Parto da più lontano rispetto allo scenario nazionale, perché credo che la fase di modificazione della forma di Stato e della forma di Governo del nostro Paese (una fase de-costituente, di demolizione della Costituzione repubblicana) debba essere inquadrata in uno scenario europeo in cui anche in Europa si agitano tentativi di natura in qualche modo costituente. E credo che la Repubblica italiana delle destre rischi di non essere capita fino in fondo se non la inquadriamo nel contesto più ampio dell’Europa delle destre.
Il mercantilismo al capolinea
Nei convegni dello Spi abbiamo, da un anno a questa parte, ragionato molto di Europa e questo ci ha consentito di soffermarci spesso sui vizi d’origine dell’Europa che, dopo la breve stagione felice di Next Generation EU, sono tornati prepotentemente al pettine:
– l’illusione tecnocratica alla base del dopo Maastricht (l’idea che società complesse richiedano risposte complesse, da riservare a tecnici, e dunque parzialmente incompatibili con l’esercizio democratico… quell’idea che ha fatto sì che i popoli percepiscano l’Europa più come un burocrate da cui guardarsi che come un orizzonte politico);
– il leaderismo favorito anche dalla struttura istituzionale debole dell’UE (per cui da anni parliamo di una Europa della Merkel, di Macron, di Scholz, della Von der Leyen, di Orban… come se i popoli fossero spiazzati rispetto alla costruzione europea).
E poi due vizi di merito: la rinuncia all’idea di una politica estera comune (assenza bruciante nei conflitti in corso), e la presunzione che l’integrazione economica avrebbe portato di per sé all’unione politica.
Oggi -se facciamo un bilancio- siamo al fallimento pieno di quella presunzione: l’idea mercantilista dell’Europa, l’idea che un unico grande mercato europeo avrebbe risolto tutti i problemi di competitività del continente e tutti i temi relativi alla sua riconoscibilità politica è miseramente fallita sotto i colpi della guerra commerciale fra Usa e Cina e sotto i colpi di una terza guerra mondiale non dichiarata ma a tutti gli effetti in corso.
Oggi in Europa c’è una crisi spaventosa della democrazia che intreccia una crisi industriale e manifatturiera profonda, come forse non la si conosceva dal periodo fra le due guerre. E sappiamo a cosa ha portato fra le due guerre.
Oggi sarebbe più che mai necessaria una ri-fondazione democratica dell’Europa, una vera costituente europea che purtroppo non è all’orizzonte, ma questo non significa che in Europa non ci siano tentativi di mettere in campo una sorta di costituzione materiale europea.
Niente di keynesiano nell’orizzonte del rapporto Draghi
Penso, per esempio, al Rapporto Draghi.
Trovo molto interessante la parte critica di quel rapporto. Da una parte l’analisi della crisi di competitività dell’Europa che affonda le sue radici nelle enormi differenze di competitività fra Stati e fra Regioni europee (l’immagine di un “continente arlecchino” dal punto di vista della competitività), e quindi una crisi da scarsa coesione politica dell’Europa. Dall’altra la necessità di un massiccio piano di investimenti da 800 miliardi l’anno per 3 anni che consenta di colmare almeno in parte il gap di innovazione e di tecnologie digitali che l’Europa oggi sconta rispetto a USA e Cina e che consenta quindi la definizione di possibili politiche industriali di scala europea.
Interessante perché i numeri forniti da Draghi ci dicono sostanzialmente – anche se il Professore non lo ammetterebbe mai esplicitamente – che l’atlantismo ha ucciso l’Europa, che gli Stati Uniti sono cresciuti negli ultimi vent’anni molto di più dell’UE perché attraverso la finanziarizzazione dell’economia hanno fatto incetta del risparmio europeo, perché hanno impedito lo sviluppo di un’innovazione tecnologica europea costruendo monopoli in grado di cancellare le aziende europee dalle classifiche dell’innovazione e di atrofizzare persino la ricerca pubblica degli stati europei. Mica male per un uomo di Bruxelles e dei mercati.
Tuttavia, se la parte critica è in buona misura condivisibile, la parte del rapporto dedicata alla costruzione, alla proposta, invece non esce minimamente dal cortocircuito di un europeismo neoliberale e neoliberista, che vorrebbe curare i disastri che ha prodotto con l’omeopatia (inoculando in qualche modo il principio attivo degli stessi mali).
