IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Insidie, miraggi e trappole dell’ambientalismo

Le lotte ambientali e sociali non possono essere separate le une dalle altre. Altrimenti si produrranno risposte deboli, prive di consenso e prima ancora battaglie sbagliate in principio, dove la buona fede si lascia incanalare dalla retorica e dagli interessi del capitalismo green.

L’ambiente è sotto attacco, e questa guerra, mossa dalle élite economiche, politiche e finanziarie del pianeta, è una guerra anche contro di noi, intesi non solo come specie umana indissolubilmente legata alle sorti (e anzi parte) della natura, ma anche – come suggerito dalla prospettiva del Capitalocene – come larga maggioranza di dominati, seppure con differenze fondamentali nel grado di intensità della violenza, spesso legate a latitudine e sfumature della pelle. Difenderci, reagire, non può che significare riconoscere, come cerca di fare l’ecologia politica, che battaglie ambientali e sociali non possono essere separate le une dalle altre. Perché se è vero che nessuno può davvero sottrarsi all’impatto della crisi ambientale, tuttavia le risorse (economiche, culturali, relazionali…) di cui possiamo disporre costituiscono pur sempre – anzi, forse sempre più – un discrimine significativo per la nostra capacità di arginare la violenza con cui le sue conseguenze si abbattono sui nostri corpi, sulla nostra salute e sulle nostre prospettive di vita; e perché inseguendo obiettivi di contrasto alla crisi eco-climatica senza porsi il problema di quali componenti sociali ne pagheranno il prezzo, si rischia di produrre risposte deboli, prive di consenso, e prima ancora di mettere in piedi battaglie sbagliate nel principio, dove la buona fede si lascia incanalare dalla retorica e dagli interessi del capitalismo green.

Prenderò spunto dalle riflessioni emerse a partire da due iniziative organizzate nell’autunno appena trascorso per gli studenti dei miei corsi – le presentazioni di Territori in lotta. Capitalismo globale e giustizia ambientale nell’era della crisi climatica di Paola Imperatore (Meltemi 2022) e Perché non si vedono più le stelle. Inquinamento luminoso e messa a reddito della notte di Wolf Bukowski (Eris 2022) – per proporre una riflessione attenta ai concreti rapporti di forza con cui si misura l’attivismo ambientale, mirata in particolare a localizzare alcune delle secche più insidiose dove questo rischia di incagliarsi.

Prima secca: l’illusione del tecno-ottimismo

Una prima secca mi sembra l’illusorietà insita nell’idea di affidare la risposta alla crisi eco-climatica a soluzioni tecnologiche. Ma da qui si dovrebbe partire per mettere al centro una riflessione critica sulle implicazioni dell’avanzamento tecnologico in sé, che ne metta in discussione l’innocenza, azzardando lo sguardo oltre ai soliti luoghi comuni sulla tecnologia che non è né un male né un bene in sé, basta guidarla bene.

Raccontandoci come la possibilità di dominare la notte con la luce artificiale abbia sortito l’effetto di renderci intollerabile l’oscurità, fino a farci percepire solo i luoghi non illuminati come degradati e pericolosi, il libro di W. Bukowski ci aiuta a cogliere l’effetto di “rimbalzo” insito in ogni progresso tecnologico. Un altro rimbalzo è quello avvenuto quando, in nome del risparmio energetico e, parallelamente, dell’obiettivo di ridurre l’inquinamento luminoso, si è proceduto a sostituire le lampadine tradizionalmente impiegate per l’illuminazione stradale con quelle a led. Il problema è che il mondo che le nuove lampadine virtuose e a basso consumo illuminavano è rimasto lo stesso di prima: un mondo che continua a inseguire le stesse necessità di accelerazione dei ritmi di produzione, consumo e accumulazione. Così, l’esigenza di rispondere alla percezione di insicurezza, parallela e complementare a quella di indurci a comprare e consumare sempre di più, allargando le zone urbane dello shopping/movida e dandoci l’illusione che “sia sempre Natale”, ha portato ad un’estensione tale dell’illuminazione notturna – mettiamone di più, tanto i led consumano poco – che alla fine, a conti fatti, si è registrato un aumento sia dell’inquinamento luminoso che del consumo energetico.

Né ci salveranno dall’iper-illuminazione notturna che ha reso neri e vuoti i nostri cieli le telecamere, la digitalizzazione, il 5G o l’intelligenza artificiale (per esempio con le auto a guida autonoma, che avrebbero meno bisogno di luce artificiale rispetto all’occhio umano). Perché in fondo tutte queste risposte si inscrivono all’interno dello stesso perimetro di senso – ci spiega W. Bukowski – che sostiene la necessità dell’iper-illuminazione: la necessità di rendere tutto visibile, trasparente, monitorabile, in modo che da ogni azione umana possano essere estratti dati per razionalizzare, prevedere comportamenti, sorvegliare (e punire?) ed estrarre plusvalore.

Per trovare un argine al pericolo di cadere in estremizzazioni passatiste può forse ancora indicare una strada percorribile il ragionamento avviato parecchi anni fa da Ivan Illich sul grado di convivialità degli strumenti e delle tecnologie – ovvero la loro capacità di coadiuvarci nel nostro sforzo di perseguire obiettivi che ci siamo dati autonomamente, senza rovesciarsi nell’opposto di una mega-macchina che finisce per asservire l’uomo e standardizzarne obiettivi, desideri e modi di vita, creando una società della carenza, dove «nessuna ipertrofia della produttività riuscirà mai a soddisfare i bisogni creati e moltiplicati a gara» (Illich, 1978).

Rispetto al rischio dell’estremizzazione della critica, mi sembra comunque più insidiosa la tendenza opposta: quella leggerezza tecno-ottimista, presente forse soprattutto a sinistra, che sembra non tenere in alcun conto il fatto che le possibilità aumentate che il progresso tecnologico rende oggi possibili (di accelerazione della produzione, di sorveglianza, militari, di intelligenza artificiale, di intervento sul genoma etc.) andrebbero viste come pericolo in sé, in una fase in cui le leve del potere che le userà non sono certo socialiste, ma non sono nemmeno più davvero “pubbliche” – o più precisamente, in una fase in cui sono gli interessi del capitalismo globale ad utilizzare sempre più come leve, per i loro fini, le stesse strutture statali, così come gli organismi nazionali o sovranazionali di regolamentazione “pubblica” (Saltelli-Dankel-Di Fiore-Holland-Pigeon, 2022), così che l’aumento della portata dell’azione sulla natura e sulle classi subalterne si traduce facilmente in rapporti di dominazione (ancora) più schiaccianti.

Seconda: il miraggio delle rinnovabili

La favola dei led getta luce anche sulla questione delle fonti energetiche: la necessità di ridurre il ricorso al fossile, senza una messa in discussione delle assurdità del modello economico capitalista, a partire dallo stesso concetto di “crescita” che questo rende necessario, non può trovare una risposta convincente nella sola sostituzione delle fonti fossili con quelle rinnovabili.

Troviamo qui un punto cruciale di debolezza di alcune aree dell’attivismo climatico, nel momento in cui interpretano unilateralmente come vittoria le recenti, nuove autorizzazioni di decine di GigaWatt di energia prodotta da fonti green. Se è vero che le fonti fossili rappresentano un problema, d’altra parte è però arduo cantare vittoria di fronte al moltiplicarsi di nuovi impianti di eolico/fotovoltaico quando questi anziché trovare spazio su capannoni o in aree industriali occupano tratti di costa o crinali e pendici montane, tanto più se la loro pianificazione viene gestita dal mercato, passando sopra le proteste delle comunità locali, ma anche in assenza di meccanismi efficaci di valutazione dell’impatto ambientale (e sociale!) e di controllo su fenomeni di infiltrazione mafiosa (Lipari, 2020). I casi della Sardegna, dell’Appennino meridionale, e ora anche centrale (per esempio in Mugello e nella zona di Pennabilli-Casteldelci) raccontano di forme di ri-territorializzazione del conflitto dove aree interne, rurali, spesso montane, colpite da accelerati fenomeni di marginalizzazione, impoverimento, desertificazione dei servizi e spopolamento, si trovano in condizioni di debolezza tali, complice anche il loro vuoto di voce e rappresentanza politica, da non avere reali alternative al lasciarsi ulteriormente defraudare di risorse e futuro da potenti investitori nelle energie verdi. I quali non mostrano pudore alcuno nel presentare gli impianti come attrazione per torme di turisti impazienti di fare trekking/picnic tra il cemento e le megapale, regalando, come omaggio alla devastazione ambientale, il miraggio di un turismo chiamato a rovesciare le sorti declinanti delle economie locali.

A colpire, qui, è l’incapacità di molta parte della sinistra e dell’ambientalismo organizzato, abbagliata dal green delle rinnovabili, di riconoscere, dietro molti di questi progetti, forme di speculazione che, come alcuni hanno sottolineato e documentato (Lipari, 2020; Frazzetta e Imperatore, 2022), vanno invece lette nella prospettiva dell’estrattivismo neo-coloniale e attraverso le categorie del land grabbing – o dell’ancora più insidioso green grabbing, quando l’appropriazione/espropriazione della terra è legittimata dalla solita spennellata di verde.

Del resto, mi sembra che una debolezza più generale di una parte dell’attivismo climatico prenda forma a partire da uno sguardo che guarda al clima, inquadrato peraltro nella perniciosa cornice discorsiva dell’emergenza, senza tenere in dovuto conto come questo vada affrontato in relazione all’inquinamento del suolo, dell’acqua, dell’aria, elettromagnetico e luminoso, ma anche in rapporto al consumo/impermeabilizzazione del suolo, al dissesto idrogeologico, alle servitù militari, all’agroindustria, alle manipolazioni genetiche. Credo che sia in questa limitata capacità di scorgere le interrelazioni che vanno cercate le ragioni dell’afasia a cui assistiamo, non sempre ma pur sempre troppo spesso, da parte dei movimenti dell’attivismo climatico, verso i numerosi conflitti ambientali che punteggiano il nostro territorio, a cui è dedicato il libro di Paola mperatore. Eppure, proprio casi come TAP (Trans Adriatic Pipeline), MUOS (Mobile User Objective System), TAV (Treni Alta Velocità), gasdotti, raddoppiamenti delle corsie autostradali, fino alle nuove costruzioni o ampliamenti di impianti sciistici su Alpi e Appennini, rappresentano alcune fra le innumerevoli ricadute sui territori – impattanti su clima, ambiente, società – di un modello di sviluppo e di consumo in cui vanno cercate le cause della crisi eco-climatica.

In molti tuonano contro l’indifferenza o addirittura il negazionismo climatico che imperverserebbe nel tessuto sociale. Credo che sarebbe invece più utile chiedersi cosa ci sia dietro al debole radicamento sociale di un discorso sul clima che fatica ad avanzare al gradino della giustizia climatica (Imperatore e Leonardi, 2023). È possibile, infatti, che le radici di quella debolezza affondino proprio nelle difficoltà che hanno finora ostacolato un dialogo tra le reti ambientaliste vecchie e nuove ed i comitati attivi nei vari conflitti territoriali, compresi quelli critici rispetto agli impianti di produzione di energia green – difficoltà che hanno una rilevante componente semantica, a cui dedico l’ultimo paragrafo.

Terza: repressione – e prima ancora patologizzazione – del dissenso

Del resto, se quel dialogo è mancato, è anche perché si sa che chi si contrappone ai megaimpianti eolici sui crinali appenninici è, appunto, un irrazionale negazionista climatico, con tutta probabilità foraggiato dall’industria fossile. Proprio come si sa che chi si mobilita contro discariche, gasdotti, TAV o inceneritori lo fa soltanto perché non li vuole nel proprio giardino di casa, altrimenti non avrebbe nulla da obiettare: la diagnosi è presto fatta – e, solo in questo caso, non occorre avere la laurea in medicina: la protesta è affetta da sindrome NIMBY (Acronimo di “Not In My Backyard”: non nel mio giardino).

Il problema è che anche i contadini dei paesi del Sud del mondo beneficiati dal programma AGRA (patrocinato dai filantrocapitalisti (Dentico, 2020) à la Bill Gates) che si ostinano a difendere colture e culture tradizionali contro quella modernizzazione agricola basata su monocolture e glifosato che ha finora funzionato così bene vengono zittiti e delegittimati in quanto anti-scientifici, irrazionali e anti-moderni.

Forse quest’ultimo esempio ci appare più difficile da accostare ai primi due: eppure, credo che proprio questa tensione possa aiutare a riflettere su un ultimo punto, che rappresenta forse la secca più insidiosa. Quella, cioè, di un rovesciamento semantico che fa sì che concetti e battaglie tradizionalmente simbolo della sinistra e dell’ambientalismo siano sempre più espropriati e fatti propri dal capitalismo globale, che li utilizza, dopo averli spogliati del loro significato, per legittimare i propri interessi e imporli mettendo a tacere le critiche. Il programma AGRA sopra richiamato viene sostenuto dalla retorica dello sviluppo sostenibile e del razionalismo scientifico occidentale ed è precisamente questo aspetto che permette di trasformare le conoscenze contadine tradizionali in superstizioni primitive che possono, anzi devono, venire estirpate (Foucart-Horel-Laurens, 2020). Sappiamo che è attraverso il green-washing (o pink-washing, ethics-washing…) che questo rovesciamento diventa possibile: meno chiaro è invece il fatto che possa funzionare in modo così potente perché è stato capace di prendere al suo servizio niente meno che la scienza. Viviamo – è un tema che ho provato a sviluppare in modo più articolato in alcune recenti pubblicazioni (Lello e Bertuzzi, 2023; Lello e Raffini, 2023) – in un tempo segnato da un corto circuito. Da una parte, la scienza e il sapere esperto vengono sempre più utilizzati come base e giustificazione delle decisioni politiche. La scientizzazione della politica illustra la tendenza crescente a presentare qualunque controversia in termini di “verità” scientifiche, nella convinzione che l’expertise scientifica, suppostamente neutrale, possa risultare sufficiente e persino più adatta a sciogliere nodi politici ed etici complessi (Dotson, 2021). Dall’altro però, tendiamo a dimenticare che proprio la scienza – gli ambiti della sua produzione e governance – sia diventata bersaglio privilegiato delle più recenti e pervasive strategie di penetrazione delle lobby. Queste ultime, sfruttando le nuove possibilità date dalla professionalizzazione dell’ influenza digitale, mirano a fare apparire alcuni risultati della ricerca scientifica – quelli selezionati/confezionati in modo conforme ai propri interessi produttivi e commerciali – sotto le spoglie di un sostegno popolare, dal basso, a imperativi di valorizzazione del ruolo della scienza nel dibattito pubblico e nei processi decisionali, o addirittura di difesa della scienza dai supposti attacchi che le verrebbero perpetrati da pericolosi “imprenditori della paura” (come, per l’appunto, i contadini irrazionalmente preoccupati per OGM e glifosato) (Foucart et al., 2020, cit.). È la scienza stessa che viene piegata e strumentalizzata per consacrare e rendere impermeabili alla critica gli interessi dell’industria – anche dei suoi settori più inquinanti e pericolosi per la salute del pianeta e umana – producendo un vero e proprio inquinamento, o dirottamento, della sfera pubblica.

È in questa prospettiva che diventano comprensibili gli attacchi all’agricoltura biodinamica in quanto pratica “anti-scientifica”, a differenza dell’agroindustria che può invece continuare a devastare scientificamente il pianeta.

Siamo di fronte, in campo agricolo, medico, ma anche della salute mentale (Si veda al proposito l’interessante intervento di Negrogno, 2020, in cui l’autore argomenta come anche il “gesto di Basaglia” sarebbe oggi probabilmente catalogato come complottismo), ad una contrazione asfittica dello spazio dell’immaginabile, che si gioca prima di tutto sul piano epistemologico, sotto l’effetto di spinte riduzionistiche, scientiste, che sembrano riproporre il più ingenuo positivismo Ottocentesco rimuovendo in un colpo elaborazioni sedimentate nella filosofia e sociologia della scienza, così come nei Science and Technology Studies. Quel restringimento diventa, in un secondo momento, contrazione dello spazio del dissenso politico. Perché, se non è più la politica, ma è direttamente la scienza a dire cosa è giusto fare, non si può legittimamente essere in disaccordo: chi dissente può solo essere patologico, egoista o ignorante. Poi, basterà «somministrare l’informazione con prudenza» (Come ebbe a dire Mario Monti a In Onda, La7, 27/11/2021) per fare in modo che i più non si accorgano che non si trattava proprio di scienza, ma più modestamente della sua strumentalizzazione; e se qualcuno ancora si dovesse ostinare a far notare la (macroscopica) differenza tra le due, poco male: possiamo sempre dargli del complottista.

La sempre più feroce repressione del dissenso, altra grossa insidia a sbarrare la strada di qualsiasi possibile attivismo, ben descritta nel testo di Paola Imperatore, va letta proprio in relazione alle forme della sua delegittimazione che agiscono, a monte, sul piano semantico e che contribuiscono a giustificarla.

Perché, se il dissenso non è più dissenso, ma solo ignoranza, complottismo o egoismo, allora diventa un po’ più legittimo zittirlo o, perché no, passare direttamente alla privazione di diritti per chi lo esprime. Paola Imperatore ricostruisce efficacemente il combinato disposto tra le leggi che – fin dal 2001, trovando poi significativa accelerazione negli Sblocca Italia (2014), Sblocca Cantieri (2019), DL Semplificazioni (2020) et similia – hanno sottratto spazi di decisionalità ai territori attraverso la velocizzazione e lo smantellamento delle procedure che assicuravano qualche grado di democraticità e trasparenza, e, dall’altra parte, una repressione che non si limita a un crescente ricorso alla forza pubblica, ma assume forme assai più subdole, ed efficaci sul lungo periodo, come le sanzioni economiche e la repressione giudiziaria, dove attraverso l’arbitrarietà, l’accanimento e la sproporzionalità delle misure di restrizione della libertà individuale – come i Daspo urbani, i divieti di dimora e le restrizioni alla mobilità – si punta a scoraggiare e a limitare per via preventiva il diritto di manifestazione e critica. O come, aggiungiamo noi, le misure dirette a subordinare l’accesso a diritti fino a ieri universali all’obbedienza ai diktat governativi, come avvenuto durante la pandemia, in nome anche in questo caso di una scienza che, a guardarla con gli occhi dell’oggi – e francamente anche con quelli di ieri – è risultato avere ben poco di scientifico.

Ma oltre a delegittimare il dissenso e (quindi) legittimarne la repressione, “cattura del linguaggio” e rovesciamenti semantici conseguenti creano disorientamento e fratture laceranti anche all’interno di quelle reti che fino a ieri marciavano compatte in difesa dell’ambiente e dei diritti. Come quando, nell’estate del 2020, le associazioni ecologiste si sono duramente scontrate tra loro e pure al loro interno di fronte al supporto, da parte del WWF nazionale, allo scempio del Jova Beach Tour, che guarda caso utilizzava un’agenzia informativa – dal nome emblematico di “Fonti attendibili”, promossa da una società proprietaria di grandi inceneritori – che dichiarando guerra alle fake news nel nome della Sound Science (la “scienza solida”: categoria emblematicamente introdotta negli anni ’90 dagli industriali del tabacco per designare le ricerche che dimostravano l’innocuità del fumo passivo, cfr. Foucart et al., 2020, cit.) pretendeva di dimostrare il valore ambientale delle attività connesse ai concerti. Con buona pace dei fratini, delle dune teoricamente protette ma realmente sbancate, e dell’ambiente costiero e marino (Cfr. l’intervista di Linda Maggiori a Franco Sacchetti: https://www.peacelink.it/ecologia/a/49191.html). E chi dissente è un econazista, come tenne a precisare il Jova.

Ma sono ancora una volta i rovesciamenti semantici a intorbidire le acque e a ostacolare l’avvio del dialogo costruttivo di cui si parlava poco sopra tra ambientalismo organizzato, istanze di giustizia sociale e comitati territoriali, ivi compresi quelli contro i megaimpianti green. Perché è su tutta una sedimentazione di significati equivocati che si arriva a costruire una falsa contrapposizione tra ambiente e paesaggio, o a rappresentare chi difende i crinali appenninici dal cemento come un “negazionista”. Prenderne coscienza può allora essere un primo passo per sgombrare il campo dai troppi equivoci. Quel dialogo è infatti ineludibile, se l’obiettivo è quello di elaborare risposte alla crisi eco-climatica socialmente legittimate, perché attente ad evitare il rischio che a pagare il conto della transizione ecologica siano sempre i soliti: le classi più povere e sempre più escluse (si pensi alle politiche europee sulla perdita di valore degli immobili non energeticamente efficienti, sulla rottamazione delle auto inquinanti, sulle città a 15 minuti), o i territori marginali, condannati a ulteriore defraudamento.

In fondo, più che indignarsi contro i “negazionisti” climatici, varrebbe la pena di chiedersi perché certe parole d’ordine apparentemente così cristalline e “scientifiche” non arrivano. Forse la loro debolezza sta nel loro essere troppo mediatizzate e di converso troppo disattente, oltre che alla sociologia, alla geografia: incapaci di pervenire alla conoscenza concreta di come funziona un fiume come ecosistema, e sorde al tempo stesso a cosa può significare, al di là degli indicatori scientifici ed economici, un monte, un bosco o un sentiero per la memoria e il legame con il luogo dei suoi abitanti; spesso legittimate da richiami ad una “scienza” agitata come randello da brandire sulla testa a conoscenze altre, locali, situate, possedute da comunità locali a cui, riproducendo un approccio epistemico coloniale (Staid, 2022), si vuole rifiutare diritto di parola, novelli bifolchi da rieducare.

Testi citati

Dentico N. (2020), Ricchi e buoni? Le trame oscure del filantrocapitalismo globale, Emi.

Dotson T. (2021), The divide: How fanatical certitude is destroying democracy, MIT Press.

Frazzetta F. e Imperatore P. (2022) Estrattivismo, colonialismo e land-scape grabbing nella produzione energetica: uno sguardo dalla Sicilia. In F. Amato, V. Amato, S. de Falco, D. La Foresta, L. Simonetti (a cura di), Catene/Chains, Società di Studi Geografici. Memorie geografiche NS 21: 333-337.

Foucart S.-Horel S.-Laurens S. (2020) Les Gardiens de la Raison: Enquête sur la Désinformation Scientifique, La Découverte.

Illich I. (1978) La convivialità, Mondadori, 31-32.

Imperatore P. e Leonardi E. (2023) L’era della giustizia climatica, Orthotes 2023.

Lello E. e Bertuzzi N. (2023) Cattura del linguaggio e patologizzazione della protesta, in M.A. Polesana e E. Risi (Eds.) (S)comunicazioni e pandemia. Ricategorizzazioni e contrapposizioni di un’emergenza infinita, Milano-Udine, Mimesis: 35-65.

Lello E. e Raffini L. (2023) Science, pseudo-science, and populism in the context of post-truth. The deep roots of an emerging dimension of political conflict, Rassegna Italiana di Sociologia, 4.

Lipari S. (2020) Industrial-scale wind energy in Italian southern Apennine: territorial grabbing, value extraction and democracy. Scienze del territorio, 8: 154-169.

Negrogno L. (2020) Il gesto di Basaglia. Studi sulla questione criminale https://bit.ly/3tBrYHx.

Saltelli A.-D.J. Dankel-M. Di Fiore-N. Holland-M Pigeon (2022) Science, the Endless Frontier of Regulatory Capture, «Futures», 135.

Staid A., Essere Natura. Uno sguardo antropologico per cambiare il nostro rapporto con l’ambiente, UTET, 2022.

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