IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Nuove regole fiscali europee, c’è di che preoccuparsi

La revisione del Patto di stabilità proposta dalla Commissione, sancendo esplicitamente il modello di governance delle riforme strutturali in cambio di flessibilità, non può non preoccupare chi guarda con timore allo svuotamento del ruolo della politica nazionale.

Dalla sua adozione a oggi, il patto di stabilità e crescita è stato oggetto di modifiche, integrazioni e correzioni. L’ipotesi di una sua riforma più radicale era maturata negli anni precedenti la crisi pandemica, con la pubblicazione di una serie di proposte da parte di gruppi di economisti e think tank nonché da parte dello European fiscal board, organo consultivo della Commissione. L’iter che porterà a un nuovo sistema di regole sta ora giungendo a maturazione e presumibilmente vedrà un’accelerazione nei prossimi mesi: la riattivazione del patto di stabilità, sospeso nel 2020, in piena pandemia, per effetto del ricorso alla clausola generale di salvaguardia (general escape clause), è infatti previsto per il 2024 e le norme in essere sono considerate inadeguate a guidare le scelte in questa difficile fase.
Un passaggio cruciale per comprendere quale sarà il punto di caduta del confronto nelle istituzioni europee è la comunicazione della Commissione del 9 Novembre 2022. Mancano certo alcuni dettagli tecnici e, si sa, gli aspetti tecnici hanno spesso un ruolo cruciale in questa materia. Tuttavia, ce n’è abbastanza per formulare una valutazione preliminare, per cogliere la filosofia di fondo del nuovo patto di stabilità e commentare anche qualche aspetto più specifico.

I limiti delle regole fiscali vigenti (e, per ora, sospese)

È opportuno innanzitutto ricordare le ragioni per le quali si è ritenuto, anche prima dei recenti shock economici, che il patto dovesse essere riformato. Su questa necessità si è vista la convergenza di esigenze in verità diverse, se non addirittura contrapposte.
Schematizzando, possiamo dire che, dal lato dei paesi ad alto debito, le critiche si sono concentrate sull’onerosità dei vincoli, sulla difficoltà di rispettarli senza determinare conseguenze pesanti per la crescita e per la capacità di garantire la coesione sociale. Su questo versante si è puntato il dito contro gli effetti prociclici che un’adesione ai vincoli fiscali avrebbe comportato, nonché sulle implicazioni a volte paradossali derivanti dall’ancoraggio degli obiettivi di bilancio a variabili come l’output gap o il NAWRU (non-accelerating wage rate of unemployment), concetti la cui inadeguatezza in presenza di fasi recessive prolungate è stata ripetutamente evidenziata.
Sempre dal lato dei paesi “prodighi”, si rilevava inoltre come la mancata distinzione tra spese correnti e spese in conto capitale nella definizione degli obiettivi di deficit finisse inevitabilmente per penalizzare la spesa per investimenti, più facilmente rinviabile e quindi più frequentemente sacrificata dai governi negli anni dell’austerità. Una soluzione spesso indicata era l’adozione di una golden rule, ovvero di un vincolo al deficit limitato alle spese correnti, che avrebbe consentito ai governi di ricorrere al debito per le spese di investimento (ma i rigoristi opponevano sia la difficoltà di definire gli investimenti – l’istruzione è indubbiamente un investimento, ma anche spesa corrente –, sia il rischio che l’esclusione di un’intera categoria di spese potesse aprire una falla troppo pericolosa per la tenuta del vincolo).
Dall’altro lato, erano anche i paesi “frugali” a lamentarsi delle regole in essere. In questo caso il problema rilevato era l’eccessiva discrezionalità lasciata al livello politico: la mancanza di automatismi nell’apertura delle procedure di infrazione dei paesi poco disciplinati aveva determinato una scarsa credibilità delle regole stesse. L’ala rigorista denunciava anche l’eccessiva complessità del sistema di regole, visto che il ricorso a una batteria di vincoli e parametri non sempre coerenti rende meno identificabile il sussistere di una violazione. A ciò si aggiunga che le regole vigenti impongono di effettuare una valutazione complessiva (“overall assessment”) della situazione di ciascun paese, e questo introduce un elemento di vaghezza e discrezionalità che porta inevitabilmente la discussione su un piano politico. I tentativi di vincolare la decisione del Consiglio a maggioranze qualificate e ridurne gli spazi di discrezionalità (il Fiscal compact del 2012 si muoveva in questa direzione) si sono d’altra parte risolti nell’effetto opposto, quello di “politicizzare” la fase istruttoria da parte dalla Commissione.

Vuoi ricevere la nostra newsletter?

Privacy *

Newsletter

Privacy *

Ultimi articoli pubblicati