web magazine di
cultura politica e costituzionale

IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

web magazine di cultura politica e costituzionale

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

L’eccezione era Biden. L’Unione lo capirà o si disintegrerà?

La parentesi non era Lui, ma Joe Biden. Grande è lo sgomento dei liberal e dei progressisti europei per il ritorno di Donald Trump alla Casa bianca. Come definire il suo movimento e comprendere il consenso di cui gode? Per capirlo bisogna partire dalla rivolta socio-culturale contro il mondo neoliberale.

Le suggestioni si sprecano: tecno-destra, post-democrazia, antidemocrazia, tecnopopulismo, controrivoluzione, accelerazione reazionaria, nazionalismo plebiscitario e sciovinista. Quello che manca è la capacità dei critici di cogliere i segni della fine di un’epoca in cui si è creduto che si potessero governare il mondo e le nostre società senza la politica, affidando tutto – pace, libertà, uguaglianza, giustizia – all’economia, alla scienza, alla tecnica e al diritto.

Cambio d’epoca

È in questo cambio d’epoca che si inserisce Trump. La seconda vittoria di Trump segna, infatti, in modo definitivo e irreversibile la fine della “fine della storia” e della spoliticizzazione del mondo, sia nelle relazioni internazionali che nelle società democratiche. Purtroppo, più che lo sforzo di analisi, che comprende anche l’auto-analisi del soggetto osservante, come presupposto della critica e del giudizio, a guidare gli sforzi definitori dei liberali e dei progressisti sono l’indignazione e lo scandalo, motivi che più che a capire sono volti a esorcizzare con formule che suscitino spavento e condanna questo fenomeno temuto, oscuro e sfuggente che, peraltro, si credeva scongiurato. Questo approccio non aiuta ad afferrare (1) la profondità e il significato della rottura che Trump rappresenta; (2) le ragioni della sua forza politica; (3) la natura della sfida che tutto questo pone all’Unione europea. Proviamo a vedere in modo distinto questi tre punti.

La rottura. Il tramonto del progetto neoliberale

Nel “mondo nuovo” di Trump, la storia non ha una direzione prefissata. Il mondo non sta convergendo verso la liberaldemocrazia. Ci sono gli Stati Uniti, con il loro “destino manifesto”, il loro eccezionalismo e i loro interessi. Ma nella loro volontà di primeggiare nel mondo e di non avere rivali non c’è nessuna missione universale: c’è il realismo nazionalistico di Teddy Roosevelt e non il messianesimo internazionalistico di Wilson o di F. D. Roosevelt. Pensa che gli Stati Uniti siano “sfruttati” dal resto del mondo e non crede all’Ordine internazionale basato sulle regole. Trump è un “revisionista”. Dovrà vedersela con il resto del mondo, che non la vede sempre allo stesso modo. Il fatto che non veda il mondo attraverso il prisma della superiorità morale degli Stati Uniti e che non voglia imporre al mondo, a priori, il modello politico occidentale non è di per sé negativo. Quello che è certo è che questo approccio segna il tramonto del grande progetto neoliberale degli ultimi quarant’anni. L’idea di unificare il mondo tramite il mercato e il libero scambio (globalizzazione) e di uniformare le società e le forme politiche con l’individualismo dei diritti e dei consumi (giustizia globale) si è infranta contro le asprezze della storia, contro la pluralità delle comunità, delle civiltà e, non per ultimo, dei bisogni non solo materiali degli stessi individui umani. Questo progetto di spoliticizzazione del mondo, di desovranizzazione degli stati (tranne gli Usa, garanti del tutto) e di riduzione dell’umano a oggetto era stato fatto proprio dal capitalismo americano ed europeo che ne erano diventati il motore e lo strumento (hardware), affiancati da filosofie della storia e da codici di validità universali (software). Il capitalismo americano si è accorto prima di altri del fallimento di questo titanico disegno neoliberale (qualcuno ha ritenuto di poterlo declassare a “utopia liberale”) che anziché unire il mondo lo divideva (nuove rivalità, nuove potenze e nuove guerre) e anziché uniformare le società le frammentava e le polarizzava, a partire da quelle occidentali (nuovi squilibri sociali e nuove fratture culturali e antropologiche). A fare la guardia al bidone vuoto sono rimasti i liberal-progressisti con il loro cosmopolitismo e le loro universali tavole della legge (diritti umani). È qui che si inserisce Trump, a suggello di questo fallimento. Ed è qui, accanto a lui, a partire dalle big-tech, che troviamo il grande capitale e la grande finanza americani. Qui c’è un rovesciamento, difficile da decifrare, che in parte ha a che vedere con la specificità statunitense, ma che nell’essenza rinvia al cambio d’epoca, e che vede il capitale farsi politica, assumendo in modo quasi diretto l’indirizzo degli affari di governo (Musk, ma non solo). Sembra che il libero capitalismo americano, in questa nuova fase di confronto diretto con il capitalismo di stato cinese, dopo avere a lungo prosperato nel mondo coltivando il primato dell’economia sulla politica, ricerchi ora, per il proprio rilancio in una nuova fase, la simbiosi con il potere politico (oggi Trump) e con i suoi mezzi (lo Stato e la sua forza). Cadono allora le mediazioni delle regole del mercato e dello scambio (dazi etc) così come cadono le finzioni dell’ordine liberale internazionale che, peraltro, non riguarda solo l’economia, ma la vita associata, i diritti degli individui e il modo di organizzare la polis. Che cosa ci aspetta? La storia è tornata. E con essa, il “politico”. Negarlo non serve, meglio farci i conti.

