Quali sono le ragioni alla base della scelta, compiuta dall’associazione “Patria e Costituzione” e dalle riviste di cultura politica “La Fionda” e “Fuoricollana.it”, di riproporre per il terzo anno consecutivo, quale epicentro della scuola di politica, l’analisi dello scenario internazionale?
L’urgenza di nuove decisioni
L’interpretazione del nesso nazionale-internazionale è fondativa e distintiva delle soggettività politica. È l’eredità più feconda degli “ordinovisti” di Torino, in primis Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti. Ma, oltre al dato strutturale, vi è un dato “congiunturale”. Tale nesso, sempre centrale, oggi è ancora più rilevante. Perché? Lo riassume efficacemente Wolfgang Streeck nel suo ultimo saggio (Globalismo e democrazia. L’economia politica del tardo neoliberismo, Feltrinelli 2024): «Molto prima della pandemia e della guerra in Ucraina, la marcia verso una dottrina economica globale, politicamente immune alla democrazia e programmaticamente svuotata di dimensione politica per mano dello Stato, si è interrotta; al suo posto è cominciata la ricerca di un’alternativa che, secondo alcuni non esisterebbe, ovvero una rifondazione della politica, ridotta sotto il regime globalista a una semplice valvola delle forze di mercato governata dallo Stato». Siamo dentro una fase di transizione, post neoliberista e post globalista: «la crisi a lungo maturata … dell’ordine internazionale di tipo occidentale ha messo il mondo di fronte all’urgenza di nuove decisioni».
“Nuove decisioni”. Proprio così. L’interruzione della lunga marcia della regolazione neoliberista, cominciata dalla fine degli ‘70 e proseguita con una dirompente accelerazione dopo l’89, è definitiva. Non è una pausa. Il mondo unipolare Made in USA non ha retto l’ascesa di altri grandi attori regionali e planetari: non soltanto la Cina, l’India, il Brasile, la Corea, l’Arabia Saudita, soltanto per citarne alcuni. Anzi, il mercato senza confini, l’Economia senza Politica, preterintenzionalmente, l’ha favorita con i movimenti no borders di capitali, merci, servizi e persone. Dopo quattro decenni, è venuta fuori una scomoda verità: un’unica dottrina planetaria de-nazionalizzata, quindi de-democratizzata, affidata al “libero mercato”, alla governance globale e alla tecnocrazia, è intrinsecamente insostenibile, in quanto ingovernabile e radicalmente squilibrata sul versante sociale e umiliante sul piano antropologico.
La pandemia da Covid-19 e la guerra in Ucraina sono, al tempo stesso, conseguenza e suggello dell’insostenibilità di tale dottrina. Da tempo, fin dalla “Grande recessione” del 2007-2008, è evidente, a partire dai due epicentri della rivoluzione neoliberista, gli Stati Uniti con l’elezione di Trump alla Casa Banca e il Regno Unito con la Brexit, il ritorno della Politica, quindi dello Stato, a protezione delle società. In sintesi, siamo entrati in un nuovo tornante Polanyi.
L’illusione di un “ordine della guerra”
In tale quadro, proviamo a capire quali scenari si prospettano. Le forze e gli interessi impegnati per la centralizzazione imperiale, fallito il tentativo di legittimarla attraverso un crescente benessere economico per le classi medie, tentano la via militare? Puntano ad una ricostruzione della guerra “fredda-calda”, come scrive Antonio Cantaro, con la Cina nelle vesti dell’Unione Sovietica? Oppure, le parti più consapevoli e realiste delle classi dirigenti occidentali, i settori più intelligenti – quindi “generosi”, nel senso richiamato da Salvatore Minolfi – riconoscono la multipolarità del pianeta e si cimentano nella tessitura di un regime multilaterale, dove sistemi regionali di Stati, senza eccessive gerarchie al proprio interno, cooperano e edificano le condizioni necessarie per proteggere le classi medie e gli interessi del lavoratore?
I segnali arrivati negli ultimi anni, in particolare dai governi dell’Europa, non sono confortanti. Di fronte a una Storia in grado di fare a meno dell’egemonia occidentale, la “Storia senza l’Occidente” (ancora, efficacemente, Cantaro), l’Occidente appare senza Storia, senza la capacità di storicizzare la sua plurisecolare, ma non eterna, centralità. A causa della quarantennale fase di de-politicizzazione dell’economia, teorizzata e praticata, le classi dirigenti occidentali e, in particolare, quelle europee sembrano aver perso consapevolezza della natura degli eventi e dei compiti della Politica. Da Washington, si tenta di sostituire il controllo globale tentato con il mercato senza confini, con un illusorio ordine della guerra.
