IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Mimetismo e violenza nei social.

Facebook, Twitter o Instagram sono luoghi di una solitudine affamata che generano aggressività e violenza. La lotta di tutti contro tutti è la forma privilegiata di convivenza. Il confine tra giusto e sbagliato è invisibile. L’algoritmo non distingue la pornografia dall’arte, il falso dal vero.

Che gran parte della comunicazione politica passi attraverso l’utilizzo dei social network è un dato di fatto, l’impatto di queste piattaforme digitali è stato così profondo da trasformare la televisione da luogo privilegiato per la costruzione del consenso, a semplice elettrodomestico. Questa rivoluzione ha colto tutti in contropiede, per quanto politologi e opinionisti commentino quotidianamente tweet e post, riempendosi la bocca di termini sino ad oggi sconosciuti, ciò che emerge è un diffuso senso di inadeguatezza. L’impressione è quella di uno smarrimento generale, di un fraintendimento sia del fenomeno che delle sue conseguenze.

Rivoluzione

L’errore più comune è quello di associare la tecnologia alla novità, credere che l’utilizzo di smartphone e reti di ultima generazione rappresenti di per sé l’ingresso in un mondo diverso, in una dimensione che necessita di un linguaggio rinnovato per essere descritto. La convinzione che l’umanità sia inserita in un cammino lineare fatto di momenti unici ed irripetibili, produce la disabitudine alla comparazione, il rischio è quello di essere raccontati dall’oggetto delle proprie analisi, che la grammatica interpretativa non nasca da un processo di riflessione, ma da un asservimento acritico. Se a tutto questo aggiungiamo la banalizzazione del concetto di virtualità, il quadro che emerge è a dir poco sconfortante, non troppo diverso da quando ad inizio novecento non ci si rese conto dell’impatto che radio e cinegiornali avrebbero avuto sulla formazione delle masse totalitarie. La sfida è quella di provare a fermarsi, di gettare uno sguardo su quanto sta avvenendo. Ciò di cui abbiamo bisogno è un cambio di prospettiva che ci permetta di studiare i social network come spazi sociali, luoghi fisici con regole e tempi in grado di influenzare i comportamenti e la sfera emotiva di chi li abita. La psicologia sociale e l’antropologia culturale diventano discipline fondamentali per la filosofia politica, dei grimaldelli con i quali scardinare porte che altrimenti resterebbero chiuse, strumenti attraverso cui rendere evidente che questa rincorsa al digitale nasconde la possibilità di un ritorno a forme di collettività arcaica in grado di sgretolare le fondamenta delle democrazie occidentali.

L’irrompere dei social network sulla scena del mercato del consenso, non ha solo stravolto forme e modi della comunicazione politica, ma ha portato al centro dell’agenda il tema del capro espiatorio. Il ritorno del sacrificio come strumento privilegiato di gestione della paura, ci pone dinnanzi ad una serie di interrogativi a cui è necessario dare una risposta. Scopo di questo lavoro non è solo quello di ripercorrere la teoria di René Girard per capire se i social network siano o meno luoghi della crisi da cui scaturiscono collettività violente, ma se l’individuazione e l’immolazione della vittima sia ancora un meccanismo in grado di svolgere la propria funzione catartica.

Il Capro Espiatorio

Ne Il mito dell’analisi Hillman scrive che: «la fantasia interviene soprattutto là dove manca la conoscenza esatta; e quando la fantasia si intromette diventa particolarmente difficile pervenire a una conoscenza esatta. Viene così a formarsi un circolo vizioso, e il mitico usurpa la formazione della teoria; inoltre la fantasia trova prove del mitico nei fatti. Vedere è credere, ma credere è vedere». [1] Ma cosa c’è di così cristallizzato nel mito da attraversare i secoli senza perdere la propria capacità di determinare il modo in cui osserviamo e descriviamo il mondo, cosa si nasconde dentro questi racconti da polarizzare emozioni e comportamenti secondo schemi preordinati sempre simili a sé stessi? La risposta va cercata in quelle che Jung chiama idee paradigmatiche in grado di riverberare la loro influenza sull’intero spettro delle attività umane. Gli archetipi sono fenomeni psicoidi, irrompono nella sfera della psiche, ma nascono al di fuori di essa. Il loro formarsi è arcaico, e la loro persistenza è dovuta alla capacità di fornire strategie utili al superamento di problemi radicali come la paura e la morte. L’essenzializzazione del male, la sua trasformazione in figure riconoscibili, è uno dei meccanismi più antichi attraverso cui confrontarsi con la precarietà insita nella cultura. In questa assenza di certezze trovare dei punti di riferimento è necessario per evitare di essere travolti da forme di relativismo distruttivo. Quando sembra che ogni cosa stia per crollare, quando il senso di inadeguatezza fa tremare le fondamenta di ciò che si è costruito, l’individuazione di un colpevole è un antidoto contro la voglia di abbandonare tutto e di nascondersi in attesa della fine. Se il mondo non assomiglia al paradiso che ci è stato promesso, se le mura ed i confini che si sono costruiti a difesa della propria incolumità non reggono alla spinta di forze disgreganti, non è detto che sia il progetto ad essere strutturalmente debole, ma che qualcuno sta lavorando affinché tutto vada in malora. Che si tratti del pharmakos, della strega, dell’ebreo, dell’uomo nero o di qualsivoglia altra entità demoniaca, il capro espiatorio è il cardine grazie al quale l’idea di comunità è riuscita a sopravvivere alle avversità e alla durezza della natura. La capacità di trasferire l’abisso del non comprensibile su personaggi in carne ed ossa, su figure contro le quali è possibile scatenare una violenza aggregante come reazione alla loro volontà indifferenziatrice, è un vero e proprio salto evolutivo senza il quale oggi non saremmo ciò che siamo.

