Matilde Adduci, Research Associate presso la School of Oriental and African Studies – Università di Londra
«La guerra che verrà / non è la prima. Prima / ci sono state altre guerre. / Alla fine dell’ultima / c’erano vincitori e vinti. / Fra i vinti la povera gente / faceva la fame. Fra i vincitori / faceva la fame la povera gente egualmente» (Bertolt Brecht). Quando i venti di guerra hanno cominciato a soffiare sull’Europa, mi si sono affacciati alla memoria questi versi. Oggi, la drammatica eco della guerra divampata in seguito all’invasione russa dell’Ucraina – i cui costi in termini di vite umane mietute sono incalcolabili – risuona molto lontano, giungendo a toccare le vite della “povera gente” che, in tanta parte del pianeta, viene esposta alla minaccia di rinnovati aumenti dei prezzi del cibo. È quanto accade in India, dove si assiste in questi giorni a una crescita dei prezzi di molti alimenti di prima necessità (a partire dall’olio da cucina, quest’ultimo importato in quantità significative dall’Ucraina) che, unita all’aumento del prezzo del gas di petrolio liquefatto da cucina (i cui prezzi sono legati a quello del petrolio), si abbatte pesantemente sulle classi lavoratrici del paese, costringendole a contrarre livelli di consumo alimentare già assai ridotti. La crisi che si profila non è neutrale neppure rispetto all’appartenenza di genere: le quotidiane fatiche addizionali che essa comporta nella sfera del lavoro riproduttivo ricadono infatti in larga misura sulle donne.
Questo scenario appare tanto più preoccupante, se si pensa che si innesta su un trentennio di progettualità di classe di segno neoliberista che, avviata nel paese nel 1991, si è abbattuta impietosamente su un universo del lavoro già gravemente segnato da precarietà e vulnerabilità. Con l’incedere del neoliberismo, l’arrogante pretesa di normalizzare rinnovate traiettorie di informalizzazione del lavoro, volte ad assoggettare sempre più pesantemente il lavoro stesso alla disciplina del mercato nonché ad ostacolarne la progettualità, ha segnato le vite di milioni di donne, uomini e minori. Allo stesso modo, le politiche di taglio e contenimento della spesa pubblica – che hanno visto, inter alia, l’abbandono della logica universale nel sistema di distribuzione pubblica del cibo a prezzi sussidiati, in favore di una logica selettiva – unite alle politiche e pratiche di liberalizzazione e privatizzazione si sono ripercosse pesantemente sull’universo del lavoro indiano. Ciò, benché l’autorappresentazione egemonica del neoliberismo guardasse al “ritiro dello Stato” come a un processo socialmente neutrale. A titolo esemplificativo, vorrei attingere qui brevemente alla mia esperienza di ricerca sul campo, che mi ha portata a esplorare i processi di privatizzazione delle risorse naturali nello Stato dell’Odisha – indubbiamente frutto, più che di un ritrarsi dello Stato, del un suo riorientarsi in favore degli strati sociali dominanti del paese, nonché del capitale internazionale. Il quadro che ne è emerso ha dato conto del modo in cui, dai distretti minerari interni all’Odisha costiera, i costi sociali e ambientali di tali processi sono stati schiacciati spropositatamente sulle fasce sociali più vulnerabili – basti qui pensare ai violenti processi di dislocamento occupazionale, nonché dislocamento fisico, esperiti da centinaia di migliaia di uomini e donne appartenenti alle “classi del lavoro”.
Ritornando allo scenario panindiano, è doveroso ricordare ancora che, a partire dal 2014, gli anni di governo della destra hindu, portatrice di un nazionalismo muscolare e di un’agenda economica neoliberista senza compromessi, hanno visto, inter alia, notevoli arretramenti nell’universo del lavoro, culminati nel periodo buio della pandemia di Covid-19, di cui Tommaso Bobbio ha dato conto in questa sede (https://volerelaluna.it/mondo/2021/05/19/il-covid-lindia-narendra-modi-tra-immaginario-e-realta/). Basti qui ricordare che il rapporto dell’International Labour Organization Global Wage Report 2020-21: Wages and minimum wages in the time of COVID-19, pubblicato nel 2020, stimava che, in quello stesso anno, i salari già esigui dei lavoratori informali – vale a dire ben oltre il 90% dei lavoratori indiani – avessero subito una decurtazione pari al 22,6%. Non sfugga inoltre che, in uno scenario nazionale storicamente caratterizzato dalla persistenza della questione dell’insicurezza alimentare – con una diffusa difficoltà, fra le famiglie che compongono l’universo del lavoro, a raggiungere l’obiettivo di una dieta bilanciata –, lo spettro della denutrizione in tempi recenti è apparso più minaccioso. Secondo dati FAO, se a partire dal 2004-06 (quando la denutrizione si attestava al 21,7%) in avanti si è assistito a un costante declino del fenomeno, che pur rimaneva preoccupante, dal 2016 tale tendenza è mutata. Più specificamente, se nel 2016-18 la percentuale di persone denutrite era pari a 13,8%, nel 2017-19 essa si è attestata al 14%, sino a toccare, nel 2018-20, il 15,3%, vale a dire oltre duecento milioni di esseri umani. Questi dati non includono il periodo della pandemia, rispetto al quale molti studi danno conto di una gravissima crisi del cibo associata al lockdown nazionale imposto durante la prima ondata di Covid-19 (marzo-maggio 2020), nonché ai lockdown imposti a livello locale durante la seconda ondata pandemica (aprile-maggio 2021). Se, poi, le misure di distribuzione addizionale di cereali poste in atto dal Governo durante la pandemia sono state considerate da più voci non sufficienti rispetto ai bisogni della popolazione, d’altra parte esse non hanno raggiunto – né raggiungono – quella fascia di popolazione che, seppur in stato di bisogno, si ritrova esclusa dal novero dei beneficiari. A fronte di questo scenario, così come notava ancora recentemente Dipa Sinha, studiosa di politiche pubbliche della nutrizione attivamente coinvolta nella “Right to Food Campaign” (una rete di individui e associazioni impegnati nella realizzazione del diritto al cibo in India), si pone con maggior forza la questione del ritorno a un sistema di distribuzione pubblica del cibo a prezzi sussidiati informato da una logica universale. Ciò a maggior ragione, a fronte della presenza di significativi livelli di scorte di cereali nei magazzini pubblici. Tuttavia questa opzione continua a essere sacrificata sull’altare di una razionalità votata al contenimento del disavanzo pubblico.
Ecco, dunque, che le minacce e la realtà di aumenti dei prezzi del cibo portate dai venti della guerra che oggi si combatte in Europa appaiono assai sinistre in India, così come nei paesi del Sud del mondo che a tutt’oggi si confrontano con la questione dell’insicurezza alimentare, soprattutto se le si guarda attraverso gli occhi dei working poor (peraltro ben presenti, questi ultimi, anche nei paesi a capitalismo avanzato). Ciò va a intersecarsi con il pericolo di attività speculative nei mercati dei futures collegati a materie prime alimentari, che possono essere foriere di aumenti dei prezzi delle stesse (uno scenario con cui abbiamo già dovuto confrontarci pesantemente nel 2007-08, quando la speculazione finanziaria nei mercati del cibo aveva concorso a generare una crisi alimentare di gravi proporzioni, in specie nei paesi in via di sviluppo).
A fronte di questo scenario oggi, più che mai nel mondo, vi è bisogno di costruire una pace solida e duratura, il che richiede, ritengo, di prendere le distanze da qualsiasi logica imperialista e nazionalista e, al contempo, vi è bisogno di liberare milioni di persone che popolano l’universo del lavoro da povertà e deprivazioni, riconoscendo nuova centralità al tema della giustizia sociale.