IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Patto di stabilità o dell’ostinazione?

Il non detto alla base di ogni proposta di riforma della politica economica sovranazionale è ingombrante e ne offusca la validità. È il non detto di un'Europa che ha rinunciato ad affrontare il nodo dell’integrazione politica e della solidarietà, accettando l’idea del mercato e della stabilità finanziaria quale orizzonte di senso della propria esistenza.

Quando l’ottimismo liberista degli anni Novanta si dissolse nelle recessioni dei primi anni Duemila, il Patto di Stabilità e Crescita iniziò a soffrire di una pessima reputazione. Non solo per l’Economist che, non certo per invidia, l’appellò con raffinato sarcasmo Patto di instabilità e depressione. Ma per le stesse grandi nazioni che l’avevano voluto. Francia e Germania rischiarono di inaugurare il millennio con una procedura per disavanzi eccessivi. La procedura non fu mai attivata, nonostante ne ricorressero i presupposti giuridici. In quella occasione, il Patto di Stabilità fu derogato dalle grandi potenze d’Europa senza alcuna conseguenza sul piano sanzionatorio.

Vent’anni dopo

Venti anni e parecchie riforme dopo, è stato necessario sospendere ufficialmente il Patto per evitare che la pandemia di Covid-19 si tramutasse nella peggiore catastrofe sociale di sempre. Nell’autunno 2021 la Commissione ha rilanciato il dibattito sul Patto di Stabilità e Crescita. Le consultazioni si sono chiuse il 31 dicembre 2021 . Prima dell’invasione russa dell’Ucraina.

Le regole di Maastricht

Le regole, all’inizio, erano chiare. Erano le regole di Maastricht. Pensate per un’Europa piena di fiducia, che si allargava e puntava al mercato unico. Un mercato dal volto benevolo e rassicurante, che ispirava l’Europa della deregolamentazione, delle privatizzazioni e della concorrenza. In una parola, l’Europa neoliberista. Da qualche parte, nel cuore dell’Europa, si avvicinava la guerra. Ma non quella guerra, non la guerra tra le nazioni che l’Europa aveva sperimentato cinquant’anni prima e che, si credeva, non sarebbe mai più tornata. Tanto meno sarebbe tornata la minaccia nucleare, trionfalisticamente sepolta sotto le macerie del Muro di Berlino.
Le regole erano chiare e servivano a evitare che il grande progetto di Maastricht fosse vanificato da governi irresponsabili: occorreva frenare i bilanci pubblici (regola del 3% del rapporto deficit/Pil); occorreva mantenere la sostenibilità dei debiti sovrani (regola del 60% del rapporto debito/Pil).
I valori numerici prescelti, si osservò dopo, erano privi di una base teorica definita. Il parametro del debito fu individuato, con ogni probabilità, fondandosi sul valore medio del rapporto tra debito e Pil nei paesi europei al momento della firma del Trattato. Nel 1997 le regole di Maastricht furono specificate dal primo nucleo del Patto di Stabilità e Crescita. Gli Stati avrebbero dovuto mantenere un saldo strutturale prossimo al pareggio nel medio termine, per consentire il rispetto dei parametri di convergenza.

Nel buio dell’austerità

Negli anni successivi il Patto fu rimaneggiato. Una prima volta nel 2005 e poi, con interventi ancor più massicci, nel 2011. Il risultato non fu certo il più brillante esempio di illuminismo giuridico. Saltarono fuori: la regola dell’Obiettivo di Medio Termine; la regola sul percorso di avvicinamento all’Obiettivo di Medio Termine (più stringente per i Paesi meno virtuosi); la stima dell’output gap, inteso come differenza tra il Pil reale e il Pil potenziale, per il calcolo del deficit strutturale; la regola sul percorso di riduzione del debito (più stringente per i Paesi meno virtuosi); la regola sulla evoluzione della spesa (più stringente per i Paesi meno virtuosi).

Keynesiani, per non morire

Opacità, sovrapposizione, oscurità delle disposizioni, incertezza nei metodi di calcolo delle variabili stimate sono solo alcune delle accuse che gli vennero mosse. Un affresco sorretto da un’idea basilare: la politica di bilancio degli Stati avrebbe dovuto reggersi sul principio dell’austerità, con buona pace dei keynesiani e della finanza pubblica funzionale.
Il Patto sancì il definitivo tramonto delle politiche di bilancio anti-cicliche e, per coloro che rimanevano indietro, per i meno virtuosi, le conseguenze sarebbero state drammatiche. Quanto all’Italia, nel 2012, in seguito alla firma del Trattato sul Fiscal Compact, il principio di equilibrio del bilancio fu scolpito nella Costituzione con la modifica degli articoli 81, 97, 117 e 119.
Nel 2015 la Commissione diffuse una comunicazione dal titolo: Making the best use of the flexibility within the existing rules of the Stability and Growth Pact. Un’ammissione di colpa implicita, un preludio a quel che in breve tempo sarebbe accaduto. Nel 2020 il Patto di Stabilità e Crescita fu sospeso per far fronte alle conseguenze economiche della pandemia. Se così non fosse stato, per dirla con Keynes, saremmo tutti morti.