Messe una accanto all’altra, le fantasie prodotte da questo archetipo sono perfettamente sovrapponibili. Non importa né dove, né quando, questi racconti influenzano abitudini e comportamenti, ciò che conta è la loro capacità di generare canoni narrativi sempre uguali a sé stessi. «Le descrizioni si somigliano tutte. Possono venire dai più grandi scrittori, per esempio nel caso della peste, da Tucidide e da Sofocle fino al testo di Antonin Artaud, passando per Lucrezio, Boccaccio, Shakespeare, De Foe, Thomas Mann e molti altri ancora. Possono venire da individui senza pretese letterarie, e non differiscono mai di molto. Fatto non sorprendente poiché queste descrizioni dicono e ridicono instancabilmente la perdita di ogni differenza».[2]

Secondo Girard sono quattro i passaggi attraverso cui la comunità arriva ad uno stato di inquietudine tale da aggrapparsi al sacrificio come unico strumento di salvezza. Il punto di partenza è la crisi, la percezione di un’insopportabile sensazione di insicurezza. Se dove si coglievano i frutti c’è solo carestia, se dove scorreva l’acqua c’è solo aridità, se dove nascevano i bambini c’è solo sterilità, significa che il sociale è stato infettato da un male insidioso e invisibile. Gli ambiti nei quali la normalità può essere sconvolta dall’inaspettato sono molteplici, perché molteplici sono le debolezze dell’umano. Basta poco perché riti e credenze lascino spazio all’angoscia, perché sorrisi e condivisioni siano soppiantate da sguardi di sospetto. «Di fronte all’eclissi del culturale gli uomini si sentono impotenti; l’immensità del disastro li sconcerta, ma non viene loro in mente di interessarsi alle sue cause naturali; l’idea che potrebbero agire su queste cause imparando a conoscerle rimane embrionale. Poiché la crisi è innanzi tutto crisi del sociale, esiste una forte tendenza a spiegarla attraverso cause sociali e soprattutto morali»[3]. Ed è qui che si inserisce il secondo stereotipo individuato da Girard: il crimine indifferenziatorio. Come il più fidato degli amici l’archetipo ci sussurra all’orecchio di una colpa così grave da corrodere le travi portanti del sociale: «Tutti questi crimini sembrano fondamentali. Si rivolgono contro i fondamenti stessi dell’ordine culturale, le differenze familiari e gerarchiche senza le quali non vi sarebbe ordine sociale. Nella sfera dell’azione individuale corrispondono dunque alle conseguenze globali di un’epidemia di peste o di un disastro analogo. Non si contentano di allentare il legame sociale, lo distruggono completamente»[4]. Quando si vive nella paura di perdere tutto ciò per cui si è lavorato, non c’è spazio per spiegazioni complesse incapaci di placare il fuoco delle emozioni. La paura ci riduce ad animali affamati alla ricerca di qualcosa con cui colmare il vuoto esistenziale. Il terrore è un moltiplicatore di sé stesso, una volta che ha preso piede cresce e si espande con la velocità di un flagello. La differenza tra casualità e causalità è più profonda di quanto la loro assonanza faccia supporre: accettare il caso significa partire dal presupposto che non tutto è conoscibile e che non tutto può essere controllato, essere consapevoli che il cammino verso una condizione di totale invulnerabilità è un percorso che non ha fine. L’ossessione per la colpa è il carburante grazie a cui gira la macchina espiatoria, essa permette di distogliere lo sguardo dalla finitudine umana per spostarlo sulla ricerca di qualcuno che vive con noi, ma che in realtà lavora contro di noi, di un traditore interno che pensa solo alla soddisfazione dei propri egoismi. L’individuazione di chi ha violato le regole, di chi col suo comportamento ha messo a rischio la tenuta delle reciprocità sociali, è un processo delicato. Quando si ha a che fare con la rabbia, il rischio di innescare forme distruttive di conflittualità interna è alto. Nella