Centoventisei deputati del Rassemblement national siedono tra i banchi dell’Assemblea nazionale francese dallo scorso luglio, permettendo al partito di Marine Le Pen di poter contare, per la prima volta nella sua storia, sul gruppo parlamentare col più alto numero di iscritti. È questo il risultato dello scioglimento anticipato deciso dal Presidente Macron la sera del 9 giugno, quando, a seguito del risultato storico ottenuto dal partito di estrema destra alle elezioni europee, aveva voluto appellarsi alla responsabilità degli elettori al motto “o noi o il caos”.
C’è poco da rallegrarsi
Certo, il tradizionale “fronte repubblicano”, benché oramai un po’ logorato, ha permesso di evitare il peggio: laddove i sondaggi, confortati dai risultati del primo turno, facevano presagire che il Rassemblement national (RN) sarebbe diventato il partito di maggioranza e gli interrogativi concernevano piuttosto l’ampiezza effettiva di questa maggioranza e la possibilità di un governo monocolore, l’estrema destra costituisce invece soltanto il terzo blocco in seno all’assemblea. Tuttavia, sebbene il partito lepenista non acceda ancora a Matignon (1), c’è poco da rallegrarsi. La sua influenza in parlamento è più forte che mai e rischia di accentuare la convergenza verso destra dell’indirizzo politico, nella continuità di quanto già osservato nel corso della precedente legislatura (2), permettendo peraltro al partito lepenista di rafforzarsi in vista delle prossime elezioni (per le presidenziali del 2027 e presumibilmente già per le prossime legislative anticipate) (3).
“Dediabolizzazione” dell’estrema destra, ma non solo
Com’è noto, ciò che ha impedito fino ad oggi all’estrema destra francese di accedere al potere, che si tratti delle elezioni presidenziali o delle legislative, è il sistema a doppio turno, che ha permesso agli altri partiti di fare fronte comune – e agli elettori di convergere verso tale fronte “repubblicano” – in occasione dei secondi turni. Così – con l’eccezione delle elezioni del 1986, le uniche svoltesi con il proporzionale sotto la Quinta Repubblica, che avevano portato in parlamento 35 deputati dell’allora Front national – l’estrema destra era riuscita a portare soltanto un deputato all’assemblea per tre legislature, quindi due nel 2012 e 8 nel 2017.
Tuttavia, i tempi sono cambiati da quando, ad una settimana dallo “shock del 22 aprile” che aveva visto Jean-Marie Le Pen accedere al secondo turno delle presidenziali, oltre l’80% dei votanti (di destra, sinistra e centro) si riuniva compatto a sostegno di Chirac. Passato di padre in figlia, il partito ha conosciuto una “dediabolizzazione”, grazie ad un profondo rinnovo probabilmente più cosmetico che ideologico, che gli ha consentito di liberarsi dell’etichetta di partito neofascista e antisemita. Diventando dapprima presentabile, poi negli ultimi anni addirittura “pop”, il RN è riuscito ad intercettare un ampio elettorato non solo nella Francia rurale e operaia, ma anche oramai all’interno di qualunque categoria socio-professionale e generazionale (da ultimo con l’ascesa social di Bardella, che ha consentito di fare breccia nell’elettorato più giovane). L’estrema destra lepenista è così riuscita a portare in parlamento 89 deputati nel 2022 e 126 lo scorso luglio, grazie a quasi dieci milioni di voti (che salgono a undici se si contano i suoi alleati di estrema destra).
Le cause di questo successo non vanno ricercate soltanto nell’operazione di dediabolizzazione ora ricordata e nell’avanzata dell’estrema destra in tutta Europa (nonché al di fuori), ma anche nel fallimento delle strategie di argine portate avanti in questi ultimi anni; fallimento dovuto, da un lato, ad un riposizionamento a destra dell’asse politico (fenomeno anch’esso osservabile pure altrove) e, dall’altro, ad un indebolimento del tradizionale fronte repubblicano, sia dal lato delle forze politiche (con la destra gollista e lo stesso Macron che hanno messo pericolosamente sullo stesso piano l’estrema destra e il partito di sinistra de La France Insoumise) che dal lato degli elettori, stanchi di trovarsi a decidere davanti a questo aut aut che ha finito per aggravare la crisi delle rappresentanza e dei partiti, riaprendo il dibattito mai del tutto esaurito sulla necessità di riforme istituzionali e elettorali.
La logica della presidenzializzazione ha, alla fine, prevalso ancora
In tale contesto, il secondo turno del 7 luglio ha rappresentato una sorta di plebiscito pro o contro l’estrema destra, provocando una forte mobilitazione che ha fatto registrare un’affluenza record di oltre 20 punti percentuali superiore alle elezioni del 2022 e una maggioranza di oltre il 60% dei votanti che si è espressa nettamente contro l’accesso dell’estrema destra al potere. Tuttavia, i risultati dell’elezione hanno dato luogo ad un’altra situazione inedita nella storia della Quinta Repubblica: dalle urne non è uscita alcuna maggioranza politica abbastanza solida da esprimere un governo, mettendo a dura prova tutte le pratiche e consuetudini costituzionali formate sull’esistenza di un “fatto maggioritario”.
