Se qualcuno immagina che ad affacciarsi oltre la barriera alpina si possa trovare consolazione dalle disgrazie e miserie della sinistra nostrana, ha fatto i suoi conti parecchio male. Non troverà nemmeno consolazione per le disgrazie del nostro regime democratico. Neanche la Francia democratica sta troppo bene: l’ultima notizia è lo scioglimento, volutamente esemplare, del movimento ambientalista Soulèvements de la terre, deciso il 21 giugno scorso dal consiglio dei ministri su richiesta del capo dello Stato, giusto per il suo stile di protesta troppo turbolento per i gusti di quest’ultimo, a fronte dei comportamenti com’è noto brutali delle forze dell’ordine. I due malanni sono legati tra loro, ma resta fermo il fatto che la sinistra francese è davvero malconcia. Nessuna tra le sinistre d’Europa sprizza di salute, nessuna ha efficacemente sostenuto la sfida della società postindustriale, della fuoruscita dal fordismo, dell’ingresso nell’era del capitalismo dei servizi, finanziario e alfine digitale. Ma la sinistra francese è forse messa peggio di altre.
Una crisi risalente
La crisi è risalente. Dura, come per tutti, da almeno un quarto di secolo. Le sfide testé elencate hanno provocato in Francia come altrove una disputa lacerante tra le componenti della sinistra convertite all’ortodossia neoliberale e le correnti, diciamo, popolari, attaccate alla tradizione del movimento operaio. In ragione di tale lacerazione nessuna sinistra socialista, socialdemocratica, postcomunista ha mantenuto il suo seguito elettorale originario – o quello di cui disponeva alla fine degli anni ’70 – e nessuna, come promesso dalle componenti convertite al neoliberalismo, è nemmeno riuscita a sottrarre stabilmente porzioni significative di elettorato ai partiti di moderati e conservatori. Si sono registrate semmai emorragie di consensi verso l’estrema destra nazionalista, risorta nel frattempo, e, in misura più consistente, verso l’astensione. Ne ha profittato anche la nuova sinistra, che ci si compiace di chiamare populista, insieme alle formazioni ambientaliste. La Francia è un caso di scuola.
Il “punto di partenza”. Le elezioni presidenziali del 2002
Si possono scegliere molti punti di partenza. Per i cugini d’oltralpe il più rappresentativo sono forse le elezioni presidenziali del 2002. Sembrava una partita scontata o quasi tra Lionel Jospin e Jacques Chirac, rispettivamente primo ministro socialista e presidente della Repubblica uscenti. Malgrado la coabitazione, Jospin era riuscito a destreggiarsi, non senza difficoltà, tra privatizzazioni e politiche sociali ed economiche più generose verso i ceti popolari e i giovani: una delle misure simbolo fu l’introduzione delle 35 ore. Dato vincente dai sondaggi, Jospin fu però al primo turno superato per un pugno di voti da Jean-Marie Le Pen, fondatore e candidato del Front National. Motivo della sconfitta: la dispersione delle candidature a sinistra sopra ogni altro, ma con ogni probabilità contribuì pure l’eccessivo sbilanciamento centrista della campagna elettorale e la troppa fiducia nel vantaggio promesso dai sondaggi. In nome della solidarietà repubblicana, Jacques Chirac balzerà da 20 per cento al primo turno all’82 al secondo, per giunta con un lieve incremento della partecipazione elettorale.
Le divisioni della sinistra non si ricomporranno cinque anni dopo, allorché il Partito socialista deciderà di candidare Ségolène Royale, esponente di punta della componente «convertita». Nel confronto al secondo turno con Nicolas Sarkozy la campagna elettorale condotta da quest’ultimo su temi molto familiari all’estrema destra nazionalista – sicurezza e migrazioni – gli consentirà di recuperare larga parte dell’elettorato di Le Pen. È andata meglio nel 2012 a François Hollande, anche lui esponente della sinistra convertita, che però cinque anni dopo si è giovato dell’impopolarità di Sarkozy e di un accorto riequilibrio dell’offerta elettorale per captare l’elettorato della sinistra «popolare». Il riequilibrio era circoscritto, ma le sue promesse non sono state mantenute e la presidenza Hollande è stata la premessa della quasi scomparsa del Partito socialista dalla scena politica e, di conseguenza, di un più ampio declino della sinistra, che pure era uscita vincente dalle legislative ed era maggioritaria anche al Senato e nelle amministrazioni locali.