Se andiamo a vedere le soluzioni proposte non c’è nulla di keynesiano nel Rapporto Draghi:
il cuore della pars construens è l’idea di creare il più alla svelta possibile un mercato unico dei capitali in Europa, dove far confluire i risparmi dei cittadini europei, sottraendoli all’attrazione dei grandi fondi americani: risparmi che diventerebbero lo strumento attraverso cui collocare titoli di un debito comune europeo e acquistare i titoli obbligazionari e azionari delle imprese europee. Un progetto suadente, ma che manca di due presupposti fondamentali: un vero bilancio pubblico europeo in grado di individuare la migliore allocazione delle risorse e di farne la ripartizione tra pubblico e privato; una o più imprese europee di pubblici servizi, a controllo pubblico, in grado di orientare l’utilizzo di quella massa di denari. Senza questi due presupposti gli 800 milioni per tre anni rischiano di diventare, come ha efficacemente argomentato Roberto Romano, un bancomat a disposizione del sistema privato, gestito dai colossi bancari e assicurativi europei, senza nessuna mano pubblica in grado di guidare il verso dello sviluppo e di orientare le trasformazioni economiche e sociali.
Ma vi è di più. Il debito comune europeo presuppone la riduzione dei debiti dei singoli stati, e in assenza di monetizzazione del debito questo vuol dire austerità e diminuzione della spesa pubblica interna, a quel punto rimarrebbe solo una presunta spesa pubblica europea.
Se andiamo a vedere i settori di destinazione degli 800 miliardi per tre anni di investimenti del Piano Draghi essi sono fondamentalmente quattro: energia (e fin qui… chi non auspica una politica energetica europea in chiave di ricerca dell’autosufficienza, visto che la crisi manifatturiera europea parte da quella tedesca generata dalla dipendenza dal gas russo e dalla chiusura del mercato cinese…), farmaceutica e chip (e qui vuol dire entrare in pieno nella guerra commerciale in atto fra USA e Cina) e soprattutto armi, industria bellica, e qui vuol dire entrare in pieno nella terza guerra mondiale, nella convinzione che l’obiettivo centrale di tutto il rapporto, cioè l’autosufficienza economica e produttiva dell’Europa, passi prima di tutto attraverso l’autosufficienza militare, attraverso il riarmo.
Attenzione, il rapporto Draghi parte dagli errori e dalle debolezze dell’Unione Europea e ne fa un’analisi tutto sommato lucida, per arrivare però infine alla giustificazione teoretica dell’economia di guerra. Che peraltro è già pienamente in agenda: pochi ricordano che nella sessione inaugurale del parlamento europeo a Strasburgo, il primo atto è stato una risoluzione sulla guerra in Ucraina che invita gli Stati a destinare lo 0,25% del Pil per sostenerla militarmente; pochi ricordano che a luglio del 2023 è stato approvato un regolamento che consente agli Stati di modificare i propri Pnrr per dirottarne una parte dei fondi al riarmo, con l’obiettivo di convertire una parte dell’apparato economico e produttivo alle esigenze della guerra.
Warfare e destre europee
Siamo già all’Europa del warfare. E il cosiddetto nuovo patto di stabilità, la nuova sterzata “austeritaria” che serve a scaricare il costo della guerra sul lavoro, sui lavoratori e sui pensionati.
Quello contenuto nel Rapporto Draghi non è l’unico tentativo di dare all’Europa una visione neo-costituente, c’è anche quello -purtroppo- delle destre sovraniste e neofasciste, che hanno un’altra idea di Europa, che noi semplifichiamo come anti-europeismo, mentre in realtà l’anti-europeismo di queste destre non è solo contrarietà alla piena integrazione europea, è anche la proposizione di una precisa idea culturalmente alternativa di Europa: quella di un continente in grado di auto-isolarsi dai grandi fenomeni migratori generati dalle crisi globali (un continente impermeabile alle migrazioni… un continente per bianchi e cristiani, adulti o anziani, ) e al cui interno ciascuno Stato e ciascuna destra dentro il proprio Stato rimangano liberi di perseguire il proprio tratto identitario. In questa idea non c’è nulla di alternativo al neoliberismo e al dominio del mercato sulla politica (ricordiamo il meloniano “non disturbare chi produce”… chissenefrega del come produce): “il mercato faccia pure, campo libero sull’economia, purché ci consenta la saldatura con i nostri tratti identitari e autoritari”. E attenzione perché questo progetto è purtroppo quello che sta facendo incetta di consensi anche tra i lavoratori, offrendo alle classi sociali più deboli in giro per il continente, quelle lasciate in braghe di tela prima dalla globalizzazione e adesso dalla de-globalizzazione di guerra, il parafulmine di un ancoraggio identitario e l’individuazione di un nemico esterno.