La rivolta contro il mondo liberal

La forza di Trump è il consenso. Consenso non effimero, che affonda le radici in un sommovimento profondo della società americana. Trump ha vinto le elezioni staccando di un buon margine gli sfidanti democratici sia nel voto popolare che nel voto degli Stati (con l’emblematica eccezione di Washington-DC, dove i democratici hanno preso più del 90% dei voti). Di questo blocco sociale si è detto più o meno tutto: più basso è il reddito e meno elevata è l’istruzione, più alto è il voto per Trump (quindi forgotten-men, working class povera, ma anche neri e ispanici che si attribuiscono più possibilità di miglioramento sociale con i conservatori piuttosto che con i liberal, e, infine, i capitalisti libertari e visionari della Silicon Valley). Ma quello che si può aggiungere è la “rivolta” della gente comune contro il “controllo” da parte degli esponenti di quella che alcuni analisti hanno definito “professional managerial class” (PMC) di ogni aspetto della propria esistenza, del modo di pensare e delle decisioni ammesse: di questa classe che istruisce, educa e disciplina fa parte un ampio spettro di “agenti”, più o meno pubblici (dal maestro d’asilo ai professori di Yale, dal funzionario del comune al medico, dal conduttore televisivo al giornalista…), uniti in larghissima maggioranza da un comune credo ideologico e culturale di tipo liberal che predica uguaglianza di genere, non discriminazione, emergenza climatica, politiche green, disciplina alimentare, autocontrollo linguistico e così via. È al mondo liberal costruito negli anni delle presidenze Obama e poi della presidenza Biden che la gente comune si è ribellata. Il voto della gente comune ha imposto la svolta. Trump dovrà fare i conti con le promesse che ha fatto. E ha subito detto che la sua sarà una rivoluzione del buon senso. È bizzarro dire che questa è una sconfitta della democrazia. La vittoria di Trump sembra piuttosto il contrario: un esempio potente della forza della democrazia americana. E il modo in cui Trump ha immediatamente iniziato a dare seguito a quanto promesso, con la raffica di executives orders di cui sappiamo, fa pensare ad una “democrazia adulta” che consente alla politica di affrontare e di decidere di cose basilari (a partire dalla questione antropologica di fondo dell’esistenza di due soli sessi, che tanto piace irridere ai progressisti conformisti di nuovo conio – e si vedrà quanto questo indirizzo sia compatibile con il post- e trans-umanesimo dei padroni libertari delle tecnologie). Può non piacere. Come può non piacere (e fare male) la caccia ai migranti irregolari e la loro deportazione. Così come può non piacere l’idea che lo stato si ritiri da una serie di ambiti e che le decisioni vengano spostate dal livello amministrativo a quello politico (il programma DOGE, di cui dovrebbe essere responsabile Musk). Ma non è forse questa la forza della democrazia americana e della sua Costituzione? A differenza di quella “democrazia”, che si vorrebbe indissolubilmente associata all’attributo “liberale”, e nella quale, per essere all’altezza del suo ideale normativo, la “politica” può e deve occuparsi di tutto tranne che delle questioni essenziali, riservate ai mercati, ai giudici, ai tecnici e agli scienziati.