È da notare come al primo turno della campagna elettorale abbia fatto la sua comparsa quale candidato della sinistra «popolare» Jean-Luc Mélenchon, già esponente della sinistra del Partito socialista, parlamentare e ministro nel governo Jospin. Erano un risultato ragguardevole i poco meno di 4 milioni di voti da lui ottenuti, a fronte del poco più di 10 milioni di Hollande al primo turno, avanzando un discorso in cui la critica al capitalismo si miscelava a vigorose pulsioni antipolitiche e antielitiste, testimoniando l’esistenza di un segmento di elettorato tutt’altro che residuale.
Quella di Hollande non è stata una presidenza più popolare di quella del suo predecessore. Se Sarkozy è stato l’unico presidente della repubblica bocciato dagli elettori allorquando si è ricandidato, Hollande è stato il solo che ha addirittura rinunciato a farlo. Le aperture sul tema dei diritti non avevano compensato il mancato rispetto delle promesse di riequilibrio e alla popolarità del presidente non ha giovato, dopo la sconfitta della sinistra alle municipali del 2014, il deciso riorientamento in chiave neoliberale dell’azione di governo: un riorientamento segnato dalla doppia promozione di due ultras della sinistra convergente: di Manuel Valls da ministro dell’interno a primo ministro e del giovane Emmanuel Macron da vicesegretario generale della presidenza della Repubblica a ministro dell’economia e dell’industria.
Thomas Piketty ha raccontato il successo di Macron come il frutto di un’alleanza, nient’affatto esclusiva della Francia, tra i ceti abbienti – la droite marchande – e la sinistra altamente istruita – la gauche brahmine – la quale ha come presupposto il decadimento dei grandi partiti non solo di sinistra, ma anche di destra. Uno storico autorevole, Pierre Serna, ha invece situato il fenomeno Macron entro una lunga tradizione francese: sarebbe l’ennesima manifestazione di quello che lui chiama l’«estremo centro»: una formula politica che si sviluppa in Francia quando gli schieramenti contrapposti entrano in crisi. Sospendendo l’ordinaria dialettica politica, l’estremo centro è per definizione scevro da pregiudizi ideologici, è moderato, pacificatore, fondato sulla competenza, è garante della stabilità, della proprietà, della moralità e del bene supremo e comune della nazione. Un non meno autorevole politologo, Jean-François Bayart, ha invece da ultimo parlato, a proposito di Macron, di «estremismo di centro», fondamento di una democrazia muscolare e illiberale, come quella testimoniata dallo scioglimento di Soulèvements de la terre, dalle violenze poliziesche contro la protesta dei Gilets jaunes e poi contro quella suscitata dalle recente riforme delle pensioni, com’è noto adottata d’imperio, aggirando l’approvazione dell’Assemblea nazionale. Fatto sta che finora l’operazione Macron, sponsorizzata dai grandi milieux d’affaires e dall’alta funzione pubblica (Macron proviene da entrambi), alimentata da transfughi dei due partiti maggiori e nobilitata da una spolverata di società civile, ha stritolato il Partito socialista e ha schiacciato la destra tradizionale, persuadendo infine gli ultimi eredi del gollismo a convergere stabilmente sui temi e con lo stile dell’estrema destra nazionalista.
