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cultura politica e costituzionale

IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

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IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Quale Medio Oriente nel nuovo ordine mondiale

Ciò che è avvenuto in Medio Oriente negli ultimi 16 mesi potrebbe influenzare o alterare in modo significativo non solo il quadro geopolitico nella regione ma anche il processo di riassetto globale dei poteri e il progetto BRICS.

Il tema della crisi dell’occidentalizzazione del mondo e le prospettive di un possibile nuovo ordine mondiale multipolare sono due facce della stessa medaglia.

Nella misura in cui i Paesi occidentali ritengono che l’ordine mondiale possa essere concepito solo se guidato da loro stessi, con gli Stati Uniti ovviamente in posizione di leadership, e quindi tale ordine, o è unipolare o non è un ordine, è piuttosto scontato come gli stessi possano vedere come minimo con sospetto, se non addirittura aperta ostilità, il possibile emergere di un nuovo ordine mondiale multipolare.

L’ordine mondiale basato sulle regole è unipolarismo mascherato

Non è un caso che negli ultimi anni la semantica politica occidentale abbia utilizzato ad nauseam l’espressione “ordine mondiale basato sulle regole” (rules-based world order) rispetto a quella classica del “rispetto del diritto internazionale”. A prima vista potrebbero sembrare la stessa cosa, ma non è così.

L’ordine mondiale basato sulle regole è di fatto l’interpretazione e l’adattamento – con ampio ricorso a doppi standard – del diritto internazionale agli interessi delle democrazie occidentali che parte dal presupposto – ovviamente non esplicitato formalmente – che solo quest’ultime posseggano le qualità politiche ed etico-morali, in altri termini la legittimità, per poter concepire tali regole, applicarle e laddove necessario interpretarle e/o distorcerle o addirittura ignorarle secondo le loro necessità, interessi attraverso azioni od omissioni.

Senza scomodare Oswald Spengler, le più recenti avvisaglie di una crisi dell’Occidente vanno indietro nel tempo di qualche decennio. Secondo un filone interpretativo, affondano le proprie radici nell’accelerazione impressa dal neoliberalismo e dal trauma e dalle diseguaglianze prodotte da quest’ultimo, enfatizzate più recentemente dalla globalizzazione. Teorizzata negli anni 70’ del secolo scorso, applicata negli anni 80’ (Reagan e Thatcher) e fatta propria anche dalla Sinistra negli anni 90’ (Clinton, Blair &co), l’ideologia neoliberal (con l’alter ego di quella neocon, ideologicamente distinte ma entrambe finalizzate alla perpetuazione dell’egemonia occidentale) ha iniziato a scricchiolare all’inizio del XXI secolo.

Tuttavia, l’iniziale, travolgente, successo della globalizzazione ha svolto una funzione anestetica e di cortina fumogena rispetto alle crepe che tale/i modello/i presentava/no e ai problemi che si andavano generando; la principale delle quali è stata indubbiamente quella della finanziarizzazione dell’economia,deflagrata nella crisi del 2008, con le connesse politiche di austerità che hanno creato profondi problemi e divari sociali negli USA e in Europa, evidenziati anche dall’insorgere di fenomeni identitari e/o populisti con crescenti derive xenofobe nel vecchio e nuovo continente.

Le tre sfide all’egemonia occidentale

In parallelo, inizia un lento, incerto e sovente confuso tentativo di affrancamento dall’egemonia occidentale che vede una serie di protagonisti: i) la Cina, come nuovo volano della crescita economica globale a partire sempre dal 2008, e che ora manifesta una nuova assertività negli equilibri dell’Asia orientale, e dell’Eurasia più in generale con il grande progetto infrastrutturale della Belt and Road Initiative  (BRI), nonché nelle grandi partite tecnologiche proprie della Quarta Rivoluzione Industriale; ii) la Russia, che pretende una nuova architettura di sicurezza europea che contenga, quanto meno, l’ulteriore espansione a Est della NATO; iii)  infine, per il quadrante mediorientale, l’Iran che ambisce a ridefinire gli equilibri dell’area mettendo fine al ventennio della cosiddetta Pax Americana nella regione post 11 settembre 2001, approfittando sia dell’insuccesso iracheno che dell’umiliante ritiro dall’Afghanistan nel 2021. Un’ambizione che l’Iran ha portato avanti con il cosiddetto Asse della Resistenza (le milizie sciite filo-iraniane in Iraq e Yemen, la Siria fino al dicembre scorso sotto il controllo di Bashar Assad, e Hezbollah in Libano). Un disegno che è stato percepito come una minaccia per lo status e le ambizioni regionali turche, israeliane e delle monarchie ed autocrazie sunnite.