La coalizione di sinistra del Nuovo fronte popolare, costituitasi rapidamente non solo come coalizione elettorale ma come unione politica intorno ad un programma di governo, è risultata inaspettatamente la prima forza politica della neoeletta assemblea, ma con una maggioranza relativa di 192 seggi su 577, troppo ridotta per consentirle di governare da sola. D’altro canto, la coalizione centrista di Macron, uscita nettamente sconfitta dopo il primo turno che ha denotato un forte voto-sanzione nei confronti del partito di governo, è riuscita a contenere i danni grazie ai patti di desistenza con la sinistra al secondo turno, che le hanno permesso di diventare la seconda forza politica all’assemblea e di aspirare a diventare il fulcro di una nuova maggioranza di coalizione.
In un paese del tutto avulso dalle logiche parlamentari (il Presidente Macron ha lasciato trascorrere una decina di giorni prima di accettare le dimissioni del suo governo, e ancora un mese e mezzo prima di procedere a delle consultazioni), la formazione del governo è stata particolarmente laboriosa, rivelando tutti i limiti della Quinta Repubblica, calcata sulla presidenzializzazione del sistema politico e sull’esistenza di maggioranze monocolore. Ed è proprio la logica della presidenzializzazione che ha prevalso anche in questa circostanza inedita, con il Presidente che è riuscito a tirare le fila della formazione del nuovo governo, pur non potendo più contare su una propria maggioranza.
Il governo di minoranza di Macron
Davanti al rifiuto, da parte dell’alleanza di sinistra, di qualunque ipotesi di “larga coalizione” e di compromesso di governo, il Presidente Macron, cui la Costituzione affida la nomina del Primo ministro libera da qualunque condizione, si è infatti rivolto alla destra gollista per formare una nuova coalizione di governo.
Il governo presieduto da Michel Barnier, ex-ministro gollista ed ex-commissario europeo scelto soprattutto per le sue spiccate capacità di mediazione dimostrate nella negoziazione della Brexit, è composto di ministri gollisti e macronisti (questi ultimi in maggioranza), cui si aggiunge un solo ministro indipendente di sinistra, e sarà sostenuto dall’ex-maggioranza relativa che è uscita sconfitta dalle urne, col sostegno della quarta forza presente in parlamento (rappresentativa del 7% dei voti espressi).
Ma com’è riuscito Macron a trasformare una sconfitta elettorale in un mandato per continuare a governare? Facendo un uso discutibile delle sue prerogative di arbitro e di decisore nella formazione del governo che portano a interrogarsi ancora una volta sul grave squilibrio democratico prodotto dalla presidenzializzazione della Quinta Repubblica. Ritenendo che “un governo espressione del solo programma e dei soli partiti proposti dalla coalizione del Nuovo Fronte Popolare sarebbe immediatamente sfiduciato dagli altri gruppi che compongono l’assemblea” poiché “disporrebbe immediatamente di una maggioranza contraria di oltre 350 deputati” (così il comunicato ufficiale diffuso a seguito delle consultazioni), il Presidente si è arrogato il diritto di nominare un governo espressione di un’altra coalizione formatasi in sede di consultazioni, tra il centro-destra e la destra.
L’asse continua a spostarsi verso destra
Ora, pur ammettendo che, conformemente alla logica parlamentare e in assenza di norme che obblighino a nominare a capo del governo un rappresentante della formazione politica che abbia ottenuto la maggioranza relativa, il presidente possa cercare di promuovere attraverso le consultazioni una maggioranza differente suscettibile di sostenere più saldamente un governo, la posizione di Macron è criticabile sotto un duplice profilo. Da un lato, si noterà che il governo presieduto da Michel Barnier può contare su una maggioranza di 213 deputati – ovvero solo una ventina in più rispetto al Nuovo Fronte Popolare – e che anch’esso è dunque esposto al rischio di sfiducia in quanto si trova immediatamente contrapposto a “una maggioranza contraria di oltre 350 deputati”. Dall’altra, è innegabile la difficoltà di concepire l’intermediazione del Presidente nella formazione del governo come quella di un presidente-arbitro tipico dei regimi parlamentari, dal momento che questi si ritrova ad essere nella posizione quantomeno problematica di arbitro e parte in causa, andando ad imprimere il proprio indirizzo politico al neonominato governo, che presenta peraltro diffusi elementi di continuità rispetto al precedente governo dimissionario.