Il “punto d’arrivo”. Jean-Luc Mélenchon e le classes dangereuses
La premessa è lunga, ma aiuta a capire quanto gravi siano diventate le difficoltà della sinistra francese. Dove la grande novità è stata l’irruzione, in realtà progressiva, di Jean-Luc Mélenchon. Spesso tacciato di populismo per la sua oratoria tribunizia, ma ancor più per la sua rivendicazione di rappresentanza in favore delle classi popolari e per i suoi toni polemici – e antipolitici? – nei confronti delle élites, Mélenchon, dopo qualche trascorso giovanile nei ranghi della sinistra radicale, ha aderito a 25 anni al Partito socialista di Mitterand, dove, tra alterne vicende, è rimasto fino al 2008, sempre posizionato all’ala sinistra. Fuoruscito dal partito, nel 2012 Mélenchon si è candidato alle presidenziali sotto le insegne del Front de gauche, superando al primo turno il 10 per cento dei consensi: inviterà i suoi elettori a votare al secondo per Hollande. Si ripresenterà, Mélenchon, alle presidenziali del 2017, alla testa di una formazione da lui promossa: La France insoumise. Avendo sottratto una parte consistente dell’elettorato socialista al movimento guidato da Macron, En Marche, e al Partito socialista che candidava Benoit Hamon, Mélenchon raddoppiava i suoi consensi e giungeva al primo turno a un’incollatura da Marine Le Pen, cui al secondo turno toccherà contendere la presidenza allo stesso Macron. Infine, Mélenchon ha realizzato il suo capolavoro politico alle elezioni del 2022, allorché ha convinto tutte le formazioni di sinistra, incluso il Partito socialista, che nel frattempo ha ripensato la sua opzione alla convergenza col neoliberalismo, a coalizzarsi sotto l’etichetta di Nupes (Nouvelle Union populaire écologique et sociale), avanzando un programma che ha messo al centro le disuguaglianze e le ingiustizie sociali, razziali, di genere.
L’operazione politica di Mélechon non manca d’interesse. In primo luogo, perché ha deliberatamente indossato l’etichetta di populismo, sulla scia degli spagnoli di Podemos e anche alla luce della riflessione sul tema di Ernesto Laclau. Non è qui il caso di ricostruire la vicenda del concetto di populismo, che è stato applicato alle formazioni di estrema destra nazionalista (o regionalista) insorte da metà degli anni ’80. L’etichetta era applicata per denunciare lo scomposto appello al popolo di tali formazioni e, molto presto, anche il seguito che esse avrebbero raccolto tra i ceti popolari. Se stiamo ai dati elettorali, tuttavia, la destra nazionalista, a dispetto dell’attrazione che esercita su una parte di questi ceti, colpiti dalla deindustrializzazione e abbandonati dalle sinistre «convertite», ha il suo bacino elettorale anzitutto tra i ceti medi autonomi e perfino tra quelli superiori, nonché su quella quota non secondaria di elettorato popolare che ha sempre preferito i partiti moderati e conservatori. Estesa ai partiti di sinistra popolare, spesso di recente costituzione, l’etichetta di populismo ha riproposto l’idea ottocentesca delle classes dangereuses: pericolose democraticamente, in quanto voterebbero partiti d’incerta lealtà democratica, o inclini ad astenersi, ma pericolose anche socialmente, in quanto darebbero vita a manifestazioni di protesta contro la loro condizione ritenute inaccettabili e perciò meritevoli di ferme azioni repressive. Ebbene, Mélenchon si è proposto sulla scena pubblica quale portavoce delle rinnovate classes dangereuses.
I limiti di Melenchon e la strategia di dédiabolisation di Marine Le Pen
L’esito positivo della sua azione politica non ha tuttavia risolto i problemi della sinistra francese. Nupes, oltre ad essere una coalizione destinata a restare minoritaria, ha al momento problemi molto seri di coesione interna. Assemblata in tutta fretta, per calcoli di convenienza elettorale, non è maturata e non è divenuta un partito: è rimasta un assemblaggio provvisorio. Mélenchon ha il merito di avere promosso e guidato la coalizione, ma la sua è una personalità debordante e, possiamo dirlo, anche piuttosto autoritaria. La France insoumise è una formazione molto personale e non è ancora emersa una conduzione collettiva. Colpa di Mélenchon, senza dubbio, ma colpa anche dei media, che personalizzano oltre misura la lotta politica e ostacolano ogni tentativo di sottrarsi alle loro non disinteressate rappresentazioni. In più, Mélenchon ha preteso per La France insoumise una quota di candidati e di eletti alle elezioni legislative che hanno fatto seguito alle presidenziali preminente rispetto agli alleati: più o meno la metà dei deputati della coalizione. Tanto a scapito di partiti in declino, ma di lunga tradizione e ancora radicati nel governo locale come quello socialista e quello comunista, ma anche decisamente più tonici come gli ecologisti.