Dalla storia alla propaganda
Il fronte negli Stati Uniti è sostanzialmente bipartisan. In tale scenario, dalla Casa Bianca, Democratica o Repubblicana che sia, si punta a fare dell’Unione europea il “dipartimento civile della NATO globale” per fronteggiare le sfide poste dalla Cina e dalla Russia. La “resistenza” dei protagonisti del global south, aggregato variegato e disallineato per costituzione, ad arruolarsi nel campo occidentale è rappresentata e affrontata come un illegittimo vulnus al “diritto internazionale”, inteso come a-storico, naturale. Rimossa la Storia, l’analisi degli accadimenti viene sistematicamente piegata alla propaganda. Domina il presente assoluto. Così, la guerra per procura della NATO in Ucraina incomincia il 24 febbraio 2022 in conseguenza dell’invasione, “non provocata e ingiustificata” delle forze militari russe. In medio oriente, prima del 7 ottobre 2023, la martoriata area tra il fiume Giordano e il mare Mediterraneo era pacificata e il massacro senza fine del popolo palestinese a Gaza e in Cisgiordania è una inevitabile conseguenza collaterale del “diritto di Israele a difendersi”, dopo il pogrom del 7 ottobre nei Kibbuz a confine con “la Striscia”.
L’Europa, tra warfare e welfare
Nei primi panel della scuola proveremo ad indagare in che misura siamo prossimi alla “Terza guerra mondiale” e il senso del controcanto “pacifista” solitario, almeno in Occidente, della Chiesa di Roma nel decennio di Papa Francesco. Poi sposteremo il focus proprio sulla fine degli Stati Uniti come “impero globale” alla vigilia delle elezioni presidenziali.
Da qui, arriveremo alla lettura della vicenda europea o, meglio, degli orientamenti prevalenti nelle principali nazioni dell’Unione europea. Siamo al bivio: tra warfare e welfare. Nonostante tutto, vogliamo esserlo. Con l’ottimismo della volontà, proponiamo una rotta alternativa a quella affidata dai principali governi e opposizioni del Continente alle spregiudicate mani di Ursula Von der Leyen, rieletta alla Presidenza della Commissione, subito dopo il voto a Strasburgo da parte di Popolari, Socialisti, Liberali, Verdi e Conservatori meloniani di una risoluzione per la continuazione della guerra in Ucraina.
Di primaria importanza per la strada da percorrere è il rapporto con gli Stati Uniti, in particolare la relazione tra Ue e NATO. Anche qui riprendiamo un passaggio dell’analisi contenuta nel citato lavoro di Streeck: «decisivo in tal senso è probabilmente anche il rapporto che gli Stati Uniti vorranno o dovranno consentire all’Europa occidentale di avere con Russia e Cina. Non mancano in Europa occidentale le forze che vedrebbero con favore un ammorbidimento delle tensioni con la Russia, anche dopo gli orrori della guerra in Ucraina. … Oppositori di una tale politica sono gli Stati dell’Europa orientale».
Insomma, per andare al nodo concreto: l’ulteriore allargamento ad Est, dall’Ucraina, alla Moldavia, alla Giorgia, ai Balcani, consegnerebbe l’Ue alla sostanziale irrilevanza politica, funzionale in ambito atlantico alla disperata difesa del primato degli USA. Insomma, un grande e sempre più feroce mercato di svalutazione del lavoro e di impoverimento della democrazia. Invece, un’Europa orientata a rigenerare il welfare, organizzata come cooperazione di democrazie nazionali sovrane, nel senso di dotate di un margine di autonomia nell’interpretazione del “vincolo esterno”, dovrebbe maturare soggettività politica e attuare la sua distintiva vocazione di porsi come ponte tra Occidente e Oriente e tra Nord e Sud del pianeta per un ordine globale multilaterale.
Progressismo senza storia. È tempo di dare una scossa
Purtroppo, le principali forze della sinistra politica, non soltanto ma soprattutto in Italia, tendono ad ignorare i condizionamenti del “sovranazionale” sul “nazionale”. Invocano, di continuo, liste della spesa sulle quali costruire convergenze nell’area progressista: dalla sanità, alle pensioni, dal potere d’acquisto delle retribuzioni, agli investimenti green socialmente sostenibili. Quando sono di fronte alla contraddizione tra vincolo esterno e vincolo interno, invocano ritualmente “gli Stati Uniti d’Europa”, un obiettivo sempre a portata di mano in forza di qualche “funzionalismo”: prima era la moneta, poi la conversione ecologica, ora la difesa militare.
È costoso sul piano politico riconquistare quegli spazi di manovra che, nell’osservanza delle appartenenze di campo geopolitico, pur venivano difesi e agiti nella vituperata Prima Repubblica. Ad Agosto scorso, nel 70-esimo anniversario della scomparsa di Alcide De Gasperi e nel 60-esimo di quella di Palmiro Togliatti si è ricordato come entrambi maturarono la statura di statisti proprio per la capacità di var valere l’interesse nazionale tra Washington, Roma e Mosca. Al ruolo di Togliatti “rivoluzionario costituente” dedicheremo un panel con testimonianze di figure di spicco del “suo” PCI.
Per la costruzione di una credibile coalizione progressista, dalla parte della pace, del lavoro, della natura e del primato dell’umano l’unità antifascista non basta. È necessaria un’adeguata analisi della fase storica e una coraggiosa discontinuità di paradigma e di agenda. Proviamo a dare (darci) qualche scossa.