Non è una novità, ma il portato di alterni umori della politica e di una vicenda storica complessa. Basti guardare all’ultimo mezzo secolo, in cui la politica e il Paese sono cambiati fino ad essere irriconoscibili. Nei primi anni Settanta la sinistra guardava ai magistrati con diffidenza (o con aperta ostilità), fiorivano i manuali di autodifesa per militanti incappati nelle maglie della giustizia e Fabrizio De André cantava “Il giudice”, mentre la magistratura aveva il sostegno incondizionato della destra e delle varie maggioranze silenziose. A fine secolo e nei primi anni del nuovo millennio il quadro sembrava capovolto. La giustizia era tra i pochi temi capaci di mobilitare una sinistra smarrita, divisa e priva di idee e ad attaccare giudici e pubblici ministeri, con un accanimento a dir poco inconsueto, erano la destra e suoi paladini. Oggi, nella stagione della crisi, prevalgono -a destra e a sinistra – diffidenza e insofferenza, mentre l’immedesimazione (per lo più acritica) con giudici e tribunali caratterizza, paradossalmente, la principale forza antisistema (o almeno tale alle sue origini). Si tratta di mutamenti intervenuti non per caso né per bizzarria della storia ma all’esito di una stagione, per molti aspetti straordinaria, di elaborazione culturale, di passione civile, di tensione ideale ma anche di insufficiente attenzione alla cultura delle regole e delle garanzie e, per altro verso, di resistenze sorde e senza risparmio di colpi. Superfluo dire che la domanda resta quella di sempre, formulata sin dal titolo della prima rivista di Magistratura democratica uscita nel gennaio ‘70: quale giustizia?
Quando i giudici erano servi e strumento del potere.
A cosa servono i giudici (e, più in generale, i giuristi)? Gli studiosi non hanno dubbi. Se per il barone R.C. Van Caenegem «è innegabile che i giuristi siano spesso stati servi e strumento del potere, qualunque esso fosse», non meno esplicito è il grande storico del diritto inglese F. Maitland: «I giudici delle corti erano stati i servitori del re […]. Il re era la fonte di ogni giustizia; quelli non erano che i suoi deputati: era quella la teoria fondante del sistema, secondo la tradizione, ed era impossibile rompere con essa». E ad essi faceva eco, negli anni Cinquanta, un magistrato prestato alla letteratura come Dante Troisi che, nel Diario di un giudice (pubblicato nel 1955 per i tipi di Einaudi) scrisse: «Alle nostre spalle e di tutti gli altri giudici ora in funzione c’è il crocefisso e la scritta: “La legge è uguale per tutti”; domani, in luogo del crocefisso potrà esserci un’altra cosa, ma sarà ancora un simbolo del potere che ci proteggerà le spalle. Giacché noi siamo sempre da quella parte». Era questa l’impostazione, per quanto riguarda il nostro Paese, dello Statuto albertino che – concesso da Carlo Alberto nel 1848 – ha accompagnato la storia nazionale fino alla metà del Novecento: basta guardare al suo articolo 68, secondo cui «la giustizia emana dal Re, ed è amministrata in nome suo dai Giudici che Egli istituisce», con conseguente configurazione della giustizia, anche in termini istituzionali, come una semplice manifestazioni del potere regio e dei giudici, appunto, come servitori del re. Del resto, più in generale, il carattere sovrastrutturale del diritto e il ruolo servente suo e dei suoi operatori rispetto al potere economico-sociale è un classico del pensiero politico, di destra e di sinistra. E al modello teorico seguiva, allora, la prassi: nell’Italia liberale (quella descritta dai più come una sorta di “paradiso terrestre” in cui pubblici ministeri e giudici erano apolitici e circondati da generale considerazione) la maggior parte degli alti magistrati era di nomina governativa e frequenti erano i passaggi dall’ordine giudiziario al Parlamento e al Governo, tanto che, fra il 1861 e il 1900, metà dei ministri della giustizia (17 su 34) e dei relativi sottosegretari (11 su 21) proveniva dai ranghi della magistratura. Difficile, in quel contesto, attribuire ai magistrati un ruolo di garanti dei diritti e delle libertà.