La logica della presidenzializzazione è stata dunque decisiva nella formazione del governo e, in assenza di una maggioranza assoluta di colore diverso che avrebbe obbligato Macron ad una coabitazione, il Presidente si è arrogato il diritto di nominare un governo al quale imprimere il proprio indirizzo politico, in un equilibrio istituzionale inedito definito di “coesistenza”. Così, dopo uno scioglimento anticipato, un’elezione e quasi due mesi di attesa, molto poco è cambiato: da un governo di centro-destra con l’appoggio esterno della destra si è passati ad un governo di destra-centro, con l’asse che continua a spostarsi verso destra…
Quell’argine oramai vacillante
Il governo presieduto da Michel Barnier si presenterà a breve in parlamento per presentare la propria dichiarazione programmatica, ma non solleciterà il voto di fiducia (ritenuto facoltativo secondo un’interpretazione discutibile del dettato costituzionale, piegata alla logica presidenzialista). Se la sua speranza di vita potrà difficilmente superare la durata di qualche mese, il suo principale obiettivo resta quello di approvare la legge di bilancio e di finanziamento della previdenza sociale, il che potrà farsi soltanto al prezzo di qualche compromesso trovato grazie a qualche altro disegno di legge sul tavolo.
Potendo contare, come ricordato, su una maggioranza relativa di soli 213 deputati (che peraltro inizia già a spaccarsi sul sostegno alla legge di bilancio, con una trentina di deputati macronisti che hanno dichiarato di volersi opporre agli aumenti dell’imposizione fiscale annunciati), esso potrà infatti governare solo col sostegno esterno della sinistra o dell’estrema destra. La composizione del governo e le prime dichiarazioni fanno tuttavia pensare che il sostegno per le prime misure potrà trovarsi tra le fila del Rassemblement national.
Sebbene il governo abbia escluso qualunque ricerca di sostegno da parte del RN, ci sono stati infatti diversi segnali di apertura in questi giorni: dal discorso di insediamento del Primo ministro che ha ripetutamente affermato e rimarcato di cercare il dialogo con qualunque forza politica, alle dichiarazioni del ministro dell’Interno e dello stesso Primo ministro che hanno insistito sulla necessità di rafforzare le politiche su immigrazione e sicurezza. Che si tratti di cercarne il sostegno o di entrarci in competizione, si continua insomma a osservare questa diffusa quanto incomprensibile tendenza a voler combattere l’ascesa dell’estrema destra facendo proprie alcune delle sue principali rivendicazioni, con la speranza di limitare la fuga di elettorato.
Il Rassemblement national sarà dunque l’ago della bilancia dell’azione del governo e altresì della sua eventuale caduta. Da esso dipenderanno, probabilmente, l’approvazione delle leggi di bilancio e di altri eventuali provvedimenti in materia di immigrazione, sicurezza e lotta alla frode fiscale da parte dei beneficiari di prestazioni sociali. E da esso dipenderà altresì la capacità del governo di non farsi sfiduciare, in quanto la sinistra ha già fatto presente che non voterà una mozione di sfiducia presentata dall’estrema destra, mentre quest’ultima si riserva la possibilità di votare un’iniziativa della sinistra.
La strategia di argine contro l’avanzata dell’estrema destra da parte delle forze centriste e golliste appare in fin dei conti ancora una volta più formale che di sostanza: sebbene il RN sia stato tenuto fuori dal governo e dai posti chiave all’assemblea, il contraltare di quest’esclusione formale è l’inclusione di diversi cavalli di battaglia dell’estrema destra nell’agenda di governo. Eppure, l’approvazione della discussa riforma sull’immigrazione, adottata negli ultimi anni con i voti dell’estrema destra lo scorso gennaio, sembrava aver dimostrato che fare proprie le politiche dell’estrema destra non fa che contribuire all’aumento di consensi del partito lepenista e al corrispondente calo di consensi del partito di maggioranza…
Perpetrare questa strategia nell’attuale configurazione politica può portare a risultati ancora più drammatici, in quanto l’estrema destra lepenista rischia di uscirne vincitrice in ogni caso, potendo intestarsi successi importanti (come già avvenuto nel corso della precedente legislatura) e al contempo rivendicarsi fieramente d’opposizione, continuando a capitalizzare consenso grazie alla contestazione delle misure impopolari del governo (in materia di pensioni, tasse e tagli ai servizi pubblici ad esempio). Il rischio più grave, la notte del 7 luglio, sembrava scongiurato. Ma il contesto politico dell’attuale legislatura non sembra poter rallentare l’ascesa dell’estrema destra in vista delle prossime elezioni, complice anche il sostanzioso incremento dei finanziamenti pubblici su cui potrà contare grazie allo straordinario risultato elettorale, che le consentirà di arrivare più preparata alle presidenziali nel 2027, e verosimilmente già alle prossime legislative anticipate del 2025.