Genealogia della Morale Nietzsche scrive il compito principale di ogni prete asceta è lottare «accortamente, spietatamente e segretamente con l’anarchia e con l’autodissoluzione sempre prossime a generarsi all’interno del gregge, nel quale si va continuamente accumulando quella pericolosa sostanza deflagrante ed esplosiva, il ressentiment. Far esplodere questa sostanza deflagrante così che non mandi all’aria né il gregge, né il suo pastore, questo è il suo caratteristico giuoco di destrezza e anche la sua massima utilità: se si volesse compendiare, in una stringatissima formola, il valore dell’esistenza sacerdotale, si dovrebbe senz’altro dire: il prete è il modificatore di direzione del ressentiment»[5]. Il prete asceta è lo specialista della ridirezione[6] , strategia di sopravvivenza scoperta dagli etologi il cui scopo è evitare che le pulsioni aggressive si scatenino all’interno del gruppo animale mettendo a rischio la continuità della specie. Dalle accuse stereotipate alla creazione di categorie vittimarie il passo è breve: l’idea che minoranze o singoli individui possiedano volontà e capacità di scatenare la crisi, trasforma la comunità in una massa aizzata[7] pronta al linciaggio. Alla domanda contro chi? questo bisogno di fare male deve essere indirizzato, il terzo stereotipo fornisce risposte chiare e comprensibili, mettendo i responsabili con le spalle al muro senza alcuna possibilità di errore. Non importa se non esistono prove, non importa se non c’è la flagranza di reato, ciò che conta è che i colpevoli siano portatori dei segni inequivocabili della devianza. I capri espiatori, per quanto eterogenei tra loro, in realtà si assomigliano tutti, il primo tratto che li accomuna è la condizione debitoria verso la comunità, l’essere in equilibrio tra la condizione di ospiti e quella di parassiti. Basta davvero poco perché la benevolenza si tramuti in odio, perché la compassione mostri i denti pronta a sbranare ciò che fino a poco prima aveva accudito come il più fragile dei beni.  Nietzsche ricorda che la collera della comunità che si sente defraudata restituisce il debitore «allo stato selvaggio ed esige da lui ciò da cui fino a quel momento era stato preservato: lo espelle da sé – e ogni sorta di ostilità può ora scatenarsi contro di lui»[8].

Questo spazio sociale che include ed esclude allo stesso tempo, è funzionale sia alle politiche di sfruttamento che a quelle persecutorie, chi lo abita è adatto ad essere sacrificato. Dipendenza ed isolamento non servono solo a rendere più facile la proiezione della paura, il loro compito è quello di garantire che il capro espiatorio sia il miglior conduttore possibile della violenza, che riesca a polarizzare su sé la rabbia impedendo che dilaghi senza alcun controllo. Se la vittima fosse totalmente interna, perfettamente integrata, la sua immolazione non potrebbe essere unanime, rendendo di fatto impossibile ricostruire la solidarietà di gruppo intorno al suo cadavere. Non solo, il rischio di una frammentazione distruttiva sarebbe elevatissimo, la comunità si dividerebbe tra coloro che vogliono punire il responsabile del male, e coloro che non possono farlo perché legati a lui da vincoli di parentela o di affetto. Invece di generare ordine l’uccisione produrrebbe un’infinita catena di vendette impossibili da placare.

Il quarto stereotipo è una violenza che si fa tecnica, cassetta degli attrezzi da aprire quando le reciprocità diventano negative. Il capro espiatorio ripara il sociale intervenendo là dove paura e insicurezza prendono il sopravvento. Come un tumore circoscritto il male viene rimosso facendo attenzione che nessuna cellula maligna intacchi la parte sana della comunità, la sua asportazione ricostituisce quel senso di completezza che non si riusciva più a provare. Violenza scaccia violenza in un eterno ritorno all’omicidio rituale.