Ostinazione e senso

Il Patto di Stabilità e Crescita ha funzionato? Per quali Paesi? Chi ha avuto maggiore interesse a mantenere in piedi le regole? Che effetto ha avuto il Patto di Stabilità e Crescita sulla crescita? Che effetto ha avuto sugli investimenti? E sulla distribuzione del reddito?
La storia accidentata del Patto, più volte violato e sospeso, ha mostrato la sua fragilità e l’ottusità nel perseguire obiettivi inadeguati alle realtà economiche meno solide. Questa forma di ostinazione non sembra dissolversi nemmeno oggi, nella nuova economia dell’Europa in guerra.
La proposta presentata il 9 novembre 2022 dalla Commissione prevede la cancellazione del famigerato percorso di riduzione del parametro del debito del 5% annuo, nonché la regola del percorso di avvicinamento all’obiettivo di medio termine mediante una riduzione annua dello 0,5% del disavanzo. Si prevede la definizione di piani personalizzati e concordati con Bruxelles, finalizzati alla riduzione del debito in un periodo variabile, compreso tra 4 e 7 anni a seconda del livello iniziale del rapporto debito/Pil. Il raggiungimento degli obiettivi avverrebbe mediante la riduzione progressiva della spesa netta annuale di ciascuno Stato. Nel periodo di aggiustamento, il rapporto con la Commissione funzionerebbe sul “modello PNRR”, con tanto di obiettivi intermedi da valutare e sanzioni rappresentate dall’inibizione dell’accesso ai fondi europei, compresi quelli del NGEU. La proposta ha già suscitato un acceso dibattito tra coloro che, come la Germania, ritengono eccessiva la flessibilità derivante dalla previsione di accordi bilaterali tra gli Stati e la Commissione, e coloro che, all’opposto, ritengono che le nuove regole conferirebbero un potere eccessivo alla Commissione in termini di sorveglianza e intrusione nelle politiche fiscali degli Stati. Il modello PNRR, si sostiene, con le costanti verifiche da parte della Commissione, è legittimato nel caso del NGEU dal finanziamento mediante debito comune, ed è accettato dai singoli Stati in nome di un meccanismo premiale rappresentato dai prestiti e dalle sovvenzioni. L’applicazione di siffatto modello ai debiti sovrani appare di difficile giustificazione. Non è neppure passata inosservata l’assenza dell’introduzione, da più parti auspicata, di una golden rule tesa a scorporare la componente degli investimenti dal calcolo dei parametri. In definitiva, le proposte per una modifica del Patto di Stabilità, per quanto maggiore attenzione venga data al tema degli investimenti e alla gradualità nel raggiungimento degli obiettivi, muovono dal medesimo presupposto economico e ideologico che fu alla base del Patto del ’97.
Ma l’Europa è un luogo ben diverso da quello che era venticinque anni fa.
Tre violenti shock, in particolare, hanno cambiato la fisionomia della sua economia. La crisi finanziaria globale, che ha investito l’euro nel 2011, la pandemia di Covid-19 e, infine, la guerra in Ucraina.
La concentrazione di tre eventi così catastrofici nell’arco di appena un decennio, sullo sfondo di una crisi climatica irrisolta, appare sorprendente e costringe a domandarsi se le regole pensate per il mondo di allora, regole di incerta validità, possano ancora funzionare nel mondo di adesso.
Il non detto alla base di ogni proposta di riforma degli strumenti di politica economica sovranazionale è ingombrante e ne offusca la validità. È il non detto di un Europa sovra-burocratizzata, che ha rinunciato ad affrontare il nodo dell’integrazione politica e della solidarietà, accettando l’idea del mercato e della stabilità finanziaria quale orizzonte di senso della propria esistenza.

Non si può cambiare il passato

Una sola cosa gli dèi di Atene non potevano fare: cambiare il passato. Solo a finalità d’analisi critica gioverà dire che l’integrazione economica non poteva funzionare senza integrazione politica. Nessuno potrà cambiare la storia e sostituire il Manifesto di Ventotene al Trattato di Maastricht.
Tuttavia, numerose e autorevoli voci potranno levarsi contro l’ostinazione.

Contro l’ostinazione

In questa direzione l’Europa già sperimenta una via diversa da quella tracciata dal Patto di Stabilità e Crescita. È la via della solidarietà finalizzata alla crescita sostenibile e digitale. Gli strumenti introdotti dopo il 2020, come le obbligazioni SURE e il Next Generation UE, sono segnali di quel che potrebbe diventare, nelle politiche di bilancio dell’Unione, se non una rivoluzione, quanto meno un mutamento di paradigma. A patto di rendere permanenti le logiche sono alla base di strumenti che, ad oggi, sono stati pensati e utilizzati in ottica solo emergenziale.
Il bilancio UE rappresenta oggi appena l’1% del Pil dell’intera Unione. I suoi limiti sono fissati dal Quadro Finanziario Pluriennale, approvato all’unanimità ogni sette anni con Regolamento del Consiglio, in accordo con il Parlamento europeo. Non si tratta di un dogma della fede. E non sono pochi a chiedere oggi un aumento della capacità fiscale dell’Unione e del suo potere di affrontare le difficoltà finanziarie dei suoi membri.
Con l’avvertimento che il modello della condivisione dei rischi, ammesso che sia introiettato e accettato dai “forti” e che divenga un modello operativo permanente, potrebbe non essere sufficiente a salvare il progetto europeo.
Il principio di solidarietà è tornato in auge nell’Europa disegnata dalla storia degli ultimi due decenni. Occorre rafforzarlo e occorre affrontare i nodi irrisolti – in primis quelli relativi alla democraticità delle sue istituzioni e alla disuguaglianza delle sue economie – lottare contro l’ostinazione che vive ancora negli interessi di pochi.

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