Lo scenario internazionale segnato dalla guerra in corso tra Russia e Ucraina e gli ultimi risultati elettorali, a cominciare da quelli italiani per finire con quelli spagnoli, passando per la vittoria delle destre nei paesi scandinavi, antica roccaforte della socialdemocrazia europea, sembrano dirci che siamo ormai all’epilogo di un processo di dissoluzione della sinistra apertosi trenta anni fa con il crollo dell’Urss e dell’intero campo socialista che ha travolto anche il ruolo svolto dalle forze socialdemocratiche nei trenta anni successivi al secondo conflitto mondiale.
La fine di un ciclo della storia
Cruciale in quegli anni è stata la sconfitta del tentativo di Gorbaciov di procedere a una radicale riforma del sistema socialista sovietico e del ruolo svolto su scala mondiale dal campo socialista, a cui concorsero vari fattori, dal processo di globalizzazione che ha investito l’economia alla trasformazione irreversibile dei funzionari dello stato e del partito al potere in un ceto privilegiato, orientato a una vera e propria azione di rapina e di appropriazione privata del patrimonio collettivo tipico delle società socialiste del secolo scorso. E così che nasce il ceto degli oligarchi saldamente alla guida della Russia contemporanea e di tanti paesi dell’ex campo socialista.
Comunque sia, dopo trenta anni è giunto ormai il momento di prendere atto della fine irreversibile di un ciclo della storia. Della sinistra del Novecento, sia comunista che socialdemocratica, non c’è più nessuna eredità da raccogliere. E di un nuovo ciclo storico della sinistra sarà possibile tornare a parlare quando si riuscirà a scavare tra le cause oggettive che hanno prodotto questo risultato più che sui limiti e le responsabilità soggettive delle forze eredi dei partiti della sinistra del Novecento e dei suoi gruppi dirigenti.
La sinistra neoliberale
Un passaggio cruciale della crisi della sinistra è l’evoluzione avvenuta nel corso degli anni Novanta del secolo scorso che ha portato le principali forze della sinistra europea (Blair, Schroeder, D’Alema) a sposare le politiche neoliberiste che avevano trionfato in seguito ai processi di globalizzazione dell’economia. Non si tratta di riproporre la critica a quegli orientamenti, per tanti aspetti scontata visti gli esiti catastrofici prodotti, quanto piuttosto di indagare le ragioni oggettive che sono state alla base di quella scelta. Si tratta cioè di scavare a fondo sui caratteri contraddittori di quel passaggio cruciale della storia mondiale. La fine dei vecchi equilibri non ebbe come conseguenza la dissoluzione del campo socialista ma anche delle basi dei sistemi politici e dei partiti dominanti nelle società capitalistiche in quanto organizzazioni di massa che funzionavano da cerniera che garantiva la partecipazione democratica alla vita dello Stato da parte dei cittadini. Intere classi dirigenti si videro condannate a un inesorabile declino. E gli eredi dei partiti che affondavano le loro radici nella storia del movimento operaio, sebbene vedessero svanire la prospettiva di portata storica da cui erano nate le loro formazioni, ebbero l’illusione di potersi candidare a nuova classe dirigente del nuovo ordine figlio della globalizzazione, proprio in quanto non compromessi con il governo degli assetti di un ciclo del capitalismo avviato al suo irreversibile superamento. La sinistra si trasformava da formazione politica votata all’emancipazione delle classi subalterne a luogo di promozione di un nuovo ceto politico.
La crisi identitaria della classe operaia
A tutto questo si accompagna la fine della funzione della classe operaia come principale soggetto sociale su cui fondare il ruolo alternativo all’ordine costituito che la sinistra ha svolto nel corso del secolo scorso. Il paradosso è che con la globalizzazione la classe operaia diventa un soggetto diffuso a livello mondiale come mai lo era stato sino alla fine del secolo scorso. Ma proprio nel momento in cui diventa un soggetto universale essa sembra perdere qualsiasi ruolo antagonistico. Su questo tema ci sono molteplici ipotesi, alcune delle quali portano a una revisione delle basi teoriche del marxismo. Quel che è certo è che questo è un tema cruciale per il futuro della sinistra.
E infatti femminismo, ambientalismo, libertà civili e equità sociale, che per molti costituiscono l’orizzonte entro cui fondare una nuova sinistra, nonostante siano questioni fondamentali del tempo presente stentano a diventare la base di una nuova sinistra con basi di massa e radicata nello spirito pubblico delle società contemporanee.
La vitalità della sinistra in America latina
Sembrano inoltre insuperabili alcuni limiti che riguardano la dimensione storico-politica. È del tutto incomprensibile, infatti, la disattenzione delle forze della sinistra europea verso la vitalità dimostrate dalle forze di sinistra in America latina a cominciare dal Brasile. Solo Papa Francesco si è posto il problema di dare a Lula una scena internazionale entro la quale intessere nuovi rapporti e rompere l’isolamento.
E inoltre, in una situazione in cui la dimensione internazionale è quella decisiva per aprire nuove prospettive, il movimento sindacale, che della sinistra costituisce una componente decisiva, stenta a definire piattaforme rivendicative e vertenze a livello europeo di fronte a un processo ormai irreversibile di internazionalizzazione del capitale.
Come si vede i quesiti di fondo sul fatto se la sinistra avrà ancora un futuro oltre i confini del XX secolo sono tanti e ancora senza risposta. C’è solo da sperare che torni ad avverarsi la profezia di Marx sulla “vecchia talpa” che, quando tutto sembra perduto, scava sotto la superficie della storia per far riemergere dalle contraddizioni del tempo presente una prospettiva di liberazione dell’umanità dalle sue catene.