 Social Network

Facebook, Twitter o Instagram sono spazi sociali nuovi rispetto agli standard cui siamo abituati: per avere cittadinanza in questa comunità non ci sono vincoli di razza, sesso o religione, né alcuna discriminazione in base al censo o alla nazionalità. Per entrare è sufficiente possedere un indirizzo email e dichiarare di non aver mentito sul proprio nome e sulla propria età. Tra queste mura ogni cosa sembra essere all’insegna della serenità e del reciproco rispetto: messaggi rassicuranti campeggiano nelle schermate d’ingresso, mentre colori tenui rasserenano lo schermo lasciando presagire un mondo privo di rabbia e dolore. Tutto è semplice: passo dopo passo è possibile scegliersi un nome, un volto e cominciare a raccontarsi al mondo.

A governare la convivenza non ci sono codici o norme, ma linee guida, una sorta di spirito mistico del bene intrinseco all’esistenza stessa della comunità. L’assenza di una legge scritta comporta che il confine tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato sia così confuso da essere invisibile, producendo una duplice conseguenza: da un lato le accuse di violazione si fondano su presupposti talmente vaghi da diventare inappellabili, dall’altro la consapevolezza di essere venuti meno agli impegni sottoscritti si apprende attraverso un cortocircuito giuridico in cui è la punizione a determinare la norma. Ad alimentare la confusione c’è il fatto che il potere di comminare sanzioni è delegato ad un algoritmo, un gendarme digitale programmato per essere contraddittorio come le regole che deve far rispettare. La sua stupidità però è solo apparente: la difficoltà di monitorare i profili di miliardi di utenti con culture spesso diametralmente opposte tra loro, rende il controllo dei contenuti frettoloso e grossolano, una parodia in cui a cadere sotto la scure della censura sono organi genitali, capezzoli e parole chiave analizzate al di fuori del loro contesto. Questa cecità non è solo la conseguenza dell’impossibilità tecnica di processare l’enormità dei dati che produciamo, ma del fatto che vincoli eccessivi si tradurrebbero in minori introiti. L’algoritmo di Facebook non distingue le foto di un dittatore da quelle di un cantante, non distingue la pornografia dall’arte, il falso dal vero, le truffe dagli avvisi commerciali, però è in grado di intervenire non appena si pubblica un video in cui sia riconoscibile una melodia protetta da copyright. Il motivo è semplice: la presenza di contenuti razzisti e sessisti non è pericolosa per la sopravvivenza del sistema, mentre un’eventuale causa per violazione dei diritti d’autore potrebbe avere conseguenze economicamente rilevanti. L’algoritmo è quindi programmato per garantire al proprio datore di lavoro volumi di guadagno sempre maggiori con il minor rischio possibile, lasciando l’utente in balia di un’ambiente in cui gli unici tabù percepibili sono le nudità femminili e la violazione della proprietà intellettuale.

L’errore che siamo portati a compiere è quello di considerare il mondo reale e quello social come ambiti separati che non comunicano tra loro, ma l’essere umano non è una macchina in grado di resettare se stessa ogni volta che entra ed esce da un determinato contesto: il libro dei volti è molto più di un contenitore edonistico, è l’estensione di desideri e fragilità, lo specchio di ciò che vorremmo diventare, il luogo in cui il nostro essere si orienta seguendo modelli in cui è possibile riconoscersi durante ogni istante della giornata. Del resto basta riflettere su come gli influencer abbiano cambiato i meccanismi di costruzione dell’identità, trasformando in feticci gli stili di vita, per capire come il dentro ed il fuori siano categorie sociologiche che non spiegano più nulla, e che l’unica chiave di lettura utile in questo contesto sia quella dell’attraverso. Ciò che rende questi spazi interdipendenti è la nostra presenza, e il problema non è quale sia più influenzato dall’altro, ma quanto questo sdoppiamento dei piani dell’esistenza ci stia cambiando. Recenti statistiche hanno evidenziato che il tempo che trascorriamo sui social è in costante crescita, e la diffusa necessità di raccogliere memorie digitali delle nostre esperienze, ci racconta della voglia di trasformare la vita di tutti i giorni in un contenitore di testimonianze da condividere. Ovviamente tutto questo comporta un processo di selezione che ha dei vincoli: ogni comunicazione deve essere all’insegna della felicità, e persino il dolore si trasforma in una testimonianza con cui intercettare l’interesse altrui. Questa separazione/sovrapposizione tra un mondo in cui mettiamo in scena il meglio di noi, ed uno in cui siamo obbligati a confrontarci con difficoltà, umiliazioni e fallimenti, produce l’acuirsi di quel fenomeno che in psicologia sociale è conosciuto come self serving bias[9], la tendenza ad attribuire alle proprie capacità i successi, ed a scaricare sugli altri la responsabilità dei fallimenti. Se quella che abita i social è un’umanità che «si dichiara altamente soddisfatta di sé»[10], creando così un contesto in cui ognuno ripete agli altri «imitatemi, allo scopo di dissimulare la sua stessa imitazione»[11], la condizione di discepolo, l’unica che Girard ritenga antropologicamente essenziale all’umano, viene cancellata insieme ad ogni traccia di debolezza. Ed è proprio a causa di questa rimozione che la crisi è una dimensione strutturale dei social network, il punto di arrivo della rincorsa verso una perfezione irraggiungibile, la conseguenza di una completezza di sé mai completamente appagante. Questo senso di inadeguatezza è aggravato dal fatto che gli influencer sono dei mediatori esterni[12], soggetti che pur mettendo in scena la propria quotidianità risultano inavvicinabili nella loro completezza, il risultato è che la competizione mimetica si sposta ad un livello più basso, prendendo la forma di un conflitto tra discepoli. L’impossibilità di soddisfare il desiderio di essere diventa strutturale, svincolandosi dal classico messaggio pubblicitario e dando così vita ad un fenomeno totalizzante. La frustrazione derivante da questa rincorsa verso il nulla è talmente profonda così da necessitare di valvole di sfogo per rimanere sopportabile.

Quello che dobbiamo chiederci è se Facebook e Twitter siano per loro costituzione dei luoghi dell’eccezione, spazi dentro i quali, quello che Helen Fein[13] definisce l’universo degli obblighi, risulti stravolto. Vivere simultaneamente in mondi così vicini e così diversi, comporta mutamenti radicali in ogni ambito dell’esistenza, dalla percezione di sé a quella degli altri, fino alla perdita del confine tra ciò che è vero e ciò che è verosimile. Per capire la portata di quello che stiamo vivendo, basta riflettere sul fatto che quella dei social network è una comunità priva di confini: così come l’algoritmo non può tener conto delle differenze di usi e costumi, allo stesso modo non può far rispettare i codici penali in vigore in ognuno dei paesi in cui queste piattaforme vengono utilizzate. La creazione di una discrasia tra ciò che è consentito ai nostri avatar digitali, e ciò che ci è vietato come cittadini, rischia non solo di far perdere al diritto la sua funzione ordinatrice, ma di convincere l’utente che determinate azioni, da sempre stigmatizzate, siano adesso accettabili, fino al paradosso di essere perseguiti dall’autorità giudiziaria per la pubblicazione di contenuti che l’algoritmo invece ritiene legittimi.

Haters?

«L’idea che un abisso invalicabile separi le persone buone da quelle cattive è consolante per almeno due ragioni. Anzitutto, crea una logica binaria, in cui il Male è essenzializzato, (…) inoltre sostenere che esiste una dicotomia Bene-Male assolve le persone buone dalla responsabilità»[14]. La psichiatria moderna, così come la psicologia clinica e della personalità hanno una posizione tradizionale nell’approccio al male, senza distanziarsi troppo da concezioni che è possibile ritrovare nel diritto, nella religione e persino nella medicina, le ragioni della malattia, della devianza o del peccato vanno cercate direttamente dentro il paziente, il peccatore o il criminale. In accordo con la filosofia individualista imperante in occidente, l’essere umano viene descritto come una creatura impermeabile alle influenze sociali e responsabile delle sue azioni, spostando così l’attenzione dalle circostanze che avrebbero potuto originare determinati fenomeni, al piano della colpa. La psicologia sociale, al contrario, cerca di interrogarsi su quanto «le azioni di un individuo si possano far risalire a fattori esterni all’attore, a variabili situazionali proprie di una dato contesto»[15]. La verità è che la maggior parte di noi conosce se stesso soltanto in base alle proprie limitate esperienze in situazioni abituali che implicano regole, leggi, linee di condotta e pressioni cogenti, «ma cosa accade quando siamo esposti a contesti totalmente nuovi e insoliti, dove le nostre abitudini si rivelano insufficienti?[16]». Partendo da questa domanda, dobbiamo chiederci se la creazione della categoria degli haters non sia in realtà un modo per non riflettere in modo approfondito sulle caratteristiche intrinseche dei social network. Definendo questi utenti come malvagi per natura, non facciamo altro che rimettere in circolo la vecchia favola delle mele marce, narrazione rassicurante utilizzata da sistemi ed istituzioni per non fare i conti con le proprie storture strutturali. Un elemento su cui riflettere è che quando vengono scoperti, questi odiatori seriali non assomigliano in nulla a dei demoni della rete, ma sono per lo più persone normali smarrite ed incredule una volta messe dinnanzi alle proprie azioni. Il fatto che siano già state coniate delle etichette per definire chi mette in atto determinati comportamenti, la dice lunga sulla volontà di inserire questi fenomeni dentro categorie disposizionali che si focalizzino unicamente sulle responsabilità dei singoli, come se stupidità, irrazionalità e ignoranza fossero fattori necessari affinché una persona si trasformi in un persecutore digitale.

E se le cose non stessero così? Se invece fosse il sistema dei social network ad essere costruito in modo da favorire aggressività e violenza? Andiamo con ordine: la possibilità di costruirsi storie di vita sotto falso nome non solo è tollerato, ma semplice. L’anonimato è un lasciapassare per i comportamenti antisociali, la consapevolezza di essere irriconoscibili non solo slatentizza pulsioni che normalmente sarebbero tenute sotto controllo, ma indebolisce il principio stesso della responsabilità. Non a caso la spersonalizzazione e la parcellazione delle colpe furono stratagemmi che il nazismo adottò per far sì che brave ed oneste persone partecipassero senza remore alla deportazione e sterminio di milioni di ebrei. Per usare una terminologia cara a Bauman, l’anonimato è uno degli anestetici morali attraverso cui normalizzare il male sino a farlo diventare consuetudine. Qualcuno potrebbe obiettare che percentualmente il numero di coloro che opera all’interno dei social network sotto falso nome è inferiore rispetto a quello di coloro che scelgono di non nascondersi, tutto vero, se non fosse che ognuno di noi corre il rischio di subire quello che gli antropologi definiscono effetto maschera, di assumere identità che per quanto anagraficamente corrette, siano influenzate dalla presenza di uno schermo che nasconde e protegge. Un simile contesto è terreno di coltura per gli stereotipi negativi, condizione che porta con sé un altro effetto collaterale: la deumanizzazione. Una situazione in cui operano identità di comodo, protette dal segreto e da una sostanziale assenza di controllo, determina la costruzione di categorie di riconoscimento viziate da pregiudizi: in una sorta di infezione mimetica collettiva, la banalizzazione di sé determina la banalizzazione degli altri. Quando nessuna delle parti in causa è in grado di percepire l’altro come portatore di valore, bastano poche parole a far aumentare il livello dell’aggressività, arrivando a considerare i propri interlocutori nulla più che dei bersagli da colpire. Spersonalizzazione, deumanizzazione e perdita delle responsabilità provocano anche un cambio della percezione temporale. Riuscire a creare un legame tra un gesto e le sue conseguenze, è una delle regole individuate da Zimbardo per non perdere il controllo di sé stessi.[17] Osservando le modalità attraverso cui l’odio si scatena all’interno delle discussioni sui social, si nota uno sviluppo paranoico della violenza. In un rimando infinito di botta e risposta ossessivi, gli antagonisti cercano di avere l’ultima parola, di possedere un essere incentrato sulla verità, «dall’interno del sistema non vi sono che differenze; dal di fuori, invece, non c’è che identità (…) Più si accelera il ritmo delle rappresaglie, meno è necessario attendere. Più si fanno precipitosi i colpi, più risulta chiaro che non esiste la benché minima differenza fra coloro che, alternativamente, se li danno. Da una parte e dall’altra tutto risulta identico (…) le vittorie e le sconfitte alternate, le esaltazioni e le prostrazioni: dappertutto si ha la stessa ciclotimia»[18]. Tutto ciò degenera con una velocità impressionante in manifestazioni patologiche di dipendenza e di stress da conflitto. Ogni frase, ogni ingiuria, ogni negazione diventa ferita visibile, segno tangibile di una possibile sconfitta, privazione del proprio sé che implica una rivalsa in grado di riequilibrare ciò che è andato perso. La prospettiva temporale svanisce, assorbita da urgenze che si impossessano delle persone trasformandole in macchine odianti. In una sorta di effetto cascata, la capacità di avere una visione di insieme di ciò che accade va perduta, così come la capacità di non farsi sopraffare dagli stimoli emotivi suscitati da spezzoni di frasi, titoli ad effetto, immagini, slogan e quant’altro faccia leva sulla rabbia. Non è un caso che il cosiddetto framing effect, effetto corniciatura, sia una delle strategie più diffuse in rete per polarizzare paure e violenze: la condizione di precaria indifferenziazione che si respira, rende questi appelli al farsi identici[19] delle vere e proprie boccate di ossigeno attraverso le quali ricostruire un senso di comunità e di appartenenza partendo dall’individuazione di una minaccia comune.

Il sacrificio impossibile

Razzismo, sessismo, omofobia ed antisemitismo sono sempre esistiti, il problema non è questo, ma che nelle piattaforme digitali queste narrazioni abbiano acquisito dignità e legittimazione. Perché proprio questi contenuti e non altri hanno così tanto successo? Perché le cosiddette bufale non veicolano mai messaggi positivi, ma sempre e solo indignazione e minacce?

Se con l’esperimento si è dimostrato che dei ragazzi di buona famiglia, sani mentalmente e con una fedina penale immacolata, sottoposti a determinate influenze situazionali sono in grado di trasformarsi in aguzzini, perché ci è così difficile accettare che Facebook possa favorire la violenza e la polarizzazione dell’odio? A chi crede che paragonare un carcere ad un profilo social sia eccessivo, è bene ricordare che gli algoritmi costruiscono intorno a noi un universo di notizie e amicizie su misura, partendo dalle nostre passioni e dai nostri interessi, una bolla dove trovare conferma di certezze e convinzioni. Questo tentativo di dare vita ad una confort zone da cui siano banditi dubbi e incertezze, non solo fallisce miseramente, ma provoca l’effetto contrario a quello desiderato. Anonimato e deumanizzazione non sono dovuti unicamente alla libertà di azione di cui abbiamo parlato nei paragrafi precedenti, ma anche all’assenza di mediatori del conflitto, di figure terze in grado di stemperare la discordia in forme di compensazione condivise. L’effetto terra di nessuno porta con sé il rischio dello stato di natura[20], la lotta di tutti contro tutti come forma privilegiata di convivenza.

Alla fine, ci si appella all’unico sentimento in grado di fungere da collante: la paura. Facebook non è solo un luogo della paura, ma è un amplificatore della paura[21], una megalopoli i cui abitanti sono in balia della propria sfera emotiva. Ciò che sino a ieri era considerato assurdo, perché negato dalla scienza, dal diritto o dalla religione, diventa possibile. Certezze che erano parte indiscutibile del nostro bagaglio di verità vengono declassate ad inganni, bugie, in una deriva complottista che testimonia quanto sia radicato il senso di persecuzione. Quello che l’immaginazione produce in un simile contesto, è la ricerca di una sintesi che lavori su due livelli: l’individuazione del male e di una figura salvifica. Possiamo fare riferimento al secondo libro della Peste di Tucidide per capire meglio questo passaggio: in un brano del capitolo 53 l’autore non solo associa l’epidemia alla perdita dell’ordine, ma la descrive come la causa primaria di un desiderio di sottomissione all’autorità che si fa sempre più pressante. Le fake news e l’irrazionalismo imperante si inseriscono a pieno titolo in una tradizione che interpreta la politica come fenomeno fondato sulla ricerca di una narrazione che legittimi la voglia di obbedire ad un condottiero, a qualcuno che polarizzi il disordine indicando colpevoli e capri espiatori. La notizia falsa nasconde le debolezze, ci toglie dall’imbarazzo di doverci definire fragili, ci culla nella credenza che persino la morte sia solo un incidente dovuto alla malevola volontà di qualcuno. L’emotività è tutto in questo percorso, il pensiero magico parla il linguaggio dello stomaco e della pancia, il linguaggio dell’urgenza. La fake new non ha a che fare solo con l’ignoranza, sarebbe troppo semplice se fosse così, essa ci corrisponde nel senso etimologico del termine, ci viene letteralmente incontro, come un caro amico, come un consigliere fidato a cui affidarci senza remore. Seguendo l’interpretazione di Ginzsburg, persino in Hobbes la creazione del contratto non potrebbe avvenire al di fuori di un contesto di questo tipo, di una dimensione in cui l’angoscia produca l’immaginazione di una forma di potere in grado di trasformare la violenza in forza costruttiva. Il problema è che le dinamiche del consenso intrinseche alle comunità social, sembrano rendere impossibile la creazione di un momento di sintesi in grado di dar vita ad un’entità ordinatrice come il Leviatano, un’istituzione che sappia monopolizzare un conflitto parcellizzato e diffuso. Il rischio è che la voglia di un condottiero non produca altro che l’avvicendarsi di cavalieri di latta usa e getta, di una classe dirigente con la solidità e la durata di un post, amplificando così a dismisura l’angoscia e la ricerca di capri espiatori.

