Le cause e le ragioni per le quali la guerra in Ucraina ha assunto l’aspetto di un conflitto infinito sono tante e molto dibattute. Che si parli dell’impreparazione militare dei Russi, della fiera resistenza ucraina, della minaccia nucleare, del coinvolgimento indiretto dell’Occidente, o dell’insufficienza della diplomazia europea, il punto in questione è che in Ucraina si combatte un conflitto profondamente radicato nella storia dell’Europa centro-orientale e del suo ruolo geopolitico costante negli equilibri di potenza mondiale, al di là dei fattori ideologici (Rita Di Leo, Russia, USA, Ucraina, in Crs online).
Delegittimazione della guerra territoriale, criminalizzazione del nemico.
Con il passare dei mesi di massacri e distruzioni, nondimeno, una causa tra le tante rivela sempre più la sua priorità, quella riguardante i reali obiettivi del conflitto. Sin dallo specioso nome “Operazione militare speciale”, è chiaro che gli obiettivi territoriali dell’invasione russa, ufficialmente, non sarebbero mai stati dichiarati, per evitare poi di dover sottoscrivere una pace vera. Dall’altro lato del fronte, si è fatto altrettanto per non dover fare concessioni territoriali alla Federazione russa, in un’epoca nella quale le guerre di annessione sono vietate dal diritto internazionale. E, dunque, riconoscere un precedente provocherebbe, a catena, l’apertura di altri fronti analoghi – che in realtà sono già in movimento – com’è noto, la prima potenza interessata a sviluppare l’analogia è proprio la Cina a proposito di Taiwan. Dal punto di vista giuridico, però, la delegittimazione della guerra territoriale si traduce nella criminalizzazione del nemico. E, questo, anziché impedire i conflitti, ne rende politicamente impossibile la conclusione: l’esito è rinviato alla resa incondizionata di uno dei contendenti. È dalla fine della guerra fredda, che si discute della trasformazione della guerra in polizia internazionale, senza che ciò freni lo scoppio di guerre non dichiarate in molti stati (D. Zolo, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Torino, Einaudi, 2000). In realtà, questo destino paradossale apparterrebbe alla guerra moderna sin dal 1918 (C. Schmitt, Il concetto discriminatorio di guerra, Roma-Bari, Laterza, 2008).
Distruggere l’altro, con ogni mezzo
Nella nuova guerra fredda, in corso ormai da anni, è evidente che l’Ucraina sia il paese più importante per rafforzare il saliente russo in Europa orientale. Come ricorda Caracciolo, Samuel Huntington ha individuato la faglia di civiltà fra Occidente e Oriente proprio sulla linea del Dnepr (L. Caracciolo, Storia all’Ucraina!, in “Limes. Rivista italiana di geopolitica”, n. 5, 2023, p. 25; S. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano, Garzanti, 2000, pp. 239-243). L’importanza della regione è tale che, probabilmente, da parte russa non sarebbe accettabile neanche un’annessione delle regioni orientali fino al Dnepr. Il destino della guerra moderna, allora, si riverbera sui due campi e, secondo uno schema bipolare, la guerra locale si trasforma in guerra globale. Ciascun polo mira alla distruzione dell’altro, con ogni mezzo. Da una parte, l’Occidente è investito dalla minaccia dell’escalation, anche atomica, del conflitto, dal ricatto energetico e alimentare – emblematica, in questi giorni, è la volontà espressa da Polonia, Slovacchia, Ungheria, Romania e Bulgaria di prorogare l’embargo sul grano ucraino nonostante il ritiro della Russia dall’accordo sul grano. Mettere in conflitto le economie dell’Europa centro-orientale è una risorsa fondamentale allo scopo di tenere divisi i paesi che fanno parte dello stesso sistema regionale. Dall’altra parte, l’armamento dell’Ucraina e le sanzioni finanziarie sono gli aspetti pubblici della minaccia del regime change e della relativa dissoluzione della CSI. Non a caso, sull’onda degli entusiasmi per la controffensiva dell’autunno 2022, anche i comandi ucraini hanno iniziato a propagandare l’idea di uno smembramento della Federazione russa come unica soluzione politicamente definitiva del conflitto.
Ma in entrambi gli scenari a pagare il prezzo umano, economico e politico del conflitto sarebbe non solo l’Ucraina, ma, a cerchi concentrici, l’Europa centro-orientale e l’Europa intera. Infatti, anche in caso di vittoria totale dell’Occidente, il processo di integrazione europea non ne risulterebbe rafforzato, perché a vincere sarebbero le forze iperatlantiste presenti nell’UE, come la Polonia, i paesi baltici, o il grande capitale transnazionale, che oggi sostiene lo sforzo bellico. Se, in subordine, di fronte al protrarsi del conflitto, USA e CSI fossero indotti ad un accordo mediato dalla Cina per la stabilità reciproca, si affermerebbe l’ennesimo ordinamento territoriale della regione operato da potenze esterne, e sempre più portatrici di interessi diversi da quelli locali. Oggi, questa è un’opzione con trend in crescita, se, sull’onda emotiva del suo centenario, Henry Kissinger – monumento del realismo bipartisan ed espressione della corrente che propone una nuova politica realistica in Ucraina – è stato inviato a Pechino per sponsorizzare la distensione con il gigante asiatico, grazie al suo carisma di artefice dell’exit strategy dalla guerra del Vietnam, realizzata proprio mediante la distensione con la Cina. Ma è possibile un’altra prospettiva?
