Inizierò il mio contributo a questo numero di fuoricollana con le parole con cui iniziano le storie per bambini, così come ha fatto il mio amico Antonio Cantaro: c’era una volta, perché avvicinarsi a questo tema è tornare ad un passato che sembra ormai lontanissimo. La costituzionalizzazione del lavoro è parte inscindibile della costruzione dello Stato sociale, poiché incorpora come programma l’integrazione del lavoro nel nuovo progetto che rappresentava lo Stato sociale in opposizione al liberalismo.
C’era una volta lo stato sociale
Due sono gli elementi principali, anche se ovviamente non gli unici, che spiegano l’emergere dello Stato sociale: il conflitto e il rischio.
Dalle condizioni di lavoro e di sopravvivenza alla fine del XIX secolo scaturì un conflitto intenso che ha reso insostenibile la continuità di un rapporto capitale-lavoro basato sulla logica del mercato e del contratto. Allo stesso modo, il conflitto e i tentativi di superare il modello liberale (la Comune di Parigi, Rivoluzione sovietica…) minacciarono di rompere il sistema: pericolo che per la prima volta si basava su una proposta alternativa consistente.
Il nucleo della nuova forma di Stato attiene all’integrazione del lavoro e ai meccanismi di autoregolazione finalizzati alla gestione del conflitto. Da questa premessa derivano gli altri elementi caratterizzanti tale forma di Stato, in particolare la nuova costituzione economica.
La costituzione italiana del 1948
Probabilmente la Costituzione italiana del 1948 è, da un punto di vista giuridico, la più fedele interpretazione del “nuovo corso”. Ciò emerge non solo dal tenore letterale della sua apertura – “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” –, ma anche dalla circostanza che i soggetti del conflitto sono incorporati nella trama costituzionale (Barcellona e Cantaro, 1984): la libertà di organizzazione sindacale e il diritto di sciopero (artt. 39 e 40), con una particolare configurazione di quest’ultimo che acquisisce una centralità costituzionale in relazione ai diritti economici (Luciani, 2009). Ciò ha rivelato la centralità del conflitto distributivo nell’integrazione del lavoro. La costituzionalizzazione del conflitto è il grande contributo del costituzionalismo sociale e la sua tutela è uno dei suoi tratti distintivi.
Ciò significa che la stessa concezione del mercato introietta la logica del conflitto distributivo. Pertanto, potrebbe dirsi che l’integrazione del lavoro si realizza anche attraverso il mercato (Gonzalo Maestro, 2015), poiché questo è il campo del conflitto. Gli altri elementi dell’integrazione del lavoro, come i diritti sociali, acquistano una dimensione complementare rispetto a questo, tanto che, espungendo il conflitto distributivo dall’ordine costituzionale, i diritti sociali si denaturalizzano, accedendo a una logica assistenzialistica e inserendosi appieno in quella dell’esclusione del lavoro e della sua decostituzionalizzazione.
La mia concezione dello Stato sociale si basa sull’integrazione tra lavoro e conflitto. Secondo questo approccio, l’intervento sociale dello Stato è un elemento aggiuntivo, che acquisisce il suo senso nel contesto del suddetto programma di integrazione. Come sottolineato, l’integrazione del lavoro nello Stato sociale implica il riconoscimento costituzionale di un nuovo soggetto politico: il lavoro organizzato, che si manifesta sia nella dimensione politica che in quella sociale.
Tale riconoscimento, che comporta la tutela dei soggetti del conflitto, non è soltanto formale, ma si sostanzia nell’intangibilità di questi ultimi. È naturale che questa caratteristica centrale dello Stato sociale sia correlata con un altro suo profilo fondamentale: l’intervento pubblico nell’economia. L’intangibilità dei soggetti del conflitto è, dunque, strettamente connessa all’intervento dello Stato nell’economia, diretto in particolare a vincolare il mercato nel perseguimento di finalità sociali, nonché all’idea di Costituzione come garanzia, secondo la logica compromissoria che permea lo Stato sociale.