Quello che Canetti definisce «il timore di essere toccati»[22], la percezione che qualcosa o qualcuno ci minacci, torna a dettare legge svincolata dalle rassicurazioni che in millenni di metamorfosi della paura eravamo riusciti a costruire. La crisi indifferenziatoria, che Girard pone come condizione necessaria per l’avvento della vittima, assume una valenza strutturale che il sacrificio non riesce più a pacificare: il capro espiatorio perde la sua ambivalenza venendo meno alla propria funzione salvifica. Immolare diventa un gesto bulimico, una necessità che produce dipendenza. L’espulsione del male non garantisce pace e serenità durature, per il semplice fatto che non può più essere né unanime, né organizzato ritualmente. Le masse aizzate diventano mobili e trasversali, si formano e si sciolgono con una velocità fino ad ora sconosciuta, in una ordalia di violenza senza precedenti. Quello che non cambia sono le categorie vittimarie: al centro dei discorsi d’odio ci sono sempre stranieri, ebrei, donne, omosessuali, lesbiche e transessuali, senza dimenticare che nessuno può sentirsi al sicuro in un contesto così labile, basta infatti un piccolo passo falso perché chiunque possa essere esposto alla pubblica gogna senza possibilità di appello.

Ma che fine fa la politica in un simile contesto? Se il dibattito parlamentare, e con esso la possibilità di sublimare il conflitto con il voto, si sposta dalle aule parlamentari al web, la democrazia rappresentativa rischia non solo di perdere il senso della propria esistenza, ma di favorire essa stessa l’emergere di populismi in grado di polarizzare il consenso di cittadini sempre più inclini ad identificare il potere con la libertà di fare male a qualcuno. E non si tratta nemmeno più di scegliere tra destra e sinistra, o di schierarsi contro il riaffermarsi di forme di autoritarismo totalitario, ma di fare i conti con l’emergere di un modello sociale talmente affamato di violenza da non poter essere saziato.

Canetti, nel capitolo di Massa e Potere “Sulla Psicologia del mangiare”, scrive che: «tutto ciò che viene mangiato è oggetto di potere. L’affamato si sente vuoto, e riempiendosi di cibo vince il malessere cagionatogli da quel vuoto interno[23]». I social prima di essere luoghi di paura sono luoghi di una solitudine affamata, spazi dove la competizione mimetica consuma rivalità con la stessa voracità con cui genera capri espiatori.

[1] Hillman James, Il mito dell’analisi, trad. A. Giuliani, Edizione digitale Adelphi, Milano 2014, p. 465.

[2] René Girard, Il capro espiatorio, trad. C. Leverd e F. Bovoli, Aldelphi, Milano 1987, p.30.

[3] Ivi, pp. 32, 33.

[4] Ibidem

[5] F. Nietzsche, Genealogia della Morale. Uno scritto polemico, trad. F. Masini, Adelphi, Milano 1989, p. 121.

[6] Tinbergen, Nikolaas, Lo studio dell’istinto, trad. I. Blum, Adelphi, Milano 1994.

[7] Cfr. Elias Canetti, Massa e Potere, trad. F. Jesi, Adelphi, Milano 1981.

[8] F. Nietzsche, Genealogia della Morale. Uno scritto polemico, cit. p.60.

[9] Cfr, P. Zimbardo, L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?, trad. M. Botto, Raffaello Cortina Editore, Milano 2008

[10] R. Girard, La violenza e il sacro, trad. O. Fatica, E. Czerkl, Adelphi, Milano 1980, p. 194

[11] Ibidem

[12] J.M. Ourhourlian, Il terzo cervello. La nuova rivoluzione psicologica, trad. A. Folin, Marsilio Editore, Venezia 2014, p.31

[13] Cfr.H.F, Accounting for Genocide: National Response and Jewish Victimization during the Holocaust, Free Press, New York 1979.

[14] Ivi, p. 6

[15] Ivi, p. 8

[16] Ivi, p. 5.

[17] Cfr, P. Zimbardo, L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa? trad. M. Botto, Raffaello Cortina Editore, Milano 2008

[18] R. Girard, La violenza e il sacro, trad. O. Fatica e E. Czerkl, Adelphi, Milano 1980, pp. 209, 208.

[19] Cfr. R. Escobar, Il silenzio dei persecutori, ovvero il Coraggio di Shahràzad, Il Mulino, Bologna 2001.

[20] T. Hobbes, Leviatano, trad. A. Lupoli, M.V. Predaval, R. Rebecchi, Laterza, Roma-Bari 1989.

[21] Cfr. L. Alfieri, La paura e la città, in AA.VV. Simboliche dello spazio. Immagini e culture della terra, a cura di E. Cuomo, Guida, 2003.

[22] E. Canetti, Massa e Potere, cit., p. 17.

[23] Ivi, p. 263

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