L’alternativa. Mettere a tema la questione dell’Europa centro-orientale
Non solo è possibile, ma è persino necessaria; e passa attraverso l’adozione di un approccio non più coloniale sull’Europa centro-orientale, la cui premessa è il superamento del bipolarismo Est-Ovest. Restituire un’effettiva autonomia all’Europa centro-orientale porterebbe una distensione generale, nella quale la pace diventerebbe possibile perché si formerebbe un’area geopolitica non più ridotta a mero cuscinetto tra campi avversi. Ma il soggetto storico che potrebbe introdurre una terza via tra i due poli sarebbe solo l’Europa unita. Da sempre, infatti, la questione dell’Europa orientale è la questione dell’Europa come tale.
Nel corso della storia moderna e contemporanea, infatti, abbiamo visto due modelli di ordinamento politico territoriale dell’Europa centro-orientale: la spartizione tra grandi imperi (come dal Settecento alla fine della Prima guerra mondiale, o durante la Seconda guerra mondiale, o infine durante la Guerra fredda); oppure il liberalismo wilsoniano, che prevede la frammentazione in una costellazione di stati nazionali indipendenti, dai confini incerti e dalle politiche spesso rivali, che si offrono al controllo economico dall’esterno (come appunto tra il 1918 e il 1939, o dal 1989 ad oggi). Nel modello wilsoniano, in larga parte, le contraddizioni dipendevano dalla fragilità della democrazia tedesca. Al contrario, dopo il 1989 è anche grazie alla spinta propulsiva della riunificazione tedesca che si è aggregato il gruppo di Visegrád, primo nucleo dell’allargamento dell’Unione Europea ad Est nel 2004. Ma il fallimento del processo costituzionale, sfociato nella soluzione ibrida del Trattato di Lisbona (2007), ha lasciato incompiuto il processo di integrazione politica e sociale sia dei paesi fondatori, sia dei successivi aderenti, facendo perdere slancio al processo di allargamento, infine arenatosi sulla questione dell’ingresso della Turchia.
Le condizioni per una ripresa del progetto di unificazione politica dell’Unione
Oggi, che la pandemia e la guerra si sono abbattute su un quadro di perdurante crisi economica, mettendo a nudo le disuguaglianze prodotte dal liberismo, la ripresa del progetto di unificazione politica dell’Europa è divenuta storicamente necessaria. Ma il frutto avvelenato della combinazione di questi fattori, piuttosto, è l’ondata nazional-populista che va dai paesi dell’Europa centro-orientale – Polonia e Ungheria in testa – fino alla Spagna. Ed è dall’identificazione dell’UE con un sistema di assoggettamento dei popoli alle politiche neoliberiste gradite al grande capitale transnazionale, che, paradossalmente, esso si nutre. Persino il green deal, che ne doveva invertire il trend, è assimilato al dominio delle élites sui popoli.
Per una sub-aggregazione regionale dell’Europa centro-orientale collegata all’Europa occidentale, come proposto dalla Francia all’inizio del conflitto, evidentemente mancano le condizioni interne. I regimi autoritari oggi al potere in paesi importanti della regione come la Polonia, o l’Ungheria, sono in conflitto da anni con le istituzioni comunitarie a proposito degli standard costituzionali, ma, soprattutto, sono in conflitto tra loro sulla base dei diversi interessi economici nazionali toccati dal conflitto e, infine, in competizione tra loro per il ruolo di potenza regionale egemone e depositaria del mandato imperiale, americano o russo almeno per il momento. Altresì, mancano le condizioni esterne: qualsiasi formula associativa si concepisca non darebbe vita che ad un’Europa minor, eticamente discutibile, e perdipiù illogica, perché presupporrebbe un’Europa maior, che in premessa non esiste.
Dove porta il riarmo tedesco?
Eppure, è evidente che l’annuncio del riarmo tedesco avrà degli effetti politici reali: o renderà la politica tedesca più impegnata nella NATO, e finirà per rilevare il ruolo di avamposto ricoperto oggi dalla Polonia; o diventerà la premessa di una politica estera autonoma dalla NATO, che, in assenza della rete europea, si potrebbe tradurre in una nuova tentazione egemonica sull’Europa centro-orientale in accordo con la Federazione russa. Tanto più che la Germania è il principale partner economico dei paesi dell’Europa orientale, oltre ad avere rapporti privilegiati con la Turchia e, in fondo, con la stessa Cina.