Alla luce di ciò, l’intangibilità dei soggetti del conflitto va ben oltre il loro formale riconoscimento, richiedendo un’azione volta al riequilibrio delle rispettive posizioni, che renda conseguentemente effettiva la possibilità di co-determinare la soluzione del conflitto. Tale intangibilità, dunque, rende la promozione del lavoro doverosa: in sua assenza, il riconoscimento formale dei soggetti in conflitto perderebbe di senso. L’intervento normativo pubblico è, insomma, condizione essenziale per il riequilibrio dei poteri dei soggetti in conflitto e, di conseguenza, per l’integrazione del lavoro. Tale intervento si dispiega su due fronti: la promozione del sindacato e la tutela del lavoro nel mercato. Sarebbe arduo concepire uno Stato sociale sprovvisto delle leggi sociali che svolgono questa funzione. L’intervento a sostegno del lavoro significa, nella suddetta logica integrativa, la protezione del soggetto debole.
Libertà di organizzazione sindacale e diritto di sciopero
L’esplicito e formale riconoscimento del lavoro nella sua dimensione sociale, spazio nel quale si svolge la sua azione, è la libertà di organizzazione sindacale. Il sindacato incarna il lavoro nel conflitto distributivo e lo fa in senso lato, in quanto portatore di interessi di classe che si esprimono collettivamente e con una portata globale, interessando il sistema sociale nel suo complesso: un sindacato come soggetto politico. La sua funzione – nonostante i tentativi riduzionistici – trascende la mera dimensione contrattuale. L’ampiezza di quella che si è definita integrazione economica del lavoro e l’intervento pubblico nel governo del ciclo economico impediscono la riduzione del ruolo del sindacato alla mera contrattazione salariale. La sua funzione, necessariamente generale, è determinata dagli interessi di classe, in uno Stato che include il conflitto. L’intervento sindacale si manifesta in due modi: la contrattazione salariale, che assume un significato globale, e la negoziazione della politica economica e sociale, che sottolinea il carattere del sindacato come soggetto politico.
Il diritto di sciopero è, senza dubbio, l’elemento che maggiormente esprime l’essenza del ruolo del sindacato nel programma di integrazione del lavoro che caratterizza lo Stato sociale: la posizione del lavoro in questa forma di Stato non è comprensibile se non si riflette su questo strumento di autoprotezione. È proprio tale diritto ad aver subito un’involuzione normativa nell’ambito della rottura dello Stato sociale causata dal “mercato globale”, che apre la strada alla rimozione del conflitto e alla fine della tutela del lavoro.
Com’è noto, il diritto di sciopero rappresenta l’emblematico intervento normativo, di rango costituzionale, volto a bilanciare la posizione dei soggetti nel conflitto distributivo. Il passaggio dalla libertà di sciopero – ultima fase liberale relativa ai diritti del conflitto sociale – allo sciopero come diritto costituzionale segna l’intervento dello Stato nella correzione dell’asimmetria tra le parti, nell’ambito di un conflitto costituzionalizzato.
Per tale ragione, tale diritto riveste una posizione speciale nella trama dei diritti costituzionali, incidendo su altri, condizionandoli. È nel rapporto tra diritti economici e diritti del conflitto sociale (sciopero) che si evidenziano gli effetti giuridici della tutela del soggetto debole, meccanismo di garanzia dell’effettiva intangibilità del lavoro nello Stato sociale. I diritti economici e il diritto di sciopero non sono pariordinati, in un rapporto simmetrico che possa essere regolato tramite una sorta di bilanciamento. La speciale posizione del secondo fa sì che i primi (diritto di proprietà e libertà d’impresa) risultino, in relazione ad esso, condizionati, sebbene il Tribunal Constitucional definisca lo sciopero come il diritto di sospendere il contratto di lavoro e di fermare l’attività (v., su tutte, STC n. 11/1981). Invero, il ruolo che esso svolge nel quadro dello Stato sociale gli conferisce una portata diversa. Lo sciopero è espressione della dinamica conflittuale nella quale al lavoro è consentito di co-determinare la risoluzione del conflitto: tale diritto, dunque, non può non assumere una posizione privilegiata rispetto a quelli economici.
Alla luce di ciò, il contenuto del diritto di sciopero condiziona, ha lo scopo di condizionare i diritti economici: tra il primo e i secondi, senza dubbio, è impossibile un bilanciamento. Conflitto, integrazione e intangibilità del lavoro si manifestano nella tutela del soggetto debole, incidendo sul sistema dei diritti. Alla debolezza costituzionale dei diritti sociali fa da contraltare la tutela giuridica speciale dei diritti del conflitto sociale. Se la Costituzione pone scarsi vincoli costituzionali al contenuto della risoluzione del conflitto sociale – svolgendo, a tali fini, una funzione di garanzia debole –, gli strumenti di tutela del soggetto debole nell’ambito del conflitto sono intensi e fungono da strumento di integrazione.
Lo sciopero e come la funzione stessa del sindacato assumono, così, una portata più generale nel conflitto distributivo, che trascende la concezione meramente contrattualista.
Come si vedrà, l’alterazione dell’equilibrio tra i soggetti del conflitto provocata dall’arretramento dello Stato rispetto a questa funzione di garanzia della simmetria relativa tra le posizioni delle parti e dalla concezione neo-mercantilistica del conflitto rappresenta una rottura dei principi di questa forma di Stato. Accanto al riconoscimento costituzionale del lavoro, già segnalato, va infatti collocata la nuova costituzione economica dello Stato sociale.
La costituzione economica dello Stato sociale
La costituzione economica dello Stato sociale si configura come uno spazio normativo aperto che include meccanismi di intervento idonei a condizionare il mercato e a modificare il risultato della distribuzione della ricchezza da esso stabilita. È uno “spazio aperto” perché l’uso di tali strumenti di intervento e la loro intensità dipendono dal conflitto sociale e dalle sue forme di composizione; al tempo stesso, tuttavia, costituiscono garanzie di ridistribuzione.
L’identità di questa costituzione economica – che riconduce ai c.d. “trenta gloriosi” – deriva da una commistione tra le condizioni economiche storiche e gli effetti degli interventi a tutela del lavoro. Essa funzionava nel contesto economico del c.d. circolo virtuoso keynesiano, che conciliava le esigenze dell’accumulazione e della ridistribuzione. Crescita, interventi anticiclici, piena occupazione, salario come componente della domanda aggregata: il tutto, nel quadro della ricostruzione postbellica e dell’ordine economico internazionale instaurato da Bretton Woods. La costituzione economica internazionale garantiva lo spazio di autonomia economica degli Stati – che era determinato dal controllo sulla libera circolazione dei capitali – e, in tale contesto, consentiva l’intervento economico in una logica redistributiva. Bretton Woods fungeva da precondizione esterna della costituzione economica dello Stato sociale. D’altra parte, nella teoria keynesiana, i concetti di piena occupazione, salari e intervento pubblico nell’economia sono logicamente inscindibili, rappresentando una critica all’economia classica. In questa sede, interessa segnalare gli effetti dell’interazione di questi elementi. Invero, la piena occupazione e la nuova concezione del salario contribuiscono in modo decisivo al rafforzamento del potere del lavoro, inducendo il funzionamento del mercato a conformarsi a una logica redistributiva. Sebbene l’intervento dello Stato nell’economia rappresenti una garanzia di crescita che, a sua volta, è considerata condizione per la ridistribuzione – sulla base del circolo virtuoso che permetteva la compatibilità relativa degli interessi in gioco e la composizione del conflitto nel quadro giuridico-istituzionale dello Stato sociale –, questa dinamica si fondava sul riequilibrio dei poteri delle parti. In questo modo, la costituzionalizzazione di obiettivi legati all’integrazione economica del lavoro era garanzia di ridistribuzione e favoriva una modalità di risoluzione del conflitto che era la cifra degli “anni d’oro” dello Stato sociale.
Gli elementi caratterizzanti la costituzione economica dello Stato sociale sono dunque i seguenti (in certa misura già analizzati). In primo luogo, un nuovo rapporto tra politica ed economia, che si sostanzia nel governo politico del mercato. In altre parole, è la politica a definire il quadro del funzionamento del mercato, per rendere effettiva l’integrazione del lavoro. In secondo luogo, i vincoli posti al mercato per finalità sociali, che costituzionalizzano il principio della ridistribuzione – improntando ad esso il funzionamento dello stesso sistema economico nel suo complesso – e che introducono nel contempo l’innovativo sistema dei diritti sociali, che si configurano come diritti distributivi (per quanto “diritti speciali”, in una relazione con il mercato che richiede che siano compatibili con quest’ultimo). Tale redistribuzione non è predeterminata, ma si configura come spazio del conflitto.
Occorre, ora, collegare gli strumenti d’intervento pubblico nell’economia al programma dello Stato sociale, da cui discende la particolare configurazione della struttura della costituzione economica, che vede la coesistenza dell’iniziativa economica pubblica e di quella privata. Ciò che rileva non è solo evidenziare la pari legittimità delle due forme di iniziativa, ma anche la peculiare configurazione della stessa iniziativa pubblica: non sottoposta a limiti e dotata di una capacità di condizionare il mercato che la allontana dal costituire un mero strumento ‘tecnico’ di progresso economico.
Accanto all’iniziativa economica pubblica va collocato il sistema di finanziamento della spesa pubblica, nella duplice prospettiva del regime del disavanzo/debito pubblico e del sistema fiscale. La relazione tra questi ultimi è complessa e non è sempre stata tenuta in debita considerazione nell’analisi dei problemi legati all’evoluzione delle forme di finanziamento pubblico pro-mercato. Il principio della progressività, che introduce una logica ridistributiva nella materia fiscale, si presenta come uno spazio del conflitto. L’attenuazione della progressività fiscale e il ricorso al deficit e al debito pubblico segnano il passaggio dalla tensione conflittuale a meccanismi di rinvio spaziale.
La nuova “Forma Globale del Mercato”
L’attenzione è stata finora rivolta agli elementi ritenuti determinanti rispetto alla configurazione del paradigma costituzionale emerso dal secondo dopoguerra e utilizzato, oggi, dalla stragrande maggioranza della dottrina. Nell’interpretazione della concezione costituzionale qui proposta, si è riconosciuta una posizione centrale al conflitto e alla sua inclusione nella ‘norma fondamentale’, che lo assume come elemento strutturale. La connessione tra forma di Stato e Costituzione spiega il ruolo attribuito al conflitto sociale, essendo la sua costituzionalizzazione intima manifestazione del cuore del programma dello Stato sociale: l’integrazione del lavoro.
Da questa prospettiva derivano i concetti di Costituzione come garanzia e di pluralismo e si comprendono appieno la ‘normatività’ e il ‘carattere supremo’ che connotano la concezione della Costituzione. Pertanto, nel sostenere l’avvenuta rottura dello Stato sociale e l’affermazione della nuova “Forma Globale di Mercato”, l’attenzione sarà focalizzata in particolare su un tratto peculiare di quest’ultima, consistente nella rimozione del conflitto, alias: nella sua attitudine neo-mercantilistica.
La rimozione del conflitto implica l’abbandono dell’obiettivo dell’integrazione del lavoro, che definiva il programma dello Stato sociale, così come la neutralizzazione dei meccanismi che consentivano tale integrazione: costituzione economica e diritti sociali. Inoltre, la rottura della forma di Stato sociale determinerà la concezione costituzionale. La crisi della summenzionata concezione prevalente della Costituzione è frutto della rottura della forma di Stato: i due concetti sono strettamente interconnessi.
Tale crisi del paradigma costituzionale inciderà sui suoi elementi identificativi e ne introdurrà di nuovi, determinati dai meccanismi utilizzati al fine di perpetrare la rottura dello Stato sociale. Il rapporto tra Stato e Costituzione subirà, così, una trasformazione radicale, che ridefinirà il costituzionalismo del capitalismo finanziario.
La rimozione del conflitto sociale
Si è già analizzata la portata dell’integrazione del conflitto e il suo significato. L’idea della composizione degli interessi contrapposti attraverso il riequilibrio dei poteri dei soggetti del conflitto, che permetta l’effettiva codeterminazione della sua risoluzione implicava, in parte, l’introduzione di meccanismi di contrasto al mercantilismo e l’assunzione istituzionale della soluzione congiunturale. L’intangibilità dei soggetti del conflitto e l’intervento dello Stato nell’economia componevano il quadro della sua integrazione. La riorganizzazione dei poteri politici ed economici avviene mediante la neutralizzazione delle forme di intervento pubblico nell’economia proprie dello Stato sociale e il recupero dell’autonomia del mercato.
È vero che il riconoscimento costituzionale dei soggetti del conflitto non ha formalmente subito modifiche nella nostra Costituzione. Gli artt. 6 e 7, infatti, rimangono invariati, ma il loro significato ha smarrito il senso originale legato al costituzionalismo sociale. I partiti, nel contesto della crisi della rappresentanza politica, hanno perso la loro connessione con la società e la loro capacità di rappresentare gli interessi del lavoro. Lo stretto legame tra la dimensione politica e quella sociale dell’integrazione – partito e sindacato – spiegano l’erosione di entrambi i soggetti (anche se, naturalmente, in forme e intensità diverse).
La dimensione sociale dell’integrazione politica incide sulla figura del sindacato e sui diritti di autotutela del lavoro: il diritto di sciopero e la contrattazione collettiva. La debolezza del sindacato è il frutto dell’erosione delle basi materiali dell’integrazione economica, che espelle il conflitto sociale da un sistema neo-mercantilistico, stabilendo così una nuova relazione tra economia e politica, di segno opposto rispetto a quella costruita nello Stato sociale.
I meccanismi di composizione del conflitto e l’intervento a sostegno dei soggetti deboli sono sostituiti da quelli neo-mercantilistici imposti dalla governance economica neoliberale. Le regole di organizzazione e composizione del conflitto sono cambiate contestualmente al mutamento delle condizioni economiche. Si registra, quindi, un arretramento dello Stato rispetto alla funzione di tutela del lavoro attraverso la correzione dell’asimmetria di potere tra i soggetti del conflitto, il che acuisce la perdita di potere da parte del sindacato.
La contrattazione collettiva è stata snaturata e ha perso il ruolo che aveva svolto nello Stato sociale: l’individualizzazione dei rapporti di lavoro è stata accentuata, trasferendo all’impresa la gestione della flessibilità della manodopera. La capacità protettiva degli strumenti di tutela dello Stato sociale si è quindi radicalmente indebolita.
Il diritto di sciopero, com’è noto, ha subito un’involuzione rispetto al significato che assumeva nell’ambito dello Stato sociale, accentuata a causa di un nuovo quadro normativo che ne ostacola l’esercizio, depotenziandolo come strumento di autotutela. Il nuovo art. 315, comma 3 del codice penale introduce la pena fino a tre anni di reclusione per coloro che prendono parte ai picchetti, soffocando così la dinamica conflittuale che sosteneva l’integrazione economica del lavoro.
Come si è detto, lo sciopero è un diritto del conflitto sociale, che esplica i suoi effetti nel quadro del costituzionalismo sociale e della garanzia dell’intangibilità dei soggetti del conflitto. Il suo indebolimento comporta l’abbandono di un ruolo dello Stato nel conflitto e funge da meccanismo normativo volto a provocare la perdita del potere del sindacato e del lavoro. È significativa la valutazione delle organizzazioni sindacali al riguardo (espressa nella plenaria del vertice sindacale del 29 gennaio 2016), in base alla quale la svolta dell’atteggiamento dello Stato assuma una valenza di parte, alias: di aiuto diretto al capitale.
Il processo di sostituzione dei meccanismi di integrazione dello Stato sociale è stato contraddistinto dall’intensificazione dell’uso del diritto penale come strumento di controllo sociale che ha favorito l’affermazione di una concezione neo-mercantilistica del conflitto, che comporta l’abbandono della tutela del soggetto debole.
Oltre a questi elementi, occorre far cenno al tema dell’intervento pubblico nel mercato che, come detto, tramite il rafforzamento del lavoro configura il sistema economico come spazio di redistribuzione, in attuazione dell’integrazione economica. Ebbene, tale intervento è stato segnato dall’abbandono del sostegno al lavoro e dalla riduzione della tutela delle condizioni di lavoro. A ciò si è aggiunta la revisione radicale della costituzione economica, che incide direttamente sulle condizioni materiali dell’integrazione. Il passaggio dalla costituzione economica dello Stato sociale alla costituzione economica neoliberale segna la fine del circolo virtuoso keynesiano come paradigma dell’integrazione: è il passaggio dall’intervento pubblico che condiziona il mercato alla centralità e autonomia di quest’ultimo, assunti come principi della nuova costituzione economica. Essa implica la rimozione conflitto sociale, in una prospettiva neo-mercantilistica.
In questa sede, non si intende analizzare in profondità l’evoluzione della costituzione economica e la sua trasformazione in senso neoliberale, generalmente riconosciuta, ma interessa sottolineare la rilevanza di questo cambiamento ai fini della concezione della Costituzione. Una nuova ‘costituzione materiale’ è stata imposta, portatrice di principi in aperto contrasto con lo Stato sociale e dell’idea della subordinazione dei poteri pubblici al mercato, secondo un rapporto inverso rispetto a quello sancito dal costituzionalismo sociale. Invero, non si tratta solo della neutralizzazione degli strumenti di intervento pubblico previsti dalla Costituzione, ma della vera e propria inversione della direzione di tale intervento, rivolto in favore di un mercato escludente.
L’ultima frontiera dell’integrazione economica – i diritti sociali – è stata colpita radicalmente, cosicché il cerchio descritto è stato chiuso.
Si è già evidenziata la complessità concettuale di tali diritti nello Stato sociale, derivante dal loro carattere distributivo: occorre ora soffermarsi sui diritti sociali nel contesto della costituzione economica neoliberale.
Nello stato sociale, i diritti sociali assumevano una duplice dimensione, garantista e conflittuale: la prima si configurava come “garanzia debole”, la seconda presupponeva un rapporto di equilibrio relativo tra i soggetti del conflitto. La debolezza della prima era stata temperata da costruzioni dottrinali e giurisprudenziali poi abbandonate in favore della logica economica. L’irripetibilità e altre tecniche di compensazione della debolezza costituzionale di questi diritti risultano ora recessive, in favore della logica neo-mercantilistica. D’altra parte, la costituzione economica neoliberale ha accentuato la dimensione conflittuale dei diritti sociali, la cui effettività è oggi pregiudicata dall’egemonia del soggetto forte: il capitale. In questo contesto, a causa della sua radicale debolezza, il lavoro è incapace di co-determinare la risoluzione congiunturale del conflitto. L’esito è un deterioramento dei contenuti e delle garanzie dei diritti sociali. La prevalenza della dimensione conflittuale di questi diritti, in un quadro economico-istituzionale di esclusione del lavoro, produce, de facto, la decostituzionalizzazione dei diritti sociali, confinati ad un rango sub-costituzionale. Il costituzionalismo neoliberale ha dunque reso Forsthoff vincitore, depotenziando profondamente la dimensione garantista di tali diritti derivante dalla normatività costituzionale.
La rimozione del conflitto prodotta dall’azione combinata di questi elementi determinerà il cambiamento del paradigma costituzionale sorto nel secondo dopoguerra mondiale, che, come si è detto, era contraddistinto dalla costituzionalizzazione del conflitto e del lavoro. Il neoliberismo opera così una decostituzionalizzazione del lavoro che pregiudica la sua centralità, imponendo un nuovo paradigma: l’esclusione del lavoro, che provoca una pervasiva precarietà.
Testi di riferimento
Barcellona A. e Cantaro A., La sinistra e lo Stato sociale, Roma Editori Riuniti, 1984.
Cantaro A., C’era una volta in Italia, in Fuoricollana, n. 17, 2023.
Maestro G., “Del Estado social a la Forma global de mercado” en Constitucionalismo crítico, liberamicorum Carlos de Cabo Martin, Valencia, Tirant lo Blanch, 2015, pp 62-4.
Luciani M., Diritto di sciopero, forma di stato e forma di governo in Argomenti di diritto del lavoro, 2009, pp.1 ss.
[Il contributo è stato tradotto in italiano da Michele Barone]