Siamo, dunque, oggi a una dicotomia dell’idea di Europa : da una parte famiglie politiche favorevoli all’integrazione europea “a prescindere” (vista per lo più come integrazione dei mercati e dei capitali, in cui il pensiero più raffinato oggi è il neoliberalismo a missione unificante proposto da Draghi, il neoliberalismo del warfare); dall’altra parte soggetti politici anti-europeisti nell’accezione che prima si diceva (sovranisti, populisti di destra, neofascisti). Oggi sono queste due famiglie che si contendono un pensiero neo-costituente sull’Europa.
La lunga subalternità delle sinistre europee
E in questa dicotomia manca un progetto di sinistra (non manca la sinistra in sé, anzi ogni tanto la sinistra emette anche qualche vagito, pensiamo alla direttiva europea salario minimo del 2022, pur con tutte le sue lacune, oppure alla recentissima direttiva sui lavoratori delle piattaforme digitali), manca una visione neo-costituente della sinistra europea; e manca perché non si è ancora conclusa la lunga subalternità delle sinistre europee alla centralità del mercato e all’atlantismo (per questo la sinistra è spesso percepita come parte debole e subalterna della coalizione maggioritaria europea: perché una famiglia, quella dei neoliberali in senso lato, ha una sua precisa idea di Europa, i socialisti no).
Non si legge nelle sinistre europee la consapevolezza che l’economia di guerra è quella che chiama l’austerità, perché ogni euro speso in armi è un euro sottratto alla sanità, alla scuola, alla ricerca, alla cultura, un euro che transita dalla civiltà alla barbarie; non si legge la consapevolezza che l’economia di guerra va a braccetto con la crescita del disagio sociale e lavorativo; non si legge la consapevolezza che è questo cortocircuito uno degli elementi che poi caccia una parte ormai maggioritaria del mondo del lavoro nelle braccia delle destre populiste o neofasciste.
Le sinistre europee dovrebbero riscoprire le radici democratico-sociali dell’Europa, riscoprire le ragioni del compromesso maturo fra capitale e lavoro che costruì il modello sociale europeo (i sistemi di welfare), spostare di nuovo il baricentro del continente verso il Mediterraneo che è il luogo decisivo anche in relazione alla dinamica demografica dell’Africa, costruire le condizioni per un movimento di popolo al servizio di un’alternativa di pace.
Poi certo che non basta: il disorientamento politico che sta attraversando tutte le classi popolari d’Europa e che si traduce o in astensione dal voto o in voto alle destre non si risolve banalmente con un “programma elettorale di buongoverno della sinistra”, come dice Walter Cerfeda c’è una stanchezza della democrazia generata da una crescente stanchezza del pensiero. Viviamo un tempo marcato da sentimenti di paura, di impotenza di fronte alle guerre, alle crisi climatiche, alle disuguaglianze sociali che crescono e che nessuno sembra in grado di fermare. Le nuove modalità di formazione dell’opinione pubblica attraverso la rete e i social network hanno generato un “presentismo”, un vivere esclusivamente nel presente, che mette in difficoltà chi da sempre vede la politica come progettazione del futuro.
E però insomma la sinistra deve in qualche modo porsi il compito di superare questo paradosso per cui a dare linfa a progetti politici autoritari o esplicitamente neofascisti in Europa sono soprattutto le masse popolari da un punto di vista sociale e le aree depresse dal punto di vista geografico.
L’antidoto all’economia di guerra
E qui io vedo anche il primo compito del sindacato, oggi, se vuol pungolare la sinistra europea in questa direzione: quello di uscire dalle gabbie nazionali. Dobbiamo uscire dal cortile di casa, costruire una nuova idea di sindacato europeo con una sua titolarità di negoziazione e di conflitto, in grado di organizzare il lavoro a livello europeo, in grado di trattare a livello europeo le grandi questioni welfaristiche.
