Molte cose sembravano essersi mosse nella UE con la crisi del Covid, nella direzione di un maggiore coordinamento, se non addirittura verso una nuova stagione di collaborazione fra stati membri. La provvida sospensione del patto di stabilità, unita alla non così scontata decisione di dare vita a un piano europeo della portata del NGEU, aveva fatto addirittura sperare che le prossime regole avrebbero confermato l’avvio di una nuova stagione di apertura, in cui la crescita avrebbe smesso di essere sacrificata a una stabilità cercata a tutti i costi.
Il “momento hamiltoniano” è alle spalle
Anche con la crisi geopolitica e geo-energetica legata alla guerra in Ucraina molte cose si sono mosse. Ma in una direzione diametralmente opposta alla precedente: mai come in questo momento l’Europa vede i suoi stati membri muoversi su sentieri di puro interesse nazionale, accomunata solo dalla sua incapacità di avere un ruolo non subordinato nella gestione e nella negoziazione dei molti punti geopolitici delicati che la guerra sta facendo drammaticamente emergere. Con il rischio di una fragilizzazione dell’intera costruzione europea e di una marginalizzazione dell’Europa.
La decisione con cui oggi in Europa si decide di non decidere assieme su questioni cruciali fa pensare che il “momento hamiltoniano” del 2020-2021 non sia stato che una parentesi, una sorta di fiammata d’entusiasmo, destinata, come tutti gli entusiasmi, a spegnersi.
Se si dovesse ragionare in termini puramente “realistici” questa potrebbe essere la conclusione. Se però guardiamo alle possibilità e alle potenzialità di un’Europa in grado di trovare soluzioni comuni in vista di un suo posizionamento non solo geopolitico, ma anche propriamente politico, allora le soluzioni che si sono trovate in emergenza dovrebbero trasformarsi in soluzioni strutturali. In particolare, per quanto riguarda le politiche fiscali e il loro necessario pendant: le politiche e le istituzioni legate alla gestione del debito.
Questo quadro, già non roseo, è reso ancora più complicato dalla fiammata inflazionistica, legata, in Europa almeno, essenzialmente al rincaro dei prodotti energetici. Se da una parte la BCE non può che reagire, adeguandosi, al rialzo dei tassi americani, dall’altra la stretta monetaria si scontra con il ruolo da essa svolto almeno dal 2015 nella mitigazione degli spread sui titoli del debito pubblico dell’eurozona, generando un potenziale conflitto di obiettivi. La vaghezza del nuovo strumento messo in campo dalla BCE, il Transmission Protection Instrument, TPI, è un indizio alquanto probante del suo imbarazzo.
La “riforma” del MES
È dunque in questo quadro che si iscrive la riforma del MES. Ed è sempre in questo quadro che dobbiamo chiederci se questa riforma possa accontentarsi di essere un rabberciamento marginale o debba assumere il senso radicale, e letterale, di un cambiamento di forma, e di indirizzo.
Per rispondere alla domanda, è opportuno ricordarsi a quale fine il MES è stato ideato, per successivamente chiedersi se il modo in cui è stato istituito risponde adeguatamente al fine.
Ora, il fine è nel nome, European Stability Mechanism: si tratta di un “meccanismo di stabilizzazione”, pensato per sovvenire alle esigenze di finanziamento di stati che momentaneamente non possano accedere ai mercati finanziari. È un meccanismo, certo, ma di cura, non di prevenzione, come invece il fine della stabilizzazione richiederebbe. E poco importa se in alcuni (pochi) casi abbia “funzionato”, e in altri no: dopo la Grecia la “cura” del MES è diventata politicamente improponibile, anche quando durante il Covid, si è tentato di trasformarlo da “fondo salva stati” in “fondo aiuta stati”.
Ma come funziona il MES? Si tratta di un ente di diritto privato internazionale e non di una istituzione europea, che tuttavia è stato capitalizzato dagli Stati dell’eurozona. E qui già la prima sorpresa: la capitalizzazione del MES implica una forma di mutualizzazione, giacché gli apporti di capitale non sono proporzionali alla rischiosità del paese ma alla sua dimensione economica e demografica. E stiamo parlando di 80 miliardi versati e di 600 miliardi di “callable shares”, cioè di apporti ulteriori obbligati e proporzionali alle quote versate.
In ogni caso, è sulla base del suo capitale che il MES può finanziarsi sul mercato a tassi vicini al risk free, per poi “girare” gli importi allo stato in difficoltà, riservandosi però un controllo molto marcato sulle sue finanze pubbliche, dal momento che il suo debito è un debito “senior”, cioè con precedenza nel pagamento.
Resta il fatto che si tratta di cura e non di prevenzione. Ed è per questo che è legittimo chiedersi se una riforma del MES non ne debba radicalmente cambiare il modus operandi, proprio per preservare la giusta e condivisibile finalità di stabilizzazione.
Dobbiamo domandarci, però, da dove venga l’instabilità finanziaria dell’eurozona e che ruolo vi giochino i debiti pubblici.
