La mia intenzione è quella di fornire alcuni spunti per una riflessione critica sull’Unione europea, spunti guidati dalla convinzione che avremmo bisogno di un’Europa che avesse: i) una visione del mondo propria e autonoma; ii) poteri che poggino su una solida base democratica; iii) che rispetti le Costituzioni e le identità storiche e culturali dei popoli che la compongono; iv) che desse al vincolo sociale e occupazionale qui e là menzionati nei trattati la stessa importanza che dà ai precetti dell’equilibrio di bilancio e della stabilità monetaria.
L’Europa come costola della NATO
Ma l’Europa che c’è non è questa. È quella che nella sessione inaugurale del Parlamento, a Strasburgo, ha adottato come suo primo atto una risoluzione sulla guerra in Ucraina, analizzata secondo lo schema ben noto della “guerra di aggressione illegale, non provocata e ingiustificata”, che non parla di pace o di negoziati, che sostiene l’ingresso dell’Ucraina nella Ue e nella Nato e che, tra l’altro, invita gli Stati a destinare lo 0,25% del loro Pil per sostenerla militarmente. La risoluzione, proposta da Popolari, Socialisti e Democratici, Liberali, Conservatori e Verdi, è stata approvata con 495 voti a favore, 137 contrari e 47 astensioni. In un certo senso, l’Europa che c’è è ormai una parte della Nato (soltanto Austria, Irlanda, Cipro e Malta non ne fanno parte). Si considera subalterna e complementare alla strategia Nato, a trazione USA, che ha celebrato a Washington il suo 75. esimo anniversario nel luglio scorso, e con essa condivide l’obiettivo di neutralizzare i tentativi di «minare l’ordine internazionale basato su regole (che) stanno rimodellando il panorama politico globale», come si legge nell’Agenda strategica della Ue approvata nel Consiglio europeo del giugno scorso. La Ue, dunque, come un “service” della Nato, specializzata in sanzioni e approfondimenti giuridici, come ha avuto modo di scrivere Wolfgang Streeck.
Uno non si può scegliere l’Europa che vorrebbe, quella ideale, a cui guarda con simpatia, e alla quale si sente legato culturalmente ed emotivamente. L’Europa che c’è è quella che ha eletto presidente della Commissione per i prossimi cinque anni, Ursula von der Layen, con i voti di una maggioranza cosiddetta “europeista”, composta da Popolari, Socialisti e Democratici, Liberali e, di fatto, dei Verdi, più qualche delegazione nazionale dei Conservatori. Ursula von der Leyen che, al di là del merito, ha presentato un programma che costerebbe tra gli 800 e i 1000 miliardi l’anno, senza spendere una sola parola su come reperire quelle risorse (la Ue ha un bilancio proprio di poco più di 150 miliardi l’anno). Non è un po’ assurdo? Il debito comune del Pnrr e del Sure non conta: è un’eccezione. In quel momento, per usare un’espressione impiegata recentemente da Paolo Gentiloni, l’Europa attraversò il Rubicone. Vero. Ma poi è tornata indietro. Ed è di nuovo dall’altra parte di quel Rubicone. Ripeto la domanda: non è un po’ assurdo?
Il bivio: Europa del welfare o del warfare?
Questa è l’Europa che c’è. E qui potremmo anche fermarci. Ma è questa Europa a essere campo di gioco obbligato della politica italiana, per il governo e per le forze politiche. Quindi è logico e inevitabile che in quel campo ci si muova, a partire dal giudizio e dalla presa di posizione sulle sue politiche e sui suoi programmi: che sono, innanzitutto, “impopolari” (Fassina). Quindi, certo, visto la centralità che il tema della guerra ha assunto nel discorso europeo, si tratta di schierarsi, oggi, prima di tutto, semplificando, a favore di un’Europa del “welfare” piuttosto che di un’Europa del “warfare”: beni pubblici legati all’istruzione, alla salute, al sostegno dei redditi di chi ha bisogno invece che a favore di carri armati per l’uso che se ne vuole fare ora. E fin qui ci siamo. Ma questo stare dentro l’Europa non significa rinunciare a immaginare un’Europa diversa, capace di pensare il mondo in modo meno moralistico e manicheo e capace di fare politica, riconoscendo che la politica è scelta, creatività e lungimiranza, e smettendola di pensare che la politica possa essere superata e resa superflua dalle “regole”. Dunque, fare i conti con l’Europa che c’è non significa che uno debba esserne contento e soddisfatto, o addirittura che debba esserne “devoto” (come spesso si richiede), che non possa e non debba criticarla mettendone in discussione il metodo di funzionamento e la sua stessa natura, pur, ripeto, facendone parte e agendo nel contesto dato.
Laicizzare la discussione sull’Unione europea
Per farlo bisogna in primo luogo “laicizzare” la discussione, liberandola dai tabù e dall’approccio fideistico e religioso. Una minuzia, per spiegarmi. Lo scorso 19 aprile, su “La Stampa”, un corrispondente riferisce della presentazione-discussione del rapporto-Letta al Consiglio europeo. La cronaca inizia così: “Non appena è iniziata la discussione al Consiglio europeo, i miscredenti sono subito venuti allo scoperto avanzando i loro dubbi”. Che vogliamo farne dei “miscredenti”? Dopo le elezioni europee, Gentiloni, cito ancora lui, si rallegrava della conferma di una maggioranza europeista nel parlamento appena eletto, caratterizzata da tre elementi: 1) richiesta di + Europa; 2) appoggio all’Ucraina; 3) difesa dello Stato di diritto. Tutti gli altri sarebbero fuori: anti-europeisti! Il fatto che realizzare questo programma – ulteriore accentramento di competenze a Bruxelles senza rifondazione democratica/revisione dei Trattati; fare guerra alla guerra, rischiando la Terza guerra mondiale e trattare gli Stati membri come alunni a cui insegnare come organizzare il loro Stato democratico – possa comportare divisioni serie all’interno dei singoli paesi e tra i diversi paesi, non è tema di riflessione per i “credenti”. I credenti non si interrogano nemmeno più sul senso dell’Unione, sui suoi risultati: la difendono come è da chi secondo loro vorrebbe smontarla, vogliono espanderla per come è perché non sanno come cambiarla, ma sono consapevoli che quel che c’è non va bene e che dovrebbe esserci qualcos’altro, di più e di diverso, e lo evocano in continuazione senza sapere come realizzarlo, ma mostrando fiducia che questo “di più” arriverà prima o poi. Tutti quindi allineati a celebrare l’Unione ircocervo (non è una Federazione, ma nemmeno una semplice Organizzazione internazionale: Cassese, Fabbrini) o in attesa fiduciosa dell’evento messianico (quando la Francia offrirà alla Ue la sua deterrenza atomica e il suo seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’ONU: Prodi).
Il dubbio che non tutto sia andato bene, che ci siano storture di fondo da correggere, ma che appaiono incorreggibili, viene respinto e classificato come anti-europeismo. Eppure, tanti lo dicono: 1) ci sono almeno due vizi di origine (la rinuncia alla difesa comune e l’idea che l’integrazione economica avrebbe portato di per sé all’Unione politica – Panebianco, Moavero e altri); 2) la scelta funzionalista ovvero la spoliticizzazione tecnocratica con il passaggio da regole nell’interesse di tutti a regole a favore di qualcuno (ordoliberalismo di mercato, fiscale e monetario), con significative limitazioni di sovranità e “assorbimento” di democrazia (metodo “democro-voro”: esemplare il “semestre europeo” che sui bilanci degli Stati dà alla Commissione più poteri di quanti ne abbiano i parlamenti nazionali) (oltra alla critica diffusissima della “zoppia” dell’Unione monetaria priva di unione fiscale); 3) risultati mediocri in un campo decisivo dell’”identità europea” come percepita dai suoi costruttori: l’economia sociale di mercato altamente competitiva, scolpita come obiettivo principe dei Trattati, ha segnato il passo tanto verso gli Usa che verso la Cina (Panetta) (un solo dato: la produttività europea negli ultimi 20 anni è calata del 20% rispetto a quella USA; e un solo memo: la dimenticata “Strategia di Lisbona” del marzo 2000 che, senza metterci un soldo, sbandierava l’obiettivo di fare dell’Unione “la più competitiva e dinamica economia della conoscenza del mondo entro il 2010). Questa economia sociale di mercato altamente competitiva ha funzionato invece benissimo come competizione interna utile a ribassare i salari e a comprimere il welfare (Fassina e ammissione Draghi); 4) risultati deludenti nel campo centrale della pace, missione storica dell’integrazione: l’Unione ha fallito in Jugoslavia, inizio anni ’90, e in Ucraina, incapace di pensare il mondo in chiave politica e di considerare/immaginare che la candida e intenzionalmente neutra, presentata come generosa e disinteressata, politica di vicinato e di allargamento verso est, nei paesi ex-Urss, potesse produrre anziché armonia divisione, lacerazione civile e quindi tragedie (Cacciari). Merita ricordare che l’allargamento dell’Unione non ha mai preceduto l’allargamento della Nato, ma, anzi, al contrario, lo ha seguito, come una conseguenza: quando ha cercato di precederlo (o sostituirlo) si è rivelato un colossale fallimento (politica di vicinato orientale).
La chimera della sovranità europea
Il punto è che non puoi essere quello che non sei: un conto è la sovranità (cosiddetta) condivisa, (cioè la neutralizzazione della sovranità che non viene rivolta, come potrebbe, dagli uni contro gli altri) e un altro conto è disporre di UNA sovranità ed esercitarla! Il soggetto politico non c’è né si vede come potrebbe nascere, allo stato delle cose. Una revisione dei trattati: una fondazione democratica dell’Unione, una costituente europea non sono alle viste (a meno di considerare, come mi è capitato di leggere recentemente, che l’attuale “maggioranza” del Parlamento europeo vada vista come il soggetto di una fase costituente già in atto che è destinata a sfociare nella “maturazione” delle condizioni necessarie alla revisione dei Trattati – Manzella).
Più realisticamente, è immaginabile che l’Unione andrà avanti (o avanti e indietro) nel solco della continuità. Gli “europeisti” hanno il timone in mano e perseguiranno il loro disegno di “+ Europa”. Vediamo come potrà svolgersi questa azione e con quali risultati. Ma intanto accantoniamo l’idea che esista l’europeismo al singolare: esistono governi nazionali (più o meno forti) ed esistono (più o meno deboli) partiti europei. Le differenze linguistiche rendono praticamente impossibile l’esistenza di un’opinione pubblica europea. Gli europeisti hanno idee diverse tra loro. Spesso il loro europeismo è un altro modo di interpretare e declinare l’interesse nazionale: la Francia è per un’Europa ad egemonia francese come la Germania è per il riarmo tedesco piuttosto che per la difesa europea (Panebianco). Ci sono poi europeisti che spingono e altri che frenano, alcuni accalorati e altri tiepidi…
Quindi, il campo degli europeisti è un “campo largo” in cui convivono posizioni e linee contrastanti. Da un lato, possiamo dire che sono uniti (almeno a parole) da: a) continuità nell’integrazione e nel metodo funzionalista; b) estensione delle politiche da affidare alla Commissione; c) primato del diritto europeo su quello nazionale. Ma nel campo “europeista” c’è una tensione permanente sulla “stabilità fiscale” (rigoristi vs lassisti), sul “debito comune” (favorevoli e contrari), sulle risorse dell’Unione (aumentare o meno il bilancio) e sull’Unione bancaria (prima la riduzione dei rischi e poi la garanzia comune dei depositi oppure viceversa). E c’è anche un campo di tensione permanente sulla questione non meno cruciale di come si possa o si debba passare da un’Unione economico-monetaria a un’Unione politica (cioè dalle sovranità condivise-neutralizzate a una sovranità effettiva e attiva), che riguarda in sostanza l’Unione della politica estera e di difesa: in questo campo si brancola nel buio, si va da chi evoca limpidamente una revisione dei Trattati (Moavero) a chi suggerisce di procedere intanto nell’ambito dei Trattati esistenti, magari forzandoli un po’ (cooperazioni rafforzate, voto a maggioranza) (Prodi e altri) (ma con forti argomentazioni in senso contrario da parte di chi teme che la rinuncia al diritto di veto non sia bilanciata da una più adeguata legittimazione democratica delle istituzioni così potenziate) (De Mattia).
Più concreta sembra essere la partita per una maggiore integrazione sul piano del mercato e delle prospettive economiche che fa capo a proposte e idee contenute nei rapporti Letta/Draghi che, ipotizzando un’ulteriore accentramento di competenze economiche e fiscali in capo all’Unione, propongono: unione dei capitali e dei risparmi e completamento del mercato comune (Letta) ovvero politica industriale e protezione commerciale europea da fare con debito comune per recuperare competitività, capacità tecnologica e autonomia industriale (Draghi). Il consenso sul costo delle politiche che la Ue si propone di realizzare nei vari settori (digitale, difesa, ambiente), con il Green Deal trasformato in Industrial Clean Deal, stimato tra gli 800 e i 1000 miliardi l’anno per x anni, va di pari passo con il dissenso su come finanziarlo. Eurobond? Una significativa capacità fiscale autonoma dell’Unione? In proposito nulla ha detto Ursula von der Leyen nel suo discorso al Parlamento europeo il 18 luglio scorso (Buti-Messori). Ammesso che gli europeisti spinti ottenessero qualche risultato sul piano dell’accentramento (con qualche “contentino” magari sul piano sociale), e c’è da dubitare del fatto che ciò possa accadere in modo significativo e in tempi ravvicinati (Dilmore-Il Mulino), come rapportarsi a questa possibilità?
Il solco tra tecnocrazia di Bruxelles e democrazie nazionali
Questa maggiore integrazione, renderebbe l’Europa migliore, più forte, più sociale e, last but not least, più democratica? O sarebbe piuttosto vero il fatto che si allargherebbe ancora di più il deficit democratico dell’Unione e che si approfondirebbe il solco tra la tecnocrazia europea e le democrazie nazionali? Questo è un nodo fondamentale irrisolto. Si può accettare il trade-off più integrazione e meno democrazia nazionale, di cui già facevo cenno più sopra? C’è chi ritiene che il problema non esista: il parlamento europeo è eletto a suffragio universale e rappresenta i cittadini/popoli europei; i governi che compongono il Consiglio sono tutti espressione di democrazie nazionali rodate e funzionanti; la Commissione è espressa dal Consiglio e gode della fiducia del Parlamento… Questa argomentazione ignora la natura politica ibrida e irrisolta di tutte le istituzioni dell’Unione nonché il carattere rigido e ideologicamente segnato dei Trattati e, in particolare, dell’Unione economico-monetaria: a) il parlamento europeo non ha nessuno dei poteri tipici di un parlamento democratico e sovrano (iniziativa legislativa, poteri di bilancio e imposizione fiscale e di indebitamento, poteri di pace e di guerra); la Commissione è allo stesso tempo un organo politicizzato (cosiddetta fiducia del Parlamento e relativa maggioranza) e un organo tecnico (risponde al Consiglio e non è composta da Commissari espressi dalla maggioranza parlamentare bensì da Commissari designati dai governi nazionali secondo le maggioranza nazionali); per di più la Commissione è organo esecutivo e ha poteri giudiziari (istruisce le procedure di infrazione) e ha il monopolio dell’iniziativa legislativa; il Consiglio è invece il deus-ex-machina dell’Unione ed è un organo intergovernativo e confederale votato alla difesa delle prerogative sovrane in capo agli Stati piuttosto che al loro superamento); b) inoltre, l’impianto dell’Unione economica e monetaria definito dai Trattati è tutto tranne che neutro, visto che è fortemente impregnato dei principi dell’ideologia ordoliberale, ignota alla Costituzione italiana e, in particolare, non proprio sovrapponibile ai suoi articoli 3, dedicato alla Repubblica che rimuove gli ostacoli all’uguaglianza dei cittadini, e 41-42-43, sull’iniziativa economica privata, la funzione sociale della proprietà e l’iniziativa economica dello Stato (a dispetto, direi, della costituzionalizzazione del vincolo europeo inserito nel 2012, agli articoli 97 e 119, nel quadro della riforma sull’equilibrio di bilancio). L’ideologia ordoliberale, come ripresa nelle norme europee, vede nel mercato concorrenziale la fonte di legittimazione dello Stato (che realizza la propria missione nel garantirne il buon funzionamento) e ne affida un presidio non meno importante a una Banca centrale indipendente e votata a garantire la stabilità della moneta e prevede pertanto il divieto degli aiuti di stato, vieta la monetizzazione del debito ed esclude un’unione fiscale pur prescrivendo un coordinamento stringente delle politiche fiscali nazionali. È vero che alcune “regole” sono state sospese durante la pandemia e altre sono state di fatto violate per un periodo (monetizzazione del debito da parte della BCE): ma si tratta, al momento, di eccezioni alla regola e non della regola.