Lo sgomento europeo, ma l’Unione non è innocente

L’idea di affrontare il mondo senza il pregiudizio di categorie manichee (democrazie vs autocrazie) e di suprematismi morali (ordine internazionale basato sulle regole) così come la restituzione alla politica e alle maggioranze di un potere decisionale che il liberalismo anti-democratico aveva loro sottratto, non può che lasciare sgomente le élites dell’Unione europea. Circondati dai barbari, a est, a sud, e ora anche a ovest, gli europei vengono esortati dai loro capi e maestri a rinchiudersi nel loro giardino e a difenderne il tesoro di principi e di valori universali custodito nei Trattati, fingendo di essere ciò che non sono: un’entità politica con una volontà e non, invece, un mercato e un’unione doganale con una moneta prevalente. Certo, un mercato sui generis, che per l’ideologia inscritta nei trattati (versione ordoliberale del neoliberalismo spoliticizzante di cui sopra) si estende all’intera esistenza umana (si parte dal mercato e dal consumatore per arrivare all’individuo-cittadino e alle sue libertà e diritti fondamentali); e con un Parlamento, che è poco più di un’assemblea di co-regolazione del mercato, ma che pretende di compensare la propria impotenza (non ha diritto di iniziativa legislativa né poteri fiscali o di pace e di guerra) con proclami irresponsabili e dannosi per le buone relazioni con il resto del mondo e per il buon senso. E poi l’intergovernatività in tutto ciò che politicamente conta. Come può un’Unione che non ha il senso politico di un interesse comune, fare fronte comune contro Trump? Nel “mondo nuovo” di Trump, che è poi il “mondo nuovo” tout-court, l’Unione europea si troverà a fare i conti con tutte le proprie anomalie, con la propria incapacità di scegliere e decidere, ovvero con le conseguenze inattese di decisioni ritenute obbligate e impolitiche: ricordo qui, in primis, la decisione di perseguire l’associazione e poi l’inclusione delle repubbliche ex-sovietiche di Georgia, Moldavia, Ucraina e Bielorussia che, diversamente da quanto propagandato, lungi dall’allargare l’area della pace, della libertà e della democrazia, nei paesi a cui sono state socchiuse le porte del nostro giardino, hanno promosso divisioni sociali, conflitti politici, guerre civili e guerre guerreggiate. L’Unione europea non è innocente. È soltanto incapace di pensare al mondo in termini politici. Tanto incapace da avere abbracciato la causa dei nazionalisti ucraini contro sé stessa, mettendosi al seguito degli azzardi anglo-americani e a rimorchio delle ossessioni anti-russe di baltici, polacchi e scandinavi, incapace di pronunciare le due parole che avrebbero potuto evitare la guerra: neutralità e diritti costituzionali per russofoni e russofili. A maggior gloria della potenza americana. Ma pare illusorio, pensare che l’Unione possa cambiare grazie al braccio di ferro doganale con Trump o rincorrendo con quintali di programmi di carta la competitività perduta o, addirittura, facendo debito per razionalizzare l’industria della difesa e rendere interoperabili ventisette eserciti (di cui ventitre già nella Nato). Come se questi ventisette paesi condividessero una comune analisi geopolitica e una comune definizione dei rischi e delle minacce a cui sono esposti. L’Unione avrà già il suo bel da fare per evitare che le tendenze elettorali avverse nei vari stati-membri si ripercuotano sulla sua struttura e sulla sua capacità di funzionare. Ci vorrebbe una rifondazione politica consapevole e invece sarà già tanto se non ci sarà una deflagrazione imprevedibile. Il “politico” in Europa non riesce a emergere.

E allora intanto?

Dalla “ri-politicizzazione” del mondo possono venire cose buone (riconoscimento pattizio di nuove realtà e di nuovi equilibri multipolari) o cose cattive (nuove guerre di ogni tipo, economico, ibrido, guerreggiato), ma certo nulla di buono può venire dal guardare il mondo di oggi e di domani con gli occhi di ieri, perseguendo l’obiettivo più o meno dichiarato di restaurare un mondo che non c’è più e che non può più esserci, anche perché non poteva esserci e, infatti, non c’è mai stato. La mia opinione è che chi volesse lavorare a un’alternativa politica a Trump e al trumpismo, anziché sfinirsi nella costruzione di fronti contro la destra e di leghe liberali e democratiche che sognano il bel mondo che fu, farebbe meglio a mettere all’ordine del giorno una riforma maiuscola del capitalismo (una nuova Bretton Woods, tanto per cominciare) e a dirsi e a dire ad alta voce che la sua concezione dell’umano, del senso della persona e della sua libertà, va in senso opposto alle filosofie del gender e alle faustiane possibilità offerte dalla scienza nell’epoca della riproducibilità tecnica della vita.

Stampa o salva l’articolo in Pdf

Newsletter

Privacy

Ultimi articoli pubblicati