E forse non basta, dovremo accompagnare questa idea di sindacato europeo con un nuovo internazionalismo sindacale e dei lavoratori, l’unico antidoto alla guerra guerreggiata come prolungamento della guerra commerciale fra potenze politiche e blocchi di capitalismo e l’unico antidoto all’economia di guerra. E per costruire un nuovo internazionalismo dei lavoratori la CES forse non basta: dovremo dotare i comitati aziendali europei delle multinazionali di compiti politici, organizzare gemellaggi tra distretti industriali, scambi politici tra comunità del lavoro.
Ho fatto questa lunga digressione perché a mio avviso non è possibile comprendere fino in fondo l’azione delle destre italiane finalizzata a stravolgere la forma di Stato e la forma di Governo del nostro Paese se non collochiamo quell’azione nello scenario europeo e nell’idea che le destre europee hanno dell’Europa. E se non abbiamo la consapevolezza che assumere il compito di contrastare le destre italiane e contrastare le destre europee sono lo svolgimento dello stesso tema (domani ragioneremo di questo con i compagni della DGB Assia-Turingia, nella consapevolezza che le destre non le contrastiamo più ciascuno soltanto dentro i propri confini). Poi è chiaro che ci sono i compiti a casa, di analisi innanzitutto. Senza la ripresa di un grande sforzo di analisi collettiva le destre non le contrastiamo.
Il disegno de-costituente del governo delle destre
Quali sono allora i tratti caratteristici del disegno de-costituente che la Meloni e i suoi sodali hanno in mente per il Paese? Ci sono alcuni provvedimenti o bozze di provvedimenti che messi in fila ci restituiscono il quadro completo, sono in parte riforme costituzionali (non ancora arrivate al dunque), in parte riforme istituzionali, in parte riforme meramente legislative.
Le metto in fila senza tener conto della cronologia e della gerarchia delle fonti: la legge Calderoli sull’autonomia differenziata, il progetto di premierato forte, la riforma della giustizia, il decreto sicurezza, la delega fiscale, il decreto Cutro, il collegato lavoro. Se mettiamo in fila questi sette provvedimenti – alcuni già leggi a tutti gli effetti, altri in itinere, poiché la Repubblica delle destre è “in divenire”- c’è tutto il disegno di grande riforma non solo anti-costituzionale, ma pre-costituzionale, perché ci consegna un’idea di Paese come se la Costituzione repubblicana non fosse mai esistita, perché tutti quei provvedimenti ciascuno per la propria parte vanno a disegnare un’unica grande riforma sociale di stampo reazionario.
Dentro un quadro in cui la Calderoli rompe, è vero, la coesione geografica del Paese ma non serve a dare più autonomia vera alle regioni, non serve a consegnare alle regioni le grandi politiche pubbliche (avete mai visto una riforma autonomista senza il becco di un quattrino?). La Calderoli serve a dare un’autonomia puramente formale e identitaria alle Regioni soprattutto del Nord (a istituire un neo-regionalismo identitario) in cambio dello smantellamento del perimetro pubblico del Paese e della consegna delle grandi politiche pubbliche direttamente al mercato.
E serve a indebolire ulteriormente il fronte del lavoro dando la possibilità di mettere in campo 20 contratti collettivi regionali a partire dalla sanità e dalla scuola, ma poi in ogni settore. Dovremo spiegarlo bene in primavera qui da noi più che al Sud: a quei lavoratori, a quei pensionati, a quei cittadini poveri che pensano che con l’autonomia differenziata cominci la pacchia.
E il premierato, la riforma della giustizia, il decreto sicurezza servono a mettere il cane feroce che fa da guardia a questa operazione. (Io non vedo una grande incompatibilità fra queste riforme, certo c’è un elemento di spartizione del consenso elettorale fra le destre in cui ciascuna può sventolare il proprio vessillo, ma rimane una organicità del disegno).
Il patto scellerato che questo Governo ha contratto col potere economico di questo Paese prevede che mentre il capitale si divora la scuola e la sanità e magari costruisce le gabbie salariali occorre un sistema politico ben preciso: un sistema che introduca il leaderismo come infrastruttura politica alternativa alla democrazia parlamentare, che tagli le unghie ai poteri di controllo e che metta il bavaglio a ogni forma di dissenso (il decreto sicurezza non serve a spaventare noi – in piazza ci andremo comunque, le fabbriche quando serve per salvare i posti di lavoro le occuperemo comunque – serve a spaventare le intelligenze critiche rimaste in questo paese, quelli che hanno voglia di ribellarsi alle ingiustizie ma non fanno parte di una grande famiglia collettiva, non sentono la protezione di una grande famiglia collettiva come la Cgil).
