi a categorie di beneficiari oppure ai territori come è per il controverso disegno di legge sull’autonomia differenziata. Per il welfare italiano si annunciano tagli e disuguaglianze, sociali e territoriali, in crescita. È questa in ultima istanza l’agenda sociale della destra al governo.