L’irrazionalità dei mercati finanziari
L’ipotesi che si può fare, e che è sempre più condivisa, è che l’instabilità derivi dall’incompletezza dell’unione monetaria: Maastricht ha dotato l’eurozona, e in prospettiva l’Unione, di una moneta unica ed ha quindi unificato la politica monetaria, attribuendola alla BCE, ma ha lasciato gli stati membri responsabili delle loro politiche fiscali, attribuendo ai mercati finanziari il ruolo di giudice della “salubrità” delle medesime.
Il punto è che solo dei mercati davvero efficienti possono esercitare adeguatamente un ruolo di disciplina, premiando i virtuosi e punendo i “prodighi”. In altri termini, più precisi: se, e solo se, i prezzi delle obbligazioni pubbliche riflettono solo ed esclusivamente lo stato dei “fondamentali” fiscali di uno stato, allora i mercati svolgono una funzione di disciplina.
La crisi dei debiti sovrani ha mostrato esattamente l’opposto: gli spread si sono gonfiati in un modo che solo in minima parte poteva essere spiegato con il peggioramento dei fondamentali degli stati, e in parte maggioritaria con una situazione, sostanzialmente irrazionale, delle aspettative che le trasformava in aspettative autorealizzantesi: siccome “si pensa” che uno stato peggiorerà, allora si vendono i suoi titoli, con l’effetto di abbassare il prezzo e aumentare il rendimento, e quindi di realizzare il peggioramento temuto. Come dicevano già nel 2012 due economisti italiani tutto fuorché eterodossi, Favero e Missale, “l’impatto di questa variabile di rischio globale non è costante nel tempo, chiaro segno di un contagio guidato da variazioni del market sentiment. Questa evidenza indica una discontinuità nel ruolo disciplinare dei mercati finanziari. Se i mercati possono rimanere irrazionali più a lungo di quanto un Paese possa rimanere solvibile, allora il ruolo dei differenziali di rendimento sulle obbligazioni nazionali come strumento di disciplina fiscale si indebolisce notevolmente”.
La nostra proposta di un Agenzia europea del debito
Come fare allora per trasformare la cura in prevenzione, senza però contravvenire al divieto di mutualizzazione e senza indebolire la disciplina, aumentando il rischio di “azzardo morale”, per cui gli stati, sentendosi “coperti”, “sbracano” nei conti facendo “spese folli”?
La risposta è ai miei occhi la trasformazione del meccanismo di stabilità in una agenzia europea del debito, chiamata a gestire per conto degli stati membri l’accesso al mercato, e sufficientemente solida per finanziarsi sul mercato per poi rifinanziare gli stati, filtrando, grazie alla sua credibilità, il rischio di fiammate irrazionali sui mercati stessi.
In questo senso vi sono varie proposte, italiane se guardiamo agli autori, ma europee nel loro respiro istituzionale, e tutte accomunate dall’idea che una gestione collaborativa del debito sia più efficiente di una gestione puramente concorrenziale, in cui i singoli stati cercano sui mercati il loro vantaggio a scapito di altri. Vale infatti la pena ricordare che il peggioramento, largamente indebito, della situazione di uno stato si riflette inevitabilmente nel miglioramento altrettanto indebito della posizione di altri stati. È la “fuga verso la qualità”: se vendo irrazionalmente titoli italiani, aumentandone il rendimento e quindi il costo per lo stato, comprerò altrettanto irrazionalmente titoli dei paesi del nord, diminuendone il rendimento e quindi il costo.
Mi concentrerò ora sulla proposta che da tempo vado facendo con i miei colleghi Belloni, Favero, Gobbi e Saraceno.
Nella nostra proposta, la European Debt Agency (EDA) ha come scopo di assorbire, nel tempo, tutto il debito pregresso degli stati membri e tutto il loro debito nuovo. Dico “nel tempo” perché la EDA entra in gioco quando una tranche del debito scade e deve quindi essere rifinanziata.
In quel momento, la EDA si procura denaro sui mercati emettendo obbligazioni a scadenza finita e finanzia lo stato membro (che quindi non emette più nuovi titoli) con un prestito perpetuo. Lo stesso meccanismo si applica per il finanziamento dei nuovi deficit.
Il vantaggio è doppio: per gli stati, che da quel momento e per quell’importo, non avranno più il problema del suo rifinanziamento a scadenza, ma del suo servizio perpetuo, mediante il pagamento di rate di ammortamento perpetue; per i mercati, che continueranno a comprare obbligazioni (della EDA) a scadenza finita.
Questo schema di fatto filtra sistematicamente quello che si chiama rischio di liquidità e di rifinanziamento, che l’esperienza ha mostrato essere molto più sensibile alle aspettative che non ai fondamentali.
Tuttavia, la EDA non ha nessun aspetto mutualistico, che avvantaggerebbe gli stati più finanziariamente deboli a scapito dei più forti, alimentando la possibilità dell’azzardo morale. Non essendo mutualistica, la EDA non solo rispetta l’articolo 125 del TFUE, che vieta la mutualizzazione, ma rispetta il principio democratico che ne è alla base: non è giusto obbligare un contribuente del paese A a pagare per il debito del paese B, semplicemente perché questo contribuente non ha contribuito a eleggere il governo del paese B. In assenza di un governo, e di un ministero delle finanze, compiutamente federali, cioè a base elettorale davvero europea, la mutualizzazione non è una soluzione percorribile.