E in questo quadro di grande riforma sociale di stampo reazionario la delega fiscale e il decreto Cutro sono le bandiere, gli scalpi da consegnare allo zoccolo duro, al blocco sociale di primo riferimento (padroncini, taxisti, balneari, autonomi come diceva Antonio poco fa…): le tasse fanno schifo e meno se ne pagano meglio è, le paghi solo chi è costretto; per gli altri ci sono i concordati e le flat tax. E col decreto Cutro facciamo in modo che i migranti rimangano a casa loro perché se sbarcano li mettiamo in detenzione (in Albania), rendiamoci impermeabili ai fenomeni migratori, come se un Paese in pieno declino demografico potesse fare a meno di quei flussi.
E il collegato lavoro, che completa l’opera del decreto primo maggio dello scorso anno, è il provvedimento che banalmente consente al mercato di brutalizzare il lavoro. Pochi ne hanno parlato, anche la stampa cosiddetta democratica, ma l’insieme di decreto primo maggio 2023 e collegato lavoro 2024 vale quasi un Jobs Act: un anno fa, liberalizzazione delle causali dei contratti a termine, adesso liberalizzazione della somministrazione e della stagionalità. Non so se ci rendiamo conto, ma da dopodomani c’è il rischio che in questo Paese se si apre per esempio una startup si possa fare impresa, produrre beni, merci o servizi senza avere formalmente un solo dipendente, appaltando i rapporti di lavoro.
I nostri compiti
Ho ripercorso rapidamente questi sette provvedimenti perché messi in fila ci restituiscono quella saldatura tra neoliberismo, autoritarismo e identitarismo che è il progetto delle destre per il nostro Paese ma che è lo stesso progetto delle destre anti-europee per l’Europa.
E allora quali sono i nostri compiti?
Io credo che questo Governo sia consapevole che se la gioca grossa: se nella primavera del 2025 i 6 referendum (i nostri 4 sul lavoro + il referendum contro l’autonomia + il referendum sulla cittadinanza) dovessero andare in porto quell’impalcatura che salda neoliberismo, autoritarismo e identitarismo – ovvero la Repubblica delle destre – comincerà seriamente a scricchiolare (non a caso l’attacco è a noi, alla più grande organizzazione di massa del Paese che catalizza tutti coloro che hanno un’idea di Paese profondamente alternativa).
Ma ce la giochiamo grossa anche noi: perché se viceversa non riusciremo a determinare le condizioni per portare 25 milioni di persone a esprimersi sui referendum con 6 SI, in primavera la Repubblica delle destre arriva definitivamente a meta, e quell’idea di Paese segnerà davvero il passaggio a una nuova Repubblica, a una nuova costituzione formale e materiale. Nella quale siamo in gioco anche noi, è in gioco anche il nostro ruolo: perché se quei referendum non andranno in buca, per carità non morirà il sindacato in quanto tale (di un sindacato che faccia contrattazione in azienda e gestisca vertenze ci sarà sempre bisogno) ma morirà l’idea di un grande sindacato confederale capace di stare nel dibattito civile, sociale e democratico e di mettere al centro di quel dibattito la soggettività dei lavoratori e dei pensionati in quanto espressione di cittadinanza (l’idea di sindacato implicita nella Costituzione).
Allora noi in queste settimane, in questi mesi, dovremo costruire un grande ponte ideale tra le tante mobilitazioni di quest’autunno che culmineranno con lo sciopero generale, e la campagna referendaria della prossima primavera. Altrimenti non porteremo 25 milioni di persone al voto (non ci arriveremo “bisbigliando”).
Dobbiamo generare una continuità d’iniziativa tra l’autunno caldo e la primavera dei diritti in grande coerenza tra confederazione e categorie.
La Meloni con noi è stata sincera fin dall’inizio, è venuta al nostro congresso a dirci che per lei la data fondamentale del nostro Paese – fondativa e fondamentale – è il 17 marzo 1861, data di costituzione ufficiale del Regno d’Italia, e così ha voluto dire due cose: che tutto quello che è successo dopo quella data ha pari dignità nella storia del Paese (incluso il fascismo); e che la nostra Costituzione, quella che noi vediamo come un faro programmatico, da finir di realizzare, per lei è un mero accidente della storia.