Questo tentato affrancamento che, in quanto tale si configura come una sfida all’egemonia occidentale ed alla leadership americana al suo interno, ha via via assunto una fisionomia pseudo-istituzionale centrata intorno ai cosiddetti BRICS e a formule di consultazione e di cooperazione politica, economica e finanziaria euro-asiatica quale la Shangai Cooperation Organization (SCO), l’Eurasian Economic Union (EUAU), la già citata BRI, l’Asian Infrastructure and Development Bank (AIIB), la New Development Bank (NDB) che fa capo ai BRICS e, infine, la Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), la più grande area di libero scambio varata dalla Cina in Asia Orientale.

Tali sviluppi, geopolitico e geoeconomico, presentano inoltre una potenziale ulteriore minaccia, soprattutto per gli Stati Uniti, nella misura in cui i BRICS decidessero di continuare l’attuale tendenza a ridurre l’utilizzo del dollaro come valuta di riserva per le transazioni commerciali internazionali; questo, infatti, complicherebbe la sostenibilità dell’astronomico debito statunitense, che, con gli attuali 36 trilioni di dollari, costituisce la vera minaccia esistenziale alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti.

Queste tre ambizioni, tese al contenimento e, idealmente, al superamento dell’egemonia occidentale, registrano un’accelerazione imprevista, e forse non deliberatamente pianificata, a partire dal Febbraio 2022 con l’intervento russo in Ucraina dopo il naufragio di un tentativo di intesa su una nuova architettura di sicurezza europea nel dicembre 2021; e, nell’Ottobre 2023, con l’attacco di Hamas, asseritamente concepito anche per fermare il rilancio della Pax Americana in Medio Oriente con gli Accordi di Abramo estesi all’Arabia Saudita caratterizzati dalla vistosissima omissione della soluzione della questione palestinese,come previsto da tali intese promosse dalla Presidenza  Trump fin dal 2020.

Fortunatamente, Stati Uniti e Cina hanno finora evitato che la loro competizione degenerasse sul teatro asiatico analogamente a quanto accaduto in Europa e Medio Oriente, attraverso un dialogo ad alto livello tra il Consigliere della Sicurezza Nazionale USA, Jake Sullivan, e il suo omologo cinese, Wang Yi. Questa interazione ha perlomeno avuto il pregio di gestire e contenere (ma non sappiamo ancora per quanto!) una relazione molto tesa e destinata comunque a caratterizzare pesantemente tutta la geopolitica del XXI secolo.

I recenti terremoti mediorientali

È indubbio che gli eventi susseguitisi in Medio Oriente negli ultimi 16 mesi, culminati nel crollo del regime di Assad in Siria nel dicembre scorso, sono quelli che hanno avuto un impatto maggiore e che potenzialmente potrebbero influenzare o alterare in modo significativo il quadro geopolitico nella regione nonché l’andamento del cosiddetto confronto tra democrazie occidentali e le cosiddette autocrazie orientali, come pure, il tentativo di affrancamento che ruota intorno ai BRICS.

Le operazioni militari israeliane a Gaza, Libano e Siria, in quest’ultimo caso unitamente a quelle indirette della Turchia hanno disarticolato – interrompendone la continuità geografico-logistica da Teheran fino a Beirut – l’Asse della Resistenza infliggendo quindi una seria battuta d’arresto alle ambizioni iraniane e alla cosiddetta Crescente Sciita,come pure, potenzialmente, alla presenza russa nella regione. Al momento, infatti, non è ancora chiaro il futuro delle basi militari russe in territorio siriano.