A prescindere da personalismi e interessi parziale di ciascuna formazione politica, che non mancano mai, il grande problema della sinistra francese e di tutte le sinistre europee è che sono ormai tutte molto articolate e che incontrano serie difficoltà ad elaborare tanto un’offerta di rappresentanza comune, coerente e appetibile, quanto modalità d’interlocuzione con il loro potenziale elettorato alternative ai mass media. Il modello del partito di massa ha fatto il suo tempo. Ma quello del partito mediatico è molto vulnerabile rispetto alla contingenza politica e non corrisponde nemmeno all’esigenza di coinvolgere elettori ormai decisamente più maturi e più critici, rompendo al tempo stesso la crosta divenuta durissima dell’astensione.
Oltremodo complicata è ovviamente la questione dei programmi. Il seguito della sinistra delle Trente glorieuses era costituito dalla classe operaia, dalle categorie professionali legate al welfare, dalle classi medie intellettuali: il posfordismo l’ha frantumato. In parte, si è ritrovato nell’offerta della sinistra brahmina, ormai confluita nell’elettorato di Macron. Nupes sembra esser riuscire ad attrarre ancora una parte dei ceti medi istruiti nei centri urbani, spesso declinanti, una quota consistente di giovani, una parte degli elettori di religione musulmana, ma fatica a radicarsi tra le classi popolari, che in larga misura per l’appunto si astengono e in parte preferiscono l’estrema destra nazionalista, nonché tra i lavoratori autonomi – il popolo delle partite Iva in Italia – dietro cui si nascondono forme gravi di dipendenza e sfruttamento. Come conciliare, infine, le aspettative di questi gruppi sociali con le istanze del femminismo, dell’ambientalismo, delle minoranze per qualsiasi ragione discriminate? C’è anche un segmento elettorale al momento peculiare della società francese che chiede rappresentanza: quella parte di classe media impoverita obbligata a fuggire dai centri urbani in via di gentrizzazione e a reinsediarsi in luoghi mal serviti dal trasporto pubblico, lontano da scuole e ospedali e fortemente dipendente dal trasporto privato. È stato il seguito dei Gilets jaunes
Il puzzle è complicatissimo, tanto più che la controparte coltiva l’insofferenza razziale e quella contro l’assistanat, o l’assistenzialismo, cui sono condannate vaste categorie sociali: anche di questo gli italiani sanno qualcosa, vista la vicenda del reddito di cittadinanza. Mettere l’un contro l’altro tra i ceti popolari è un gioco facile. L’estremismo di centro e di destra ha anche trovato due temi di successo nell’immigrazione e nella fiscalità. Il nesso tra fiscalità e servizi pubblici è stato cancellato, anche per demerito della sinistra e dei sindacati. Il fisco è inviso a gran parte degli elettori, anche perché la sostituzione del principio della proporzionalità a quello della progressività sfugge all’attenzione delle sue vittime. Le prospettive della sinistra francese non sono fauste. Almeno a breve termine.
Mentre la divisione tra sinistra popolare e sinistra brahmina si sembra consolidata, la destra nazionalista ha preso quota e la strategia di dédiabolisation condotta da Marine Le Pen ha funzionato, cosicché le possibilità che i suoi elettori e il residuo elettorato della destra postgollista si ritrovino alle prossime presidenziali sono piuttosto elevate. Stando a qualche sondaggio, gli elettori francesi paiono nutrire decisamente più fiducia in un governo della destra estrema nazionalista che non in un governo guidato da Mélenchon. Schiudendo un orizzonte inquietante per i francesi, ma anche per tutti gli europei.
Questa non è che una nota. Per chi fosse interessato ad approfondire, segnaliamo due testi di cui abbiamo profittato per scriverla. Il primo è quello di R. Lefebvre: Faut-il désespérer de la gauche?, Éditions Textuel, Paris, 2022. Il secondo è il libro di P. Serna, L’extrême centre ou le poison français: 1789-2019, Champvallon, Ceyzérieu, 2019. Aggiungiamo M. Cervera-Marzal, Le populisme de gauche. Sociologie de la France insoumise, Paris, La Découverte, 2021. Infine, l’articolo di J.-F. Bayart è reperibile all’indirizzo: https://www.letemps.ch/opinions/va-france