C’è di più. I Trattati, tuttavia, non si limitano alla parte prescrittiva economico-monetaria ma si soffermano anche su parti ideali-programmatiche definendo valori (art. 2: L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini) e visioni del mondo e delle relazioni internazionali (Art. 21: L’azione dell’Unione sulla scena internazionale si fonda sui principi che ne hanno informato la creazione, lo sviluppo e l’allargamento e che essa si prefigge di promuovere nel resto del mondo: democrazia, Stato di diritto, universalità e indivisibilità dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, rispetto della dignità umana, principi di uguaglianza e solidarietà e rispetto dei principi della Carta delle Nazioni unite e del diritto internazionale.”). Sono testi molto, molto impegnativi. Questi testi peraltro non sono stati elaborati da Assemblee costituenti, composte da rappresentanti popolari eletti con un preciso mandato, ma dai rappresentanti di governi, per il tramite di funzionari (diplomatici e giuristi), e sono stati quindi ratificati (a pacchetto chiuso) dai parlamenti nazionali. La ratifica parlamentare si è rivelata l’unica strada affidabile visto l’insuccesso ripetuto di tentativi di ratifica referendaria in Francia, Olanda, Danimarca e Irlanda. A parte la natura contraddittoria e talvolta schizofrenica dei Trattati (slanci idealistici-universalistici accompagnati da freni alle competenze dell’Unione a garanzia di quelle nazionali e subordinazione agli obiettivi competitivo-concorrenziale degli obiettivi della piena occupazione, dell’equità e della coesione sociale), sempre più i Trattati vengono considerati una specie di super-costituzione che prevale sulle Costituzioni nazionali e che si impone su di esse attraverso il primato del diritto europeo (la cui interpretazione è affidata a una Corte di giustizia, i cui componenti, art. 19 TUE, sono “nominati di comune accordo dai Governi degli Stati membri”) e attraverso un’interpretazione estensiva delle competenze dell’Unione a fare valere le disposizioni comuni (dal mercato si arriva ai valori e il tutto è sovrastato dello Stato di diritto) negli Stati membri anche mediante dispositivi applicativi originali e innovativi che consentono di interferire sulle scelte politiche dei governi nazionali e di chiedere spiegazioni ed esigere modifiche (tra le varie procedure in atto: il semestre europeo, il rapporto sullo stato di diritto, la “protezione” dei fondi europei con la previsione di condizionalità per la loro effettiva attribuzione). Il Rapporto sullo Stato di diritto meriterebbe un approfondimento ad hoc: io sono rimasto colpito dal modo paternalistico e dalla sufficienza con cui viene ignorata la dialettica politica e democratica che si esprime nei parlamenti nazionali – si parla con le autorità e con i portatori di interesse – come se ci fossero risultati “oggettivi” da raggiungere, privi di alternative, indifferenti alle vicende specifiche, con raccomandazioni sulle cose da farsi e valutazioni sui compiti fatti o non fatti. L’Unione europea come esaminificio… Questo del rapporto tra “super-costituzione” europea applicata con procedure tecnico-burocratiche, che si vorrebbero sostanzialmente spoliticizzate, ma che sono fortemente politiche, e rispetto delle democrazie nazionali è un problema enorme che rinvia al nesso irrisolto tra unità e differenza, tra democrazie europea (carente) e autonomie nazionali assoggettate a scrutini discutibili con metodi discutibili.
La legittimazione democratico-sociale dell’Unione
Tirando una prima provvisoria conclusione, in forma di domanda: nel rapporto con la Ue c’è un problema di politiche (welfare o warfare come dicevamo all’inizio – ricordo che la Svizzera provvede alla sua difesa con l’1% del PIL – e si può naturalmente allargare il discorso a tutto l’ambito “green”, all’agricoltura, ai trattati di libero scambio, al commercio esterno e via dicendo), certamente: ma, mi chiedo, possiamo accontentarci di porre il problema delle politiche e di risolverlo con richieste specifiche alternative, collocandoci all’opposizione di questa maggioranza, diciamo così, nell’Europarlamento e dell’equilibrio attualmente vigente nel Consiglio, formulando proposte e avanzando idee, ovviamente, o non c’è anche, e non meno importante, un problema “costituzionale” che attiene ai Trattati, alle competenze dell’Unione in relazione alla sua legittimazione democratica e al rapporto di rispetto e di leale collaborazione tra Unione e Stati membri? In tal senso dovrebbero essere sempre presenti proposte di cambiamenti irrinunciabili e urgenti dei Trattati nel senso di dare vita a un’Europa democratica e sociale. Qualche spunto: i) opporsi allo scambio più integrazione e meno democrazia (a partire dalla critica del semestre europeo e ora del nuovo patto di stabilità), proponendo un processo europeo costituente con la partecipazione democratica dei popoli; ii) trasformare l’Unione economico e monetaria in Unione del lavoro e della solidarietà (cambiare lo Statuto della BCE, debito comune, politiche sociali); iii) rispetto delle democrazie nazionali e delle identità dei popoli e fermare la deriva tecnocratica e omologante (ripensare e rivedere il rapporto sullo Stato di diritto); iv) moratoria di ogni allargamento, e ripensare a costruire un sistema di sicurezza e di cooperazione europea a partire da una soluzione negoziata ed equilibrata del conflitto russo-ucraino.
Ripensare l’Europa
Vaste programme, certo. Non è semplice elaborare una linea che difenda la democrazia nazionale (anche contro la Ue) mentre promuove un europeismo democratico e sociale, realistico e utopico allo stesso tempo (ma non messianico): occorre un ripensamento di fondo sui temi della sicurezza e della pace che bandisca ogni manicheismo. Per cambiare l’Europa che c’è e per tirarla fuori dalla palude impolitica e spoliticizzata in cui si è cacciata con i propri dogmi ordoliberali e con la propria concezione moralistico-legalitaria delle relazioni internazionali (del tutto subalterna, peraltro, a un certo mondo statunitense), occorre ri-pensare il mondo in cui siamo oggi e quello recente da cui veniamo. Ma questa è un’altra storia.
Testi di riferimento
Cingolani Stefano, Patto con la UE: l’importanza delle riforme e il ruolo dei corpi intermedi, Il Foglio, 23 agosto 2024.
Dilmore Norberto, Le elezioni europee, le elezioni francesi e il «nemico cassetto», Il Mulino, 19 luglio 2024.
Buti Marco / Messori Marcello, Il piano von der Leyen. Europa, chiari gli obiettivi non le risorse, Sole 24 Ore, 21 luglio 2024.
Cacciari Massimo, L’Europa dica se vuole fermare l’escalation, La Stampa, 13 luglio 2024.
Cassese Sabino, Le strade per contare nella UE, Corriere della Sera, 30 giugno 2024.
De Mattia Angelo, Milano Finanza, 15 agosto 2024
Fabbrini Sergio, Nomine UE, perché l’Italia è rimasta isolata, Il Sole 24 Ore, 07 luglio 2024.
Fassina Stefano, L’agenda anti-popolare di Ursula reloaded, Huffington Post, 19 luglio 2024.
Ferrera Maurizio, L’Unione che ci serve, Corriere della Sera, 16 giugno 2024.
Meloni Giorgia, Corriere della sera, intervista 20 luglio 2024.
Manzella Andrea, Continuità nel segno di Ursula, Corriere della Sera, 18 agosto 2024.
Panebianco Angelo, Note geo-politiche. Un Europa costretta a crescere, Corriere della sera, 14 giugno 2024.
Panetta Fabio, Considerazioni finali Banca d’Italia, 31 maggio 2024.
Prodi Romano, intervista di Paolo Valentino, Corriere della Sera, 11 luglio 2024.
Streeck Wolfang, The EU after Ukraine, “American Affairs”, Volume VI, Number 2, 2022.