Quello che si profila in Medio Oriente è quindi un potenziale riassetto geopolitico simile a quello impresso dagli Accordi segreti Sykes-Picot del 1916 tra le due potenze coloniali franco-britanniche e dalla sequenza di Trattati di Pace successivi alla fine della Prima Guerra Mondiale. Israele, Turchia, e quel che resta del potere iraniano, si profilano come i principali attori nella definizione del futuro della regione con gli Stati Uniti sullo sfondo, pronti ad intervenire per riaggiustare gli equilibri laddove necessario, conferendo forse per la prima volta un significato concreto, ed ampliato, al termine “leading from behind” varato dall’Amministrazione Obama nel 2011 rispetto alla crisi in Libia. Monarchie ed autocrazie arabe restano nella posizione di attenti osservatori di dinamiche sulle quali hanno un’influenza ridotta (tranne forse il Qatar per il momento) e, potenzialmente, molto da perdere.

Un primo effetto ha avuto luogo in Libano. Dove Hezbollah, dopo i pesanti colpi subiti, ha firmato un cessate il fuoco e dato il via libera alla nomina di Joseph Aoun, il Capo dell’esercito, quale nuovo Presidente della Repubblica dopo un vuoto istituzionale protrattosi per due anni. Resta da vedere se questo sviluppo offrirà una nuova opportunità per restituire al Libano una governance decente che eviti il collasso definitivo del Paese, in particolare con la formazione di un Governo nella pienezza dei propri poteri per invertire la tendenza degenerativa in corso perlomeno dal 2019, ma in realtà da molto prima. Questo sarà il vero banco di prova per capire il futuro del Paese. Mentre questo articolo viene completato, al giurista Nawaf Salam, Presidente della Corte Internazionale di Giustizia, è stato conferito l’incarico di formare il nuovo Governo del paese e se la nomina del Presidente della Repubblica, fino a questo momento, è stata un’impresa difficile, il varo di un Governo nella pienezza delle sue funzioni lo sarà ancor di più.

Il possibile futuro della Siria

Parimenti rimane incerto il futuro della Siria dove, accantonate le designazioni terroristiche occidentali affibbiate a suo tempo ad HayatThariral Shamed al suo leader Ahamad al-Shara, meglio noto come Abu Muhammad al-Joulani, e ora Presidente ad interim del paese, si susseguono visite di delegazioni politiche a Damasco; dopo il duetto dei Ministri degli Esteri di Francia e Germania è stata la volta del nostro Ministro degli Esteri Antonio Tajani.

Allo stato attuale per la Siria si profila una coesistenza di aree di influenza turca lungo tutto il confine settentrionale del Paese e a ridosso di Aleppo, una curdo-statunitense nelle regioni orientali e nord orientali, una israeliana nella parte sud-occidentale a ridosso delle alture del Golan ma oltre la linea di demarcazione fissata dall’ONU nel 1974 dopo la Guerra dello Yom Kippur, e, infine, il controllo della zona centrale con la capitale Damasco e le altre città come Homs e Hama in capo a HTS ed al suo leader. A queste si aggiunge l’enclave alawita lungo le coste mediterranee del paese, una volta la roccaforte di Assad, nella quale non è ancora chiaro a che livello sia giunto il controllo dell’attuale Governo interinale del Paese.

Non è ancora chiaro se, e come, questa fragile coesistenza potrà protrarsi nel tempo e se potrà varare la cruciale ricostruzione del paese e gestire il rientro di milioni di profughi e sfollati nelle loro case o in quello che ne resta.

Quella che si profila per la Siria al momento è una “cantonalizzazione” del paese, contrassegnata da dinamiche potenzialmente deflagranti. Da una parte una possibile collisione tra la sfera di influenza turca e quella israeliana e, parallelamente, una ripresa del confronto pluriennale lungo i confini settentrionali del paese tra la Turchia e le milizie curde sostenute dagli Stati Uniti, con potenziali spazi di manovra che potrebbero riaprirsi per l’ISIS. In altre parole, un caleidoscopio che potrebbe avere effetti destabilizzanti nei paesi limitrofi. Non è un caso, infatti che l’Egitto e le monarchie del Golfo seguano con apