IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

La guerra dell’Oriente e gli Occidenti

Sta emergendo una faglia tra economie orientali ed occidentali e un’ulteriore faglia tra il trend dell’economia americana e quella europea. Le ragioni congiunturali e quelle strutturali: la tela cinese e gli errori dell’Occidente.

Le ultime stime del Fondo monetario, in linea con quelle dell’Ocse e della Banca Mondiale, confermano per il 2023 una flessione di un ulteriore mezzo punto della crescita globale. La previsione del 3.2 viene ridotta al 2.7 e non è affatto da escludere che il prossimo outlook di dicembre, possa limarla al ribasso ancora di qualche decimale. Tuttavia, la decodificazione delle tabelle previsionali, declinate per singoli Paesi e poi per agglomerati di macrosistemi territoriali, confermano un rallentamento generale, ma contrapposto al proprio interno. Con curve, cioè, che si flettono e curve che s’inarcano, ma che, né le une né le altre, s’intersecano poiché avvengono tutte racchiuse in quadranti separati. E questi quadranti marcano l’emergere di una faglia, tra le economie, sempre più evidente.

Faglie multiple

La frattura è tra le economie orientali, intendendo per esse quelle dell’Asia orientale con la Cina, il Sud-est asiatico e le isole del Pacifico escludendo Giappone e le due Coree, e quelle del mondo occidentale, nel quale, inoltre, balza inequivocabilmente agli occhi, la formazione di un’ulteriore faglia secondaria al proprio interno, tra il trend dell’economia americana rispetto a quella europea. Infatti, se si esaminano gli andamenti previsionali e li si misurano con una media ponderata, si ottiene un risultato indiscutibile. Infatti la parte occidentale ovvero Usa, Ue e Gran Bretagna, assommano a una stima di crescita media nel 2023 pari allo 0,09. Mentre la parte orientale, con la Cina, l’India più l’aggregato composto da Indonesia, Malesia, Filippine, Thailandia, Vietnam, Cambogia e Laos raggiungeranno una media ponderata di crescita del 5.12. Insomma, una parte del mondo che sarà ferma e un’altra che correrà, da cui si deduce anche che quel 2,7 di crescita mondiale è un po’, come la media dei polli di Renzo, tra uno zero e un cinque, in cui il resto del mondo pesa solo per qualche decimale marginale.

Le ragioni congiunturali

Siamo, dunque, in presenza di una evidente frattura scomposta del mondo. Il passo di analisi successivo è cercare di comprenderne prima le ragioni e poi se esse siano di carattere congiunturale e quindi reversibili o, invece, se non ci siano radici più strutturali. In realtà, va primariamente osservato che è la combinazione tra le due tendenze evidenziate ad aver prodotto uno spostamento nella produzione della ricchezza globale e che questa differente combinazione avviene anche all’interno dei singoli quadranti.
Ad esempio, in Oriente la diversa e draconiana gestione della pandemia in Cina ha rallentato fortemente la sua economia, mentre nel sud est asiatico, il grande motore di crescita, è stata proprio l’uscita dalle restrizioni ad aver determinato un rimbalzo dei consumi.
Ancora. L’aumento dei prezzi delle materie prime e di quelle energetiche hanno avvantaggiato quei Paesi asiatici che ne sono produttori e, in particolare, l’Indonesia, Malesia e le Filippine che sono grandi esportatori di carbone. Inoltre, il rallentamento in atto, ha ridotto in Cina i volumi di export mentre la domanda interna non risulta ancora in grado di rappresentare un volano compensativo per il traino del PIL, provocando un processo delocalizzativo non secondario con lo spostamento di intere produzioni (come nel caso di Apple che si è spostata in India per la produzione degli IPhone 14) o l’allungamento delle catene del valore cinesi verso il Vietnam, Cambogia, Bangladesh e Filippine nella fornitura, subfornitura e componentistica.

La tela cinese

Le suddette ragioni siano tutte ascrivibili alla fase in corso. Mentre invece quelle davvero strutturali sono essenzialmente quattro e tutte di lungo respiro.
La prima consiste in quella che si potrebbe definire la paziente tessitura da parte della Cina della tela di un ragno. Ovvero, un lento ma inesorabile moto di espansione nei grandi “latifondi” territoriali fin troppo frettolosamente abbandonati da un’opposta marcia a ritroso degli Stati Uniti. La Cina ha colmato questo vuoto e lo ha fatto rilevando quei mercati, come in Africa e America Latina (Cile, Brasile, Perù e Venezuela), investendo una gigantesca quantità di risorse (80 miliardi di dollari dal 2018 al 2022) non a fondo perduto ma con prestiti a basso interesse erogati dai più grandi istituti finanziari (First China Bank e Exim Bank of China) in infrastrutture logistiche, nelle reti di trasporto (porti, aeroporti, strade), nella costruzione di dighe e acquedotti, nel sostegno sanitario (ospedali, attrezzature sanitarie fino al personale medico e infermieristico) e nell’istruzione, il tutto in cambio della piena disponibilità delle materie prime sia del sottosuolo che presenti in superficie ( il patrimonio boschivo).
La seconda riguarda il possesso e l’utilizzo delle materia prime di cui anche il sottosuolo cinese è molto ricco specie di quelle più pregiate (le terre rare) per l’industria del futuro. E’ stato calcolato che dei 17 elementi in natura che le compongono come lo scandio, l’erbio, il litio o il cerio indispensabili per l’aerospazio, la produzione digitale, la cibernetica e le armi, turbine e fotovoltaico oltre alla generazione elettrica dell’automotive, il 48,4% sta in Cina, il 25 in India e Vietnam, il 18 in Brasile e solo l’1,3 negli Usa e lo 0,7 in Canadà.

Pandemia e de-globalizzazione

La terza e la quarta ragione riguardano invece la combinazione tra fattori congiunturali (pandemia e guerra) con quelli strutturali. Nel primo caso riguarda il processo di de- globalizzazione che si è avviato con la diffusione del virus. Com’è noto allora esplosero le contraddizioni di una globalizzazione che aveva allungato a dismisura le catene del valore, privando intere aree come l’Europa di prodotti vitali come nella farmacologia inopinatamente tutta de-localizzata a Oriente o, con i lockdown che fermarono contemporaneamente la produzione e il traffico delle merci, spezzando così le catene di approvvigionamento. La reazione fu quella del reshoring, ovvero di un redivivo “sovranismo territoriale”.
È stato il tempo in cui negli Usa il nuovo presidente Biden aveva, confermato quasi senza varianti, la sfida verso la Cina con tutta la batteria di dazi e barriere alle importazioni; l’Unione europea varava il Recovery Plan per realizzare una propria autosufficienza competitiva, mentre, dall’altra parte del mondo, la reazione della Cina fu quella di costruirsi una mini-globalizzazione su scala asiatica. Infatti è, nel novembre del 2021, con la firma di 27 Stati del Pacifico orientale, che nacque il Rcep (Regional Comprehensive Economic Partnership), ovvero un grande blocco commerciale di libero scambio senza dazi e barriere che comprende 2,2 miliardi di persone che producono quasi un terzo del Pil mondiale, oltre a più di un quarto del commercio e al il 50% della manifattura con il 70 di quella elettronica. Un patto politicamente eterogeneo, di cui fanno parte non solo Paesi come la Cina, la Thailandia, l’Indonesia, la Malesia o la Cambogia, ma anche Giappone, Australia, Corea del Sud e Nuova Zelanda. Ed è notizia di queste ore la richiesta anche dell’India di poterne fare parte con un accordo di “associazione”.

Guerra e sanzioni

La quarta ragione affonda, invece, le radici tutte nel tempo attuale: quello della guerra, delle sanzioni e della loro conseguenza. Come è noto le sanzioni sono efficaci alla condizione che la comunità internazionale sia in grado di chiudere in un “recinto”, isolandolo, il Paese sanzionato. Ma nel caso specifico della Russia il recinto è stato invece chiuso solo ad occidente, rimanendo aperto ad oriente e verso il sud del mondo. La conseguenza è stata che la Russia abbia semplicemente cambiato “il portafoglio clienti” verso i Paesi ad est e non più ad ovest. L’antica esperienza di Kissinger aveva più volte ammonito gli Stati Uniti di non fare il tragico errore di far saldare un blocco di interessi tra la Russia e la Cina. Invece è quanto accaduto. Lo spostamento economico della Russia ad oriente rappresenta un aggancio di interessi con la Cina, forte sia dal punto di vista industriale che geopolitico. Industriale perché economie in grande espansione come quella cinese (e indiana) hanno bisogno di poter contare su una fornitura costante di materie prime energetiche e a buon prezzo (i contratti di fornitura per 3000 mgw di gas con la Cina siglato a luglio e quello per 1800 con l’India ad agosto sono stati siglati con un prezzo del gas con uno sconto del 35% rispetto a quello venduto ad occidente).
Ma ancora di più sta in una saldatura di interessi geopolitici poiché una Russia integrata ad oriente dove si condensano le più alte quote di Pil e di densità di popolazione e di mercati, significa anche il consolidamento di un mondo non più subordinato agli interessi e ai valori occidentali e americani, bensì multipolare. Certo lo scarto ancora esistente tra capacità di innovazione industriale e di sapere stratificato scientifico e militare, è significativamente ancora in mano agli Stati Uniti, ma le tendenze in atto rappresentano un colpo di maglio pesantissimo a quella antica e consolidata supremazia, di cui la guerra in Ucraina ne è stato il detonatore.

Errori e divisioni occidentali

Perché su questa guerra, fermo restando le ragioni dei valori di principio, l’Occidente, sul piano economico e politico, sta commettendo errori che rischiano di essere pagati già nel prossimo futuro a caro prezzo.
Intanto, per la rottura tra risposta militare e risposta politica. La diversità tra le due risposte sta nei differenti e contrastanti obiettivi di fondo tra Stati Uniti e Unione europea. Per gli Stati Uniti la guerra in Ucraina rappresenta un’occasione per cercare di logorare il più possibile la Russia sul piano militare, su quello economico e di conseguenza politico, magari finanche al sovvertimento del governo attuale. Per questo punta su tempi lunghi e le armi per farlo sono un’escalation infinita di sanzioni e un rifornimento continuo di armamenti via via più sofisticati. Questi obiettivi vengono realizzati attraverso la mano libera data alla Nato che opera con una logica puramente militare e senza alcun tentativo (che non le compete) di cercare vie di uscita dal conflitto.
D’altronde, per gli Stati Uniti questa rappresenta anche una via facile nella quale si cerca di massimizzarne i vantaggi non avendo quasi nessun prezzo da pagare. Indebolire la Russia viene, cioè, valutata come un’opportunità per poi concentrarsi nella sfida con la Cina che rappresenta il solo e vero avversario economico strategico di questo secolo.

Gli interessi americani

Da qui l’enfasi sulla narrazione di uno scontro epocale tra democrazie e autocrazie al fine di rivestire di principi quella che è sostanzialmente una lotta sulla supremazia economica sul pianeta, sapendo appunto di pagare nel frattempo prezzi minimi. Minimi perché la guerra è lontana e non intimorisce i cittadini americani e il loro umore politico; minimi perché non c’è alcun bisogno di ricorrere a provvedimenti restrittivi interni, da economia di guerra. Al contrario la guerra per molti versi rappresenta un vantaggio economico come per il gas liquido (che vende all’Europa a prezzi maggiorati rispetto a quelli di mercato), così per la produzione alimentare, facendo la fortuna degli agricoltori del Midwest (grano, soia e frumento innanzitutto) e sul piano dell’industria militare e quindi delle tecnologie.
Mai come nel 2022 l’economia americana è andata così bene. Nei primi due trimestri il Pil è cresciuto oltre il 4% e il tasso di disoccupazione sceso a un record che non si toccava dal 2005, al 3%. È questo benessere diffuso che ha generato inflazione: un inflazione per eccesso di domanda e non dai rincari delle materie prime e quindi da offerta come in Europa. La Federal Reserve è dovuta intervenire con l’aumento continuo dei tassi d’interesse (a fine anno forse fino al 4%) per cercare di frenare i consumi e abbassare la curva del tasso dì inflazione.
Infine, gli Stati Uniti sono un Paese relativamente dipendente dal mercato delle materie prime, perché produttore in proprio, specie di quelle energetiche, e con un reshoring iniziato durante l’American first di Trump, che ha contribuito ad accorciare già molte catene del valore nel settore manifatturiero.

Gli interessi europei e il ‘suicidio’ dell’Unione

Per l’Unione europea è tutto l’opposto e non solo perché la guerra sta avvenendo ai confini di casa, a un’ora di aereo da Berlino e meno di due ore da Roma. Ma perché i tempi lunghi di una soluzione del conflitto corrispondono a mettere in ginocchio i tre motori della ricchezza europea, innanzitutto la Germania e poi la Francia e l’Italia con conseguenze non solo economiche ma sociali e politiche incalcolabili. E ancora perché le sanzioni ingenerano un regime di contro sanzioni, e le uniche a pagarle è proprio l’Europa in termini di rincari dei prezzi, d’inflazione e di recessione.
Per questo la divergenza tra Stati Uniti e Unione europea è oggettivamente strategica e più Bruxelles tarda a prenderne atto e maggiori o irreparabili saranno i danni che si produrranno. Anche per questo è del tutto fazioso leggere con gli occhi di oggi le pagine precedenti della storia. È banale accorgersi solo ora, ad esempio, di un’eccessiva dipendenza tedesca o italiana dal gas russo, quando non c’era alcuna ragione al mondo per la quale, nello stesso continente, grandi Paesi manifatturieri ma privi di materie prime energetiche e grandi Paesi invece ricchi avessero fatto altrimenti che costruire rapporti stretti di collaborazione e di interscambio fruttuoso per entrambi. Tra le pagine più belle dell’Europa non ci sono quelle della cortina di ferro con le reciproche minacce nucleari, bensì quelle dell’ostpolitick e delle relazioni industriali, artistiche e culturali con la Russia.
La Federazione russa di Putin a tutto questo ha dato un micidiale colpo di maglio, ma un’Europa lungimirante avrebbe tutto l’interesse “a combattere duramente il presente ma guardando anche al futuro” per evitare che la Russia diventi non solo più asiatica, ma anche nemica duratura dell’Occidente e dell’Europa. Lasciare allora che sia la Nato a gestire questo delicatissimo assetto futuro delle relazioni internazionali rappresenta davvero un “no sense”.
Così come per l’Europa non ha alcun senso strategico intessere con le grandi economie orientali a partire da quella cinese, come per gli Usa, una sfida “all’ultimo sangue” per gli anni che verranno, a colpi di dazi e barriere doganali. Perché l’Europa è un sistema trasformatore e per questo ha bisogno di intessere rapporti solidi e continui con i Paesi produttori di materie prime e perché l’Europa, Germania e Italia intesta, essendo economie in cui la propria ricchezza risiede nelle esportazioni, necessita di mercati aperti e non di un mondo chiuso.

L’autonomia strategica presa sul serio

D’altronde, questo è l’unico scenario concretamente possibile nel quale l’Europa può accrescere la propria autonomia strategica sia competitiva che geopolitica. Perché, come dimostrano gli ultimi tre anni, la ricerca di una effettiva autonomia europea non può fare a meno della propria efficienza economica. In questi anni infatti si è chiaramente constatato che le catene corte per un macro-sistema territoriale trasformatore, danno certo più sicurezza, ma al prezzo di un forte incremento di costi i quali poi riducono i livelli di esportazione. Sapendo anche che, se nel mondo si spezzasse davvero il cuore dello scambio tra materie prime e prodotto, e quindi del commercio internazionale, chi delle prime ne detiene la proprietà, poi decide “monopolisticamente” anche la loro disponibilità sia in termini di tempi di fornitura che dei relativi prezzi mentre, tutti i problemi si scaricherebbero sui Paesi che fanno il prodotto, in termini di inflazione importata, impoverimento sociale e caduta di competitività. Insomma, in un mondo ormai costruito con un altissimo livello di compenetrazione dei sistemi produttivi, la segmentazione dell’economia mondiale rappresenta un rischio molto alto per quelli, come l’europeo, che non hanno né la forza né l’autosufficienza di quello americano o cinese.

Contro la narrazione dell’Occidente indistinto

Il mondo aperto va certo regolato, non abrogato, sapendo che esso è stato messo in crisi prima da Trump e ora da Putin, ma che l’Europa ha tutto l’interesse di mantenere aperti gli scambi commerciali, affermando così non lo status di un Occidente indistinto ma “di Occidenti nell’Occidente” con una propria autonomia economica, politica sociale e valoriale (e di difesa). È fin troppo facile constatare che, tranne singoli episodici sobbalzi, di questa visione strategica non ci sia stata in realtà quasi nessuna traccia.
Ma ciò non toglie che non vi sia altra strada ragionevole. E che ritardandone l’azione, le conseguenze politiche porteranno sempre di più a sentimenti di sfiducia collettiva e chiusure nazionaliste, precludendo quella timida prospettiva, nata solo due anni fa, dopo il risultato delle ultime elezioni europee che generarono la scelta di un debito comune verso un’Europa più integrata, più solidale e più civile. Un’Europa cioè meno rigorista, meno liberista oltre che insopportabilmente rissosa e chiusa solo tra i differenti miopi interessi nazionalistici, che avevamo davvero sperato, allora, di aver buttato definitivamente alle spalle.

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