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cultura politica e costituzionale

IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

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IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Il ritorno dell’estrema destra nell’Europa (neo)liberale

Il successo dei "populisti" non è la causa, ma l’effetto, della crisi della democrazia. E dato che all'orizzonte l’unico keynesismo che si profila è quello in campo militare coniugato al rigore fiscale, è prevedibile un ulteriore rafforzamento dell'estrema destra.

Stimolato da alcune considerazioni del suo maestro Hegel, Karl Marx, nell’incipit del 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, osservava che la «storia si present[a]» sempre «due volte», «la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa». L’adagio del filosofo di Treviri descrive alla perfezione il ritorno dell’estrema destra in Europa a distanza di un secolo, lustro più, lustro meno, dalla sua prima ascesa con Mussolini (1922) ed Hitler (1933), ma anche Horty (1920), Salazar (1932), Franco (1939) e Pétain (1939), che hanno fatto precipitare il continente nel ventennio più buio della sua storia recente.

La resistibile ascesa dei populisti in Europa

Quelli erano “dittatori”, quelli di oggi sono (chiamati) “populisti”, ma non per questo sono meno pericolosi. Sollecitati da questa ricorrenza storica, e stanchi di veder versare altre lacrime di coccodrillo da parte di chi pensa che il successo dell’estrema destra sia la causa, e non l’effetto, della crisi della democrazia nel continente, sembra doveroso provare a riflettere sulle responsabilità gravanti sulle classi dirigenti liberali europee (Zielonka), nella convinzione che molte siano le colpe loro imputabili nell’aver favorito, oggi come allora, tale resistibile exploit. Non solo, forte è l’impressione che, proprio come in passato, tra l’estrema destra e l’«estremo centro» (Ali) (neo)liberale si registrino numerose convergenze, a partire, neanche a dirlo, dalla comune avversione per il socialismo (Dardot – Guéguen – Laval – Sauvêtre): a ben vedere, la prima non costituisce una “rottura” rispetto al secondo, quanto piuttosto una “inflessione” sciovinistica e politicamente illiberale di una medesima cultura basata sulla protezione del liberismo economico e dei processi di accumulazione capitalistica (Wilkinson). Di qui, il rischio – diventato oramai una realtà – che, proprio come cent’anni fa, l’estrema destra venga legittimata dai liberali, che nel tentativo di normalizzarla finiscono poi per esserne fagocitati, o comunque per assecondare, senza troppe riserve, lo slittamento sempre più a destra dell’asse politico generale.

In Italia, le elezioni del settembre 2022 hanno incoronato primo partito Fratelli d’Italia (FdI), forza conservatrice erede di Alleanza Nazionale, a sua volta evoluzione della formazione politica nata dalle ceneri del defunto Partito Nazionale Fascista, il Movimento Sociale Italiano. Alle elezioni europee dello scorso luglio il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha più che quadruplicato i voti del proprio partito rispetto alle precedenti consultazioni per il rinnovo dell’Assemblea di Strasburgo, passando dal 6,46 % al 28,75% dei consensi. In Germania, i neonazisti di Alternative für Deutschland (AfD), dopo aver più che raddoppiato i propri rappresentanti al Parlamento europeo (erano 31 nel 2019, ora sono 69), hanno sbancato alle elezioni di questo settembre nei Länder orientali di Turingia e Sassonia, dove più di un elettore tedesco su tre ha accordato loro il proprio voto. In Ungheria, Orbán, ininterrottamente al potere dal 2010, solo due anni fa ha vinto la sua quarta elezione di seguito. Infine, in Francia, l’ex Front, ora Rassemblement National (RN) di Marine Le Pen, dopo essere risultato il partito più votato alle ultime elezioni europee (31,37%), al primo turno delle elezioni legislative convocate pochi giorni dopo, in seguito allo scioglimento anticipato dell’Assemblea Nazionale voluto da Macron, si è piazzato nuovamente primo, riscuotendo, assieme ad un pezzo dei gollisti, il 33% dei consensi. Numeri da brividi, che non giungono però inaspettati.

Fratelli d’Italia alla conquista del potere

Il successo di FdI è spiegabile alla luce di quella che sembra una costante della politica italiana post-Maastricht. Infatti, esso non è altro che l’ultima reazione populista all’ennesimo insediamento di «governi tecnocratici» (De Fiores, pp. 43-44) e alle loro agende austeritarie, come accaduto, nel 1994, con l’ascesa di Berlusconi, subito dopo l’esecutivo dell’ex Governatore della Banca d’Italia Carlo Azelio Ciampi, e come accaduto, nel 2013 e nel 2018, con il successo del M5S e della Lega, alimentato dalle “larghe intese” che avevano sostenuto il governo dell’ex commissario europeo per la concorrenza ed il mercato interno Mario Monti e i due successivi esecutivi di “grande coalizione”, presieduti dei centristi Letta e Renzi, che ne avevano portato avanti le politiche (ibidem). Era quindi piuttosto prevedibile che collocandosi all’opposizione del Governo Draghi, l’esecutivo che più̀ di qualsiasi altro nel corso della storia costituzionale del nostro Paese ha incarnato la condizionalità̀ made in EU, il partito di Meloni non avrebbe incontrato difficoltà alcuna ad apparire agli occhi dell’elettorato come un soggetto alternativo rispetto al resto delle forze politiche che avevano dato il loro benestare all’insediamento a Palazzo Chigi del vecchio numero uno della BCE (Guerra).

Epperò, appena eletta, la leader di FdI ha fatto propria l’agenda economica di Draghi che tanto aborriva, basta dare una sbirciata alla sua prima legge di bilancio per rendersene conto (Volpi), ma anche la politica estera di quest’ultimo. Meloni ha infatti abbandonato con estrema nonchalance il sovranismo, riscoprendosi tutto d’un tratto atlantista, fino al limite dell’oltranzismo (Tarchi), come dimostrato dall’incondizionato appoggio militare all’Ucraina nel conflitto con la Russia, e filo-europeista, seppure non senza riserve, alcune delle quali, a dire il vero, apprezzabili, come il rifiuto di ratificare la riforma del MES approvata dal Board of Governors del famigerato “fondo-Salva Stati” nel febbraio 2021. Ma ciò, in realtà, nasconde il tentativo del nostro governo di gonfiare il petto dopo la ignominiosa resa all’accordo franco-tedesco sulle nuove regole, oltremodo penalizzanti per l’Italia,  del Patto di Stabilità e Crescita (Colombo). Una svolta a trecentosessanta gradi, tanto che, nei mesi precedenti alle elezioni europee di giugno, si è vociferato a lungo della possibilità di un appoggio esterno di Meloni a Von der Leyen sulla base di un compromesso tra le due. Ma non è tutto. Meloni ha addirittura iniziato a studiare, neanche troppo sottobanco, la possibilità di imprimere una svolta, per così dire, “romana”, alle maggioranze di Bruxelles, lavorando alla sostituzione dell’attuale coalizione tra PSE, PPE e liberali con l’alleanza tra i Conservatori e il PPE, magari facendo da collante per una possibile coalizione, qualora ce ne fosse stato bisogno, ricomprendente persino la destra (ancor più) estrema del Patrioti per l’Europa di Salvini, Orbàn e Le Pen.

Nonostante nessuno di questi due auspici si sia realizzato, Meloni è comunque stata abilissima nel portare a casa la nomina dell’ormai ex ministro Raffele Fitto alla Vicepresidenza esecutiva della Commissione guidata, nuovamente, da Ursula von der Leyen; e questo nonostante la delegazione di FDI alla neoeletta eurocamera abbia votato contro la sua rielezione in sede di concessione della “fiducia”, espressione usata qui in senso prettamente a-tecnico, posto che, come è noto, l’Unione europea, nonostante tutti gli artifizi congegnati attraverso il sistema degli Spitzenkandidaten, non è dotata di una forma di governo parlamentare (Goldoni; Guazzarotti). Un risultato notevole, da cui traspare che oramai Meloni è considerata affidabile nei circoli di Bruxelles e che non sia più una blasfemia immaginare di raggiungervi di volta in volta intese sulle più svariate questioni o di farne, nel prossimo futuro, un alleato vero e proprio. Il che segna un cedimento notevole del centro liberale moderato europeo nei confronti di quella che, fino a poco tempo fa, era ritenuta una forza anti-sistema. Il “voltafaccia”, se così vogliamo definirlo, di Meloni è stato talmente vistoso da essere notato da quelle élite globaliste che il suo partito ha sempre affermato di avversare, rimaste così benevolmente impressionate da insignirla, appena qualche giorno fa, del Global Citizen Award (Gerbaudo), conferitole – si legge nel comunicato della premiazione – proprio in ragione del suo «supporto per l’Unione europea e l’alleanza Atlantica» (sic!).

Il successo di AfD in Germania

Il successo di AfD, che nel Landtag di Erfurt è ora la formazione che conta il più elevato numero di rappresentanti, viene da lontano e affonda le radici nel depauperamento e nel senso di abbandono patiti della Germina orientale a seguito dell’Anschluss (Giacchè) dei territori della Repubblica Democratica Tedesca alla Repubblica Federale di Germania del Cancelliere Helmut Kohl. Che non si stesse procedendo ad una riunificazione, ma ad una annessione, anzi, una forma di «colonizzazione» (Balibar, p. 169), o volendo utilizzare un neologismo particolarmente suggestivo, «kohl-inizzazione» (Ziblatt, p. 130), con conseguente debellatio delle istituzioni politiche, economiche e sociali della DDR, in favore dell’instaurazione, grazie al decisivo aiuto degli USA, di un regime capitalistico neoliberale, lo ammise expressis verbis, nel 1991, il falco dell’austerità ai tempi della crisi greca Wolfgang Schaeuble, che all’epoca era il capo delegazione incaricata di negoziare per la Germina Ovest il Trattato di riunificazione: «Cari amici, la DDR si unisce alla Repubblica Federale, non viceversa […]. Ciò che sta accadendo qui non è l’unificazione di due Stati uguali» (Knaebel – Rimbert).  Gli effetti della virulenta shock therapy cui sono stati sottoposti i tedeschi dell’Est sono stati devastanti: la privatizzazione delle imprese di Stato, attraverso la svendita a buon mercato alle imprese della Germania occidentale, è stata la più radicale di tutti i Paesi dell’Europa post-comunista, con la produzione che è calata del 27% rispetto ai livelli pre-1989, facendo della deindustrializzazione della regione, paragonabile a quella subita dalla Bosnia Erzegovina con la guerra civile del 1992-1995 (Ther, p. 17), un dato pressoché irreversibile. Le riforme Hartz (abbassamenti dei livelli delle pensioni e dei salari, assieme alla restrizione dei diritti dei lavori) per realizzare la famigerata “Agenda 2010” del Cancellerie Gerhard Schröder hanno fatto il resto, esacerbando il malcontento nei Länder orientali, dove gran parte dei cittadini guadagna in media 800 euro in meno dei loro connazionali dell’Ovest (Helberg).