Dei cerchi concentrici il cui epicentro è in Ucraina, questo provocherebbe gli effetti più gravi, se non definitivi per la parabola dell’UE.
Interdipendenza e multipolarismo globale come dati strutturali
Del resto, che il recente rilancio dell’Alleanza atlantica sia l’effetto o la causa della guerra in corso, esso va attentamente inserito nel quadro della storia recente della politica estera americana. E lo stesso vale per la strategia eurasiatica russa. Secondo la piattaforma di politica estera primatista dell’Amministrazione Trump, i cui rapporti con Putin restano da chiarire quanto quelli dei Biden con l’Ucraina, erano previsti sia il sostegno da parte di entrambe le potenze alle forze populiste europee, sia un ritiro selettivo degli Stati Uniti e una tacita delega di aree di influenza ed intervento a Russia o Turchia, tra cui spiccano l’Europa orientale (Bielorussia, Ucraina, Caucaso meridionale), il Medio Oriente (Siria), l’Africa settentrionale (Libia). In tale prospettiva, la NATO subiva lo stesso destino dell’ONU e dell’UE, pilastri dell’universalismo liberale. Federico Finchelstein (Dai fascismi ai populismi. Storia, politica e demagogia nel mondo attuale, Roma, Donzelli, 2019) ricorda che il populismo non è più una subcultura di opposizione, ma da tempo una corrente della politica globale in grado di competere per il governo in tutti i paesi dotati di un’agenda internazionale. Con il ritorno dei democratici alla Casa Bianca, però, al ritiro dall’Afghanistan ha fatto seguito il rilancio della NATO, che ha messo nostalgicamente di fronte i due antichi nemici. Ora, il neowilsonismo implicito nel progetto di opporre tutto l’Occidente a tutto l’Oriente per l’integrità dell’Ucraina si sta rivelando un progetto emergenziale, ma insostenibile nel lungo periodo, perché il mutamento dell’ordine internazionale all’insegna del multipolarismo postglobale ormai è un dato strutturale. E non sarà grazie ad una nuova, limitata e momentanea mossa del cavallo nei confronti della Cina, che i valori democratici occidentali si concilieranno nuovamente con la pace, per quanto suggestive siano le coincidenze tra le date storiche personali e quelle mondiali.
Nel passato abbiamo assistito a fasi di coesistenza tra potenze orientali e occidentali in condizioni di isolamento reciproco, oppure al tramonto della Cina e all’ascesa dell’Occidente avvenuto con l’età moderna. Oggi, per la prima volta, si è affermata una fase di interdipendenza, e non di isolamento globale, nella quale è la Cina, potenza orientale, a possedere la prima economia del mondo (G. Arrighi, Adam Smith a Pechino. Genealogie del ventunesimo secolo, Milano, Mimesis, 2021). Ed essa ha un naturale interesse verso una drastica semplificazione delle forze durante una lunga guerra europea.
In tale svolta epocale, dunque, un’Europa ricca e impotente è tanto inedita quanto sempre più insostenibile. A differenza del passato, la sua assenza come soggetto internazionale unitario non è un elemento di flessibilità diplomatica in grado di compensare la rigidità americana, ma un vuoto che contribuisce all’instabilità mondiale.
La profezia di Machiavelli, l’analogia da non ripetere
Sembra allora ricorrere ancora una volta quella che vorrei definire la profezia di Machiavelli. Nel Quattrocento, infatti, l’ottusa quanto altezzosa rivalità tra principati regionali trasformò il fallimento dell’equilibrio italiano nel laboratorio dell’equilibrio europeo, del quale l’Italia, al tempo stesso, fu maestra intellettuale e preda politica (F. Chabod, Idea di Europa e politica dell’equilibrio, Bologna, Il Mulino, 1995; Id., Scritti su Machiavelli, Torino, Einaudi, 1993). Nel secolo scorso, nuovamente, il rifiuto dell’evidenza storica che l’età dell’equilibrio europeo era al tramonto ha causato la nascita del mostro totalitario e, dopo ben due guerre mondiali, la perdita del primato mondiale del Vecchio continente. Oggi, la stessa arrogante miopia, o rassegnata acquiescenza, potrebbe trasformare l’Europa nella preda principale di un nuovo equilibrio mondiale, dominato da Stati Uniti e Cina. È auspicabile che almeno di fronte al rischio dell’estinzione, e contrariamente al detto conservatore per cui la storia non si ripete mai se non per l’incapacità degli uomini di imparare dai propri errori, l’Europa riesca a superare il proprio equilibrio locale, per poi contribuire a ristabilire, almeno in parte, l’equilibrio in un sistema mondiale, che oggi sembra attratto dall’abisso.