Perché è evitata? Perché il calcolo delle rate di ammortamento praticato dalla EDA nei confronti dei singoli paesi tiene conto delle differenze nei loro fondamentali, e quindi della loro differente rischiosità. A titolo di esempio (e con il caveat che il metodo usato nei nostri articoli scientifici non è l’unico metodo pensabile, e dovrebbe essere sostituito da metodi di valutazione interna qualora la EDA gestisse effettivamente tutto il debito dei paesi membri): la rata di ammortamento annuale di un paese “tripla A” sarà inferiore alla rata di ammortamento di un paese “tripla B”, secondo una proporzione che dipende dalla probabilità di default di ciascun paese. Ognuno paga in base al suo rischio. Ma solo in base al suo rischio fondamentale.
Ovviamente, trattandosi di prestiti perpetui e siccome le condizioni complessive possono cambiare, sia sul mercato, sia nello stato delle finanze pubbliche (miglioramento o peggioramento), la rata annuale è soggetta a “repricing”, viene cioè ricalcolata ogni volta che si determini una variazione nei parametri cruciali, e il nuovo tasso viene applicato all’intero prestito perpetuo. Si può dunque facilmente intuire che non solo non vi è mutualizzazione, ma che la EDA esercita anche un ruolo disciplinante: il principio di responsabilità rimane in capo agli stati, e la EDA esercita semplicemente un ruolo protettivo, di “filtro” delle irrazionalità del mercato.
Non solo, ma per come funziona, la EDA emetterebbe, a favore dei mercati, un titolo unico che a tutti gli effetti potrebbe essere considerato come un eurobond, e che, data la solidità della EDA, sarebbe ancora più sicuro dei più sicuri titoli nazionali.
Perché la EDA è un “debitore sicuro”? Perché, per come calcola le rate, scontando la probabilità di default degli stati, nella misura in cui gli stati non entrano in crisi la EDA accumula riserve liquide che ne garantiscono l’equilibrio intertemporale, il solo che deve contare per un analista finanziario serio, e per fondi di investimento istituzionali.
Siccome però le riserve si accumulano progressivamente nel tempo, la EDA potrebbe essere a rischio nella prima fase, in cui l’accumulazione delle riserve potrebbe risultare ancora troppo bassa per preservare il suo equilibrio finanziario in caso di mancato pagamento da parte di uno o più stati membri. Ma qui entra in gioco la questione della riforma del MES. Se il capitale del MES, quello già versato e quello “callable”, diventasse il capitale di rischio della EDA, la protezione sarebbe assicurata fin dai primi passi.
Troppo bello per essere vero? Le simulazioni che abbiamo fatto mostrano che in effetti non solo la EDA è “bella”, ma è anche “vera”, cioè è una soluzione praticabile, anche dal punto di vista istituzionale.
Il massimo di “federalismo” a trattati vigenti
Per concludere, con quali vantaggi?
Il primo sarebbe la creazione di un vero safe asset europeo, cioè di un eurobond a tutti gli effetti, senza dover aspettare una riforma in senso federale della UE. Quali sarebbero i vantaggi di un titolo comparabile per sicurezza ai Treasury bond americani per il posizionamento geopolitico dell’Europa in questo momento, non è difficile immaginarlo
Il secondo sarebbe una liberazione della BCE dal peso di dover governare gli spread: che lo abbia fatto è tutto a suo merito, giacché è la BCE, soprattutto quella di Draghi, che ha evitato l’implosione dell’eurozona. Ma vale la pena sottolineare che non ha senso politicamente chiedere a un organo tecnico di farsi carico del deficit di collaborazione politica fra gli stati
Il terzo sarebbe una uscita dal cosiddetto “doom loop”, il circolo vizioso per cui le banche nazionali sono chiamate ad acquistare titoli nazionali, esponendosi a perdite pesanti in conto capitale nel caso di un “downgrading” del loro paese.
Il quarto sarebbe una internalizzazione della disciplina fiscale, dai mercati verso istituzioni europee, Commissione in primis.
Il quinto sarebbe la possibilità di rifinanziare anche il debito che la Commissione ha acceso con i mercati per il finanziamento del piano Next Generation EU, giacché in assenza di questa possibilità, il ripagamento de prestiti per il PNRR potrebbe pesare notevolmente sulle finanze dei pasi beneficiari.
La EDA è in sé un organismo tecnico, che risolve con efficienza il problema del filtraggio del rischio di liquidità, alla base delle crisi degli spread, passate, e potenzialmente future.
È anche un progetto politico? Sì. La EDA è il massimo di “federalismo” e di collaborazione che ci si può permettere a trattati vigenti. Sarebbe un grande passo avanti rispetto al MES nell’obiettivo della stabilizzazione finanziaria. Potrebbe essere un primo passo verso soluzioni più francamente comunitarie.