Oltre che grazie alla sua retorica anti-immigrazione, è stata dunque l’abilità di Afd nello sfruttare il disagio economico sofferto dalla popolazione della Germania dell’Est a garantirgli i recenti successi elettorali. In realtà, l’agenda economica di Afd è profondamente ordoliberale, e dunque neoliberale (Havertz), essendo fondata sulla promozione del libero mercato, della competitività e della stabilità della moneta e dei prezzi, ma la prospettiva nativista e sciovinista entro cui questa viene declinata le conferisce l’appeal di partito promotore di un  accattivante «populismo sociale» (Havertz) che le assicura un largo supporto tra i lavoratori tedeschi dell’Est, nonostante le radicali riforme mercatiste che AfD vorrebbe realizzare siano contrarie ai loro interessi di classe (Kim). Ciò è reso possibile dalle ambiguità insite nel modello economico di cui AfD si dichiara alfiere, la c.d. “economia sociale di mercato”: formula, che tanto piaceva ad Hayek, coniata nel lontano 1947 dall’ex membro del partito nazionalsocialista Alfred Müller-Armack (Somma), posto a capo, nel 1952, del Dipartimento centrale di politica economica dall’allora ministro dell’economia e futuro Cancelliere Ludwig Erhard, il fautore del miracolo economico della Germania Ovest del secondo dopoguerra, a cui si deve la fama di questo modello di capitalismo, punto di riferimento della stragrande maggioranza delle forze politiche centriste tedesche, dalla CDU alla SPD passando per i liberali.

Altro elemento decisivo alla base delle fortune di AfD è sicuramente la sua contrarietà al sostegno militare dell’Ucraina nella guerra avverso la Russia (Ottolina). Il conflitto contro Putin, che ha privato la Germania delle preziosissime forniture di gas provenienti da Mosca, ha colpito duramente le regioni orientali della Germania, dove i sentimenti anti-Nato sono più diffusi che in quelle occidentali, come comprovato anche dall’elevato numero di suffragi riscossi dalla «sinistra conservatrice» (Baccaro) della ex Linke Sara Wagenknecht, classificatasi terza alle consultazioni locali in Turingia e Sassonia. Se nei Länder dell’Est, che hanno sempre assolto una funzione di ponte, anche commerciale, con l’Europa orientale, la crisi energetica si è fatta sentire in maniera particolarmente intensa, pare proprio che l’interruzione delle forniture russe abbia assestato il colpo di grazia all’intero sistema produttivo tedesco, che non riesce più a replicare le brillanti performance conseguite nel recente passato attraverso le esportazioni e il contenimento della domanda interna (Baccaro). Le politiche rigoriste che, a partire dalla revisione costituzione del 2009, la Germania ha esportato in tutta Europa si stanno riversando contro lo stesso paese teutonico, che da tempo ha fermato gli investimenti pubblici. Epperò, la Germania non è disposta a rivedere la propria strategia in Europa e preferisce rimanere fedele alla sua ricetta: solamente gli Stati con i conti in ordine possono permettersi di effettuare gli investimenti necessari, che il governo di Berlino vuole effettuare da solo, reperendo gli opportuni mezzi finanziari senza aiuti da parte dell’Unione europea (ibidem).

Il contro-movimento di Orbán in Ungheria

Quanto al caso ungherese, l’ascesa al potere di Orban e del suo partito, FIDESZ, rappresenta il più classico dei “contro-movimenti” polanyiani  (Kalb; Guazzarotti) che hanno investito l’Europa centro-orientale durante il processo di mercatizzazione a suon di liberalizzazioni, privatizzazioni e austerità via condizionalità patrocinate, negli anni immediatamente successivi alla dissoluzione dell’URSS, dal principale latore delle ricette neoliberiste del Washington Consensus, il FMI (con gli Stati Uniti e gli altri potenti governi europei seduti all’interno dell’Executive Board del Fondo che, in verità, già dagli anni Ottanta avevano iniziato a ricattare, con le loro promesse di aiuto finanziario in cambio dell’attuazione di piani di stabilizzazione e aggiustamento strutturale, le autorità di Budapest, sfruttando l’enorme debito da queste accumulato nei confronti delle banche e degli esecutivi ad Ovest della cortina di ferro, Bartel) e, poi, a cavallo del nuovo millennio, dall’Unione europea nell’ambito del suo allargamento verso Est (Ther; Shields). Conformarsi a tale liber(al)ismo thatcherianamente imposto «senza alternative» (Krastev – Holmes, p. 98; Komárek, p. 195) è stata una operazione tutt’altro che semplice, ma che, nonostante il malumore diffuso provocato dagli elevatissimi costi sociali, a partire dalla vertiginosa crescita delle disuguaglianze, connessi alla transizione alla democrazia e al capitalismo (Klaudt; Ghodsee – Orenstein), la popolazione ha saputo, almeno in un primo momento, tollerare.