E allora noi abbiamo il compito di ricordare alla signora Meloni e ai suoi sodali che per noi c’è un’altra data fondativa e fondamentale: il 25 aprile 1945, la data in cui ragazze e ragazzi ci hanno restituito non solo la dignità di italiani e la libertà da un regime che era la versione più truce di quello che si sta mettendo in campo oggi, ma ci hanno restituito una carta di valori in cui si parte dalla consapevolezza che non può esistere libertà e dignità del lavoro senza democrazia, ma non può esistere democrazia senza libertà e dignità del lavoro.
E se ci pensate, qui in Emilia Romagna abbiamo un compito in più. Io non vorrei che il pranzo del 18 novembre mi si piantasse sullo stomaco.
Non vorrei che dopo l’Europa delle destre e la Repubblica delle destre, mi toccasse masticare amaro sull’Emilia-Romagna delle destre.
Percepisco troppa sicurezza, da una parte, e percepisco troppa sottovalutazione del fatto che il Governo punta forte sulla conquista dell’Emilia-Romagna perché sa che una sconfitta della sinistra in queste terre avrebbe un effetto enorme sugli equilibri nazionali e segnerebbe un punto fondamentale nella realizzazione del suo progetto di Repubblica (non a caso hanno gestito tutta la partita del post-alluvione con finalità biecamente elettorali, come una volata lunga verso le elezioni regionali). E attenzione perché questi appetiti delle destre sull’Emilia-Romagna rischiano di trovare terreno fertile nell’intreccio di diverse crisi con cui anche qui cominciamo a fare i conti: una crisi manifatturiera con il rischio di desertificazione industriale di alcuni territori; una crisi dei sistemi di welfare a partire dalla sanità (legata alla continua sottrazione di risorse nazionali che poi nel concreto si traducono in allungamento liste d’attesa, in assalti ai pronto soccorso, in aggressioni al personale sanitario, in fuga di medici e infermieri); e, non ultima, una crisi climatica che vede in una parte importante del nostro territorio una delle punte avanzate di resa dei conti tra clima e modello di sviluppo a livello europeo. Tre crisi che generano insicurezza e sfiducia nella politica.
Allora è chiaro che noi non facciamo campagna elettorale sui nomi ma credo dobbiamo essere tutti impegnati in una campagna elettorale sui valori e sui contenuti, a partire dal valore primario della democrazia.
Dobbiamo lavorare perché queste elezioni regionali siano un antidoto alla crisi della democrazia e della partecipazione, in una Regione dove lavoratori e pensionati hanno storicamente contribuito a costruire il modello produttivo e il sistema di welfare; dobbiamo invitare alla massima partecipazione al voto e stimolare il dibattito intorno ai problemi più urgenti e sentiti dalle persone: le preoccupazioni per la tenuta del tessuto industriale, la qualità del lavoro, la tenuta dei redditi e del potere d’acquisto dei salari e delle pensioni, la fruizione del sistema sanitario e socio-sanitario, il problema della casa e del caro-affitti.
Dobbiamo dire alla politica che solo affrontando i problemi più acuti con una visione di modello, e mettendo in rete tutte le esperienze sociali, la politica potrà tornare a nutrire la democrazia, e noi dobbiamo cercare di sferzarla in questa direzione.
Poi certo che non diciamo per chi votare, però possiamo magari suggerire per chi non votare…
provare a fare un patto almeno con i nostri lavoratori e pensionati, che non credo contravvenga alla nostra autonomia politica e programmatica.
Proviamo a fare il patto che quelli che la Costituzione la vogliono passare nel tritacarte, quelli che vogliono che le donne stiano a casa a curare i figli e gli anziani, quelli che vogliono riempire i consultori di anti-abortisti, quelli che vogliono cacciare a calci nel sedere tutti quelli che hanno la pelle di colore diverso, quelli che vogliono bastonare le persone che scendono in piazza a protestare pacificamente o gli operai che occupano le aziende, quelli che dicono agli alluvionati i soldi ve li diamo solo se non rompete i coglioni, quelli che la parola antifascismo non gli esce mai dalla bocca… proviamo a fare il patto che quelli se non li votiamo è meglio ?.
Il fatto che questi non dicano mai di essere antifascisti sdogana anche Casapound, Forza Nuova, la parte più impresentabile dell’album di famiglia.
Se riusciamo a fare questo patto con lavoratori e pensionati in questa Regione forse riusciremo a mettere il primo tassello perché la primavera del 2025 possa avere, come la primavera di 80 anni prima, il sapore bellissimo della libertà e dei diritti.