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cultura politica e costituzionale

IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

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IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Occidente, nazione e identità

Le Nuove indicazioni curricolari sono permeate da una opzione nazionalista e occidentalista. Ma l’identità collettiva non è un dato predefinito, è un compito da affrontare nel rapporto con l’alterità. La storia da disciplina a storia di fatti e il facile scivolamento dal noi e loro al noi contro loro.

L’emanazione delle Indicazioni curricolari rappresenta un atto di politica culturale e formativa. Rispetto a ciò, occorre ricordare il Quaderno 29 di Gramsci (1975): perfino la pubblicazione di un libro di grammatica va visto come un atto di politica culturale. Quando si modificano le Indicazioni curricolari siamo, perciò, in presenza di un cambiamento della politica culturale e formativa che riguarda la scuola. Può trattarsi di un semplice aggiornamento, nella continuità degli indirizzi di politica culturale. Oppure, di un loro mutamento, e quindi di una trasformazione dell’idea di scuola. In questo caso, siamo di fronte a questo secondo scenario. Le nuove Indicazioni orientano il curricolo secondo un’opzione ideologica precisa, nazionalista ed occidentocentrica.

Monocultura identitaria

Un’anticipazione della tendenza pedagogica nazionalista si era avuta col volume di Galli della Loggia e Perla, Insegnare l’Italia (2023). Perla è poi diventata presidente della commissione per le Nuove Indicazioni; mentre Galli della Loggia è stato nominato responsabile delle Indicazioni relative alla storia. Dalle posizioni espresse in tale volume emergeva già con chiarezza che l’aspetto sgradito delle precedenti Indicazioni curricolari del 2012 era quello dell’apertura interculturale del curricolo e del taglio critico ivi assegnato alle scienze umane e alla storia in particolare. Il senso di questi orientamenti era trasparente.  Le nostre società stanno progressivamente diventando multiculturali, e questa tendenza sembra inarrestabile. Pertanto, riconfigurare il curricolo in senso interculturale appare una necessità formativa ineludibile per preparare tutti i giovani (compresi quelli con retroterra migratorio) a vivere in una società connotata dalla complessità culturale.

Per rideterminare il curricolo in senso nazionalista, questi diventano ostacoli da abbattere. Ma “nazionalista” in quale senso? Nel senso del ruolo attribuito alla identità nazionale italiana entro il curricolo. In tale volume, infatti, questa identità veniva presentata come il cemento della coesione nazionale dello Stato, come il frutto della sua storia e della sua tradizione. In questo modo si prefigurava l’abbandono di una prospettiva interculturale a favore di una monoculturale identitaria. Inoltre, l’identità nazionale era indicata come l’asse formativo attorno al quale organizzare in maniera unitaria l’intero curricolo degli studi. Si potrebbe dire, come fondamento e coronamento dell’istruzione scolastica. Perciò, tale identità veniva proposta come il centro ordinatore dell’insegnamento dei vari saperi (almeno di quelli umanistici), e quindi come principio “interdisciplinare” (con uso generico e non calibrato di questo termine dal punto di vista epistemologico)

Rispetto a queste tesi – qui presentate in forma schematica – è però legittimo e opportuno avanzare alcune brevi considerazioni critiche.

Muoviamo, innanzitutto, dalla questione dell’identità personale e sociale, prescindendo dal suo profilo nazionale. Tale identità non è un dato predefinito rispetto al soggetto, bensì un compito che questi deve affrontare, e come tale costituisce un problema la cui natura tende a mutare storicamente (Erickson, 1963). Adempiere a tale compito richiede un’opera di costruzione psico-sociale, che si compie nel rapporto e nella tensione con l’alterità. Il fatto che oggi l’identità sociale tenda ad assumere un profilo culturale e come tale sia diventata una sorta di ossessione (Remotti, 2010) dipende essenzialmente dai processi di frantumazione sociale e di individualizzazione prodotti dalla società competitiva neoliberista (Bauman, 2003). La condizione di solitudine individuale e di spersonalizzazione spinge a cercare un fondamento alla propria identità personale nell’appartenenza a una comunità di qualche tipo. Un particolare tipo di comunità è la cosiddetta nazione.

La nazione non è un dato, è un processo

Veniamo allora all’idea di nazione. Rispetto ad essa si possono evidenziare due concezioni fondamentali: l’una essenzialista, costruttivista l’altra (Sorba, 2023). Secondo la concezione essenzialista, la “nazione” è una sorta di dato di natura, o se è di origine storica questa si perde nella notte dei tempi. Come tale, essa è un dato in sé che non richiede la consapevolezza da parte dei soggetti. Nella sua versione forte, questa concezione esprime una comunità di sangue (una omogeneità biologica) e quindi anche di destino. Per la concezione costruttivista, invece, la nazione rappresenta una costruzione politico-culturale di origine moderna. Essa non è, cioè, un’entità data e precostituita, bensì un’invenzione degli Stati in una certa fase storica (quella della cosiddetta nation building). Si tratta, cioè, di una rappresentazione culturale-ideologica per fidelizzare le masse verso lo Stato, ossia per promuovere la loro nazionalizzazione (Mosse, 2009). Come tale, la nazione è una comunità immaginata (Anderson, 2009), il cui immaginario è costruito attraverso la comunicazione sociale (a partire dalla stampa). Un immaginario in cui gioca un ruolo rilevante l’esistenza di pretese antiche tradizioni culturali, che spesso sono invece invenzioni piuttosto recenti (Hobswam, Ranger, 1987).

L’idea di nazione che circola nel testo di Galli della Loggia e Perla, pur non afferendo pienamente alla concezione essenzialista (Galli della Loggia è attento a rimarcare l’origine storica della nazione) tende però a condividere con essa l’ipostatizzazione di tale idea, che diviene comunque un dato consolidato e non un processo. Quindi, l’identità nazionale diviene un fondamento, qualcosa da cui si deve partire, anche sotto il profilo pedagogico.

Personalmente sono invece incline verso una concezione costruttivista: l’identità nazionale non emerge spontaneamente dalla storia, e non costituisce nemmeno un dato immediato del vivere in un certo Stato; piuttosto, essa rappresenta una costruzione culturale a scopi politico-egemonici. Presuppone, cioè, un’operazione egemonica da parte di gruppi sociali dominanti o che aspirano alla guida di un Paese.

Tuttavia, è vero che negli ultimi lustri è cresciuto un senso comune innervato da motivi identitari nazionalisti. Come si è già detto, di fronte alle paure e allo smarrimento provocati dalla ristrutturazione mondiale del capitalismo, rispetto alle ansie e alle angosce generate dal regime di competizione continua promosso dal neoliberismo, si cerca rifugio e sicurezza nell’illusione identitaria, nel senso d’appartenenza a una qualche comunità. La critica delle concezioni essenzialiste dell’identità nazionale, almeno per il momento, non è perciò riuscita a incidere in modo significativo sul senso comune.

Noi e loro, noi contro loro

Torniamo, però, alla questione del curricolo. Una volta ipostatizzata l’identità nazionale come un esito spontaneo della storia, la si può usare per curvare il curricolo in senso nazionalista e monoculturale (vs. interculturale). In questo modo, però, si ignora (o si finge di ignorare) che enfatizzare l’identità nazionale non ha soltanto un valore distintivo, ma è utilizzabile in senso antagonistico contro il diverso. Si rischia, cioè, di scivolare con facilità dal noi e loro al noi contro loro. Si ignora (o si finge di ignorare) che questo è il tipo di uso politico dell’identità nazionale che appare già in atto in rapporto alla problematica dei flussi migratori. Si ignora (o si finge di ignorare) il pericolo che questo possa portare all’odio per i diversi e alla xenofobia.

Da queste sommarie considerazioni emergono forti dubbi circa un curricolo che elegga l’identità nazionale italiana a fondamento e coronamento del percorso di istruzione. Piuttosto, va riaffermato che questo fondamento-coronamento può essere rappresentato soltanto dal complesso di valori che innervano i principi della Costituzione.

Occidentrismo

Come si diceva, questo volume rappresenta l’antecedente per comprendere l’orientamento ideologico delle Nuove indicazioni, unitamente all’intervista rilasciata lo scorso 15 gennaio 2025 al Giornale dal ministro dell’Istruzione e del merito, on. Giuseppe Valditara. In tale intervista, tra le oltre cose, si leggeva: «verrà abolita la geostoria nelle superiori e ridata centralità alla narrazione di quel che è accaduto nella nostra penisola dai tempi antichi fino ad oggi». E poco più avanti si spiegava che «l’idea è quella di sviluppare questa disciplina come una grande narrazione, senza caricarla di sovrastrutture ideologiche, privilegiando inoltre la storia d’Italia, dell’Europa, dell’Occidente». Si annunciava così un curricolo dal profilo chiuso ed etnocentrico, in evidente contraddizione con la dichiarata volontà di evitare di caricare la storia di sovrastrutture ideologiche.

Il documento delle Nuove indicazioni relativo alla scuola dell’infanzia e al primo ciclo di istruzione ha poi visto la luce nello scorso mese di marzo, in una versione che reca come sottotitolo Materiali per il dibattito pubblico, e che si presuppone quindi ancora provvisoria. La prospettiva etnocentrica e identitaria formulata dal volume di Galli della Loggia e Perla, e annunciata dall’intervista del ministro, vi trova una sostanziale conferma, assumendo la forma di una evidente ispirazione occidentocentrica.

A differenza degli ultimi testi curricolari, non si cita mai il carattere multiculturale che la nostra società sta sempre più assumendo, particolarmente nelle aree metropolitane. Troviamo, invece, una serie di affermazioni circa la superiorità dell’Occidente sulle altre culture, che vengono così implicitamente inferiorizzate. Nel paragrafo su Scuola e nuovo umanesimo si legge che «La libertà è il valore caratteristico più importante dell’Occidente e della sua civiltà sin dalla sua nascita, avvenuta fra Atene, Roma e Gerusalemme». Detta in questi termini, si tratta di un’affermazione di sapore ideologico. Certamente, la libertà è un valore importante nella modernità dell’Occidente, ma che sia tale fin dalle sue origini è quanto meno discutibile. Evidentemente, si dimentica che Atene e Roma furono società schiavistiche. L’eleutheria, la libertà dei cittadini ateniesi di partecipare alla vita pubblica riguardava una minoranza di individui adulti di sesso maschile, ne restavano escluse le donne, gli schiavi e gli stranieri residenti in città (i meteci). Inoltre, si trascurano i rapporti di servitù che caratterizzarono il Medioevo. Solo con la modernità, con l’illuminismo e il liberalismo, l’Occidente ha iniziato veramente a mettere a fuoco il valore della libertà. E non senza gravi contraddizioni (Losurdo, 2005). Basta ricordare la tratta degli schiavi neri dall’Africa verso le colonie americane dell’Inghilterra; il massiccio impiego di tali schiavi nelle piantagioni americane; l’assoggettamento coloniale di vaste aree del mondo da parte dell’Occidente; il razzismo biologico e culturale praticato verso le popolazioni di tali colonie, e perdurato anche in epoca post-coloniale. La vicenda dell’affermazione della libertà come valore universale ha un carattere complesso, tortuoso e conflittuale, che ha visto avanzamenti e ripiegamenti, e che è tutt’ora in corso. E in questa vicenda l’Occidente ha sia meriti che colpe. Rimuovere quest’ultime per proclamare la superiorità culturale ed etico-politica l’Occidente è un’operazione meramente ideologica. Qual è il suo senso? Cercheremo di rispondere più avanti. In ogni caso, sarebbe piuttosto preferibile affermare qualcosa del tipo che la libertà è una aspirazione di tutti gli esseri umani, un valore la cui realizzazione richiede l’impegno costante di tutti. Lo stesso si può dire per l’asserzione che segue poco dopo: «Capire che cosa è la libertà […] agevola la comprensione di cosa sia una democrazia occidentale» (c. vo mio), dove non si comprende la necessità e il senso di quella specificazione. Non bastava semplicemente “comprensione di cosa sia la democrazia”? O, meglio ancora, “cosa sia una democrazia costituzionale”? (Ferrajoli, 2016).

Solo l’Occidente conosce la storia…

La questione trova un prolungamento significativo nel capitolo riguardante la Storia. Tale capitolo si apre con un’asserzione icastica: «Solo l’Occidente conosce la storia» (c. vo mio), per poi precisare che «Altre culture, altre civiltà hanno conosciuto qualcosa che alla storia vagamente assomiglia […] Ma quell’inizio è ben presto rimasto tale, ripiegando su sé stesso e non dando vita ad alcuno sviluppo». Anche queste sono affermazioni quanto meno problematiche e difficilmente giustificabili. Gli studi postcoloniali hanno criticato posizioni simili, argomentando che sono state usate per svalutare altre civiltà e legittimare così il dominio coloniale, definendo le altre culture come arretrate (Hall, 2006). Siamo perciò in presenza di idee eurocentriche, che fanno parte della narrazione sulla superiorità culturale dell’Occidente (Said, 2003). Tale posizione prepara la limitazione della storia da trattare all’ambito occidentale: alla storia dell’Europa e degli Stati Uniti, e al particolare riguardo per la vicenda nazionale italiana, «al fine di far maturare nell’alunno la consapevolezza della propria identità di persona e di cittadino».  Come si è detto, questa preoccupazione per la formazione all’identità nazionale italiana era già stata esplicitamente dichiarata da Galli della Loggia, coordinatore per la storia, nel volume Insegnare l’Italia (2023), scritto insieme al Presidente della Commissione Loredana Perla. Rimane, pertanto, esclusa la trattazione della storia di aree extra-occidentali. Si tratta, però, spesso delle aree di origine delle famiglie di scolari con retroterra migratorio. Ma per tali scolari si hanno le idee chiare: data la loro presenza, l’insegnamento della storia nazionale italiana ha anche il fine di «favorire l’integrazione di questi ultimi, integrazione che dipende anche, in modo determinante, dalla conoscenza dell’identità storico-culturale del paese in cui ci si trova a vivere». In altre parole, questi scolari – appartenendo a culture che non conoscono cos’è la storia – non hanno bisogno di capire il quadro storico in cui si è collocata la loro vicenda. Basta che studino la storia italiana ed europea per potersi integrare nella nostra società. Qual è il senso di questa ripetuta affermazione della superiorità culturale dell’Occidente? Perché definire implicitamente come inferiori le altre culture e civiltà? Sarebbe questo il “nuovo umanesimo”? La risposta va vista nel significato programmatico di queste asserzioni, e in particolare nel quadro di integrazione che tende ad emergere, che pare concepito in senso meramente assimilazionista. Infatti, gli assunti sono che noi sappiamo cosa sono la storia, la libertà, la democrazia; loro no. Ossia, noi non abbiamo nulla da imparare; loro hanno tutto da imparare da noi. A partire da questi assunti, l’integrazione degli scolari con retroterra migratorio può essere solo di tipo assimilazionista. Tale integrazione consisterà, cioè, nell’assimilare la nostra cultura e nell’assimilarsi ad essa. Una prospettiva che si è già mostrata fallimentare nell’esperienza delle società multiculturali. Se l’aspetto cardinale dell’intercultura è rappresentato dal riconoscimento dell’altro (Taylor, 2002), la tendenza che emerge rischia di cadere in un suo disconoscimento. E questo potrebbe essere un serio problema per la futura coesistenza multiculturale. Eppure, nel paragrafo su Scuola e nuovo umanesimo, a un certo punto si scrive che “il senso del limite aiuta a evitare la deriva della hybris, della tracotanza”. Questa indicazione dovrebbe essere applicata ai passaggi testuali che abbiamo citato. La tracotanza etnocentrica di cui grondano dovrebbe essere emendata.

La storia ridotta a storia di fatti

Per quanto riguarda l’insegnamento della storia (vero nervo scoperto di tutta l’operazione), a quanto detto si aggiungono perplessità di natura epistemologica e didattica. Sebbene si tratti di una questione sulla quale si devono pronunciare prima di tutto gli studiosi della storia, anche dal punto di vista pedagogico generale si possono manifestare fondate preoccupazioni, data l’importanza che riveste questo insegnamento per la formazione dei futuri cittadini. Infatti, orientando il curricolo in senso nazionalista ed etnocentrico, si tende a piegare l’insegnamento della storia a uno scopo ideologico. Ma in questo modo, si compromette il carattere scientifico dell’insegnamento di questa disciplina, e quindi il suo autentico valore formativo. Inoltre, si devono evidenziare perplessità di carattere propriamente didattico. Concesso che la storia implichi la narrazione degli eventi, il suo insegnamento è riducibile a tale narrazione? L’impressione è che si intenda tornare alla vecchia concezione della storia come “materia”, anziché proporla nella sua veste di disciplina scientifica. Vedere la storia come materia, come mero contenuto, prelude a un insegnamento trasmissivo e nozionistico, ridotto a una galleria di eventi e di eroi (soprattutto nazionali), e magari indirizzata verso sentimenti patriottici. Significa strizzare l’occhio alla parte più conservatrice del mondo della scuola. L’insegnamento della storia come disciplina scientifica, invece, implica che non si proponga soltanto un racconto, ma si lavori per favorire la comprensione di come si costruiscono in modo fondato i racconti sul passato e sul mondo. Ciò richiede una introduzione al metodo storico, alla pratica della ricerca storica, certamente partendo dalla propria realtà locale per poi allargare progressivamente lo sguardo. Ovviamente, non si tratta di formare piccoli storici, ma cittadini critici, consapevoli del carattere costruito e prospettico delle narrazioni storiche, e quindi resi avvertiti rispetto all’uso pubblico della storia che oggi circola di continuo sui media, non di rado in forme strumentali.

Legittimare una storia ridotta a mera narrazione, come avevano già fatto Galli Della Loggia e Perla nel loro libro Insegnare l’Italia, asserendo che «la mente del bambino non può che essere ricettiva soprattutto a storie di fatti» (p. 48), significa rinunciare a priori a stimolare la crescita intellettuale del bambino. Adagiarsi su una sua supposta inclinazione, invece di proporsi di formare gli atteggiamenti mentali coerenti con la logica della disciplina storica, come dovrebbe fare la scuola. Come scriveva Rodari, nella sua Grammatica della fantasia, il vero rischio educativo è quello di sottovalutare le capacità delle bambine e dei bambini.

Concludendo, le Nuove Indicazioni sembrano gravate da un pesante fardello ideologico. Preannunciano un’idea di scuola in cui la conformazione a una visione etnocentrica tende a prevalere sulle istanze di formazione scientifica. Annunciano un’istruzione che abdica all’ideale dello sviluppo di un’autentica autonomia di pensiero di tutti i futuri cittadini.

Riferimenti bibliografici essenziali

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