La «fine della pazienza» (Antal, p. 70)  ha coinciso con l’approdo anche qui in Europa della crisi finanziaria originatasi sul finire del primo decennio del nuovo millennio ad Ovest dell’Atlantico, prova inequivocabile che il liberalismo non era stato in grado di mantenere le sue promesse (Krastev). I tempi erano ormai diventati maturi perché la disillusione nei confronti del “capitalismo reale”, così diverso dalla versione idealizzata fino a quel momento coltivata (Feffer), e la frustrazione accumulata durante la – a dir poco – estenuante fase del “ritorno in Europa” si scatenasse nel populist backlash che abbiamo imparato a conoscere in questi anni e che pare ben lontano dal sopirsi. Ebbene, l’Ungheria, proprio agli inizi della crisi del debito sovrano, è stato uno dei primi Stati membri a richiedere assistenza finanziaria congiunta dal FMI e dall’Unione europea. Orbán si è scaltramente opposto alle misure di austerity, fonte di enormi sacrifici per le fasce più deboli della cittadinanza, che sono state attuate dall’esecutivo di coalizione tra socialisti e liberali di Ferenc Gyurcsány e dal successivo governo «semi-tecnocratico» (Fabry, p. 242) guidato dall’ex ministro dell’economia di quest’ultimo, il manager Gordon Bajnai, come contrapartita degli aiuti forniti ex art. 143 TFUE dall’Istituto di Washington e da Bruxelles, compiendo una mossa che gli è valsa la conquista di più dei due terzi dei seggi presso la Camera bassa-Orsázggyulés (Orlandi p. 169, Bugaric, p. 610; Guerra, pp. 552 – 553).

Certo, il “nazionalismo finanziario” (Johnson – Barnes) il cui primo riflesso è stato il rifiuto di concludere ulteriori accordi con FMI, è soltanto uno degli aspetti della Orbánomcis, che sotto tanti punti di vista non contraddice l’impronta neoliberista delle politiche suggerite durante lo svolgimento del procedimento di adesione della ex Repubblica popolare all’Union europea. Basti qui solo ricordare che gli obiettivi della riduzione del deficit e del debito, che nonostante la posture anti-austerità, sono un must della politica economica orbániana (ibidem), così come i tagli all’assistenza sociale (Szikra), la flessibilizzazione dei rapporti di lavoro e la riduzione dell’influenza dei sindacati (Gyulavari – Kártyás). Riforme a cui però hanno fatto da contraltare un ampio ventaglio di interventi redistributivi, tra cui spiccano la riduzione dei prezzi delle bollette di acqua, gas ed elettricità (Appel – Orenstein, p. 167), l’aumento dei salari nei lavori sottopagati (Myant – Drahokoupil – Lesay, p. 407) e l’assistenza alle famiglie biologicamente produttive, e cioè con figli (Scheiring – Szombati, p. 722), attraverso cui FIDESZ è riuscita a fornire, se non una reale, quantomeno un apparente senso di protezione ad una popolazione, specie ai perdenti della transizione, sconvolta da due decadi di ristrutturazione in senso neoliberista del sistema socio-economico, lucrando sulle loro ansie e sofferenze.

Ad ogni modo, non dobbiamo dimenticare che Orbán, acerrimo nemico, almeno sulla carta, dei liberalissimi circoli di Bruxelles, è stato per lungo tempo un membro del PPE, che ha lasciato soltanto nel 2021, quando la più grande famiglia europea si era decisa (finalmente) ad espellere i membri di FIDESZ. Il vecchio alleato politico rimane, almeno per la Germania, un partner economico fondamentale, dal quale non può prescindere, considerata l’«alleanza strategica» (Fabry, p. 317) messa in piedi negli anni con le case automobilistiche tedesche (Audi, BMW, Mercedes-Benz, Opel), che hanno continuato ad investire e ad aprire stabilimenti in Ungheria, attratte dalle assai modeste imposte sull’attività di impresa e dai sussidi e dalle esenzioni fiscali loro dedicate dal governo di Budapest (Geva, p. 82; Pogátsa, p. 150). Partner economico, ma anche a livello geopolitico, che oggi tiene in scacco l’Unione europea con la sua politica distensiva nei confronti di Putin, dal quale, appena subentrato come Presidente di turno del Consiglio, si è recato in visita per trattare la tregua, mandando su tutte le furie la Commissione e i governi degli altri Stati membri. L’opposizione alla continuazione della guerra contro la Russia è solo l’ultimo, in ordine cronologico, degli ingredienti alla base del consenso di cui Orbán beneficia tra gli elettori magiari, i quali, oltre a non vedere di buon occhio le interferenze degli attori inter-sovranazionali nei loro affari interni, sembrano interessati a beni molto più basilari e concreti dello Stato di diritto, a partire dalla sicurezza, ovverosia la pace (Bakó).

Il Rassemblement National di Marine Le Pen

Come si è detto, l’italiana Meloni è ormai un potenziale alleato del centro moderato liberale dominante in seno all’Unione europea. L’ungherese Orbán lo è già stato, anzi, ne ha fatto direttamente parte. La tedesca AfD, invece, è ancora inabilitata a governare, ma chissà ancora per quanto tempo. Che dire, infine, della francese Le Pen? Ebbene, l’assist fornitole da Macron, il quale, dopo il secondo turno delle elezioni legislative di questa estate, pur di non formare un governo con le sinistre riunite nel Nouveau Front Populaire capeggiato da Jean-Luc Mélenchon, coalizione che ai ballottaggi di luglio era risultata la più votata, ha deciso di nominare come Primo ministro l’esponente della ultra-minoritaria destra gollista Michel Barnier, la cui permanenza a Palazzo Matignon è legata alla non sfiducia dei deputati del RN, ha lasciato tutti a bocca aperta.

Una strategia quella del tecnocrate neoliberista all’Eliseo dal 2017 che riporta alla memoria il comportamento tenuto dal generale Maxime Weygand quando, al comando delle truppe transalpine contro l’esercito tedesco, non si dimostrò più di tanto preoccupato per una possibile vittoria dei nazisti, ma piuttosto per l’eventualità dello scoppio di una insurrezione comunista a Parigi sull’onda del tracollo generale dello Stato francese (Judt; Guazzarotti); di qui, la volontà di addivenire al più presto ad un armistizio con l’Alto comando di Hitler. Questo è stato firmato il 22 giugno del 1940, con Weygand che si avviava a diventare il primo ministro della difesa del regime collaborazionista di Vichy. Ci si ferma qui. Il paragone è talmente eloquente da non aver bisogno di essere ulteriormente dettagliato.

La storia (e l’economia) si ripete

Insomma, cent’anni fa i liberali, inventandosi l’austerità che ha acuito il disagio sociale e l’immiserimento causati dalla rovinosa esperienza della prima guerra mondiale, hanno favorito l’ascesa del fascismo (Mattei), che hanno poi provato ad irregimentare attraverso tanto maldestri quanto spudorati tentativi di normalizzazione (a fare scuola è, ancora una volta, l’Italia, con l’esperimento giolittiano di assorbimento costituzionale delle camice nere di Mussolini, il quale, all’indomani della marcia su Roma, veniva celebrato dall’allora direttore del “Corriere della Sera”, il liberale Luigi Albertini, per aver salvato il Paese dal «pericolo socialista», augurando a lui e al suo governo «il più grandioso successo», Vaccarino, p. 7). Assistere alla ripetizione di simili vicende è terribilmente triste. E dato che all’orizzonte l’unico keynesismo che si profila è quello in campo militare, mentre per i comuni cittadini il destino è ancora quello del rigore fiscale (Zolea), l’ulteriore rafforzamento dell’estrema destra in Europa è purtroppo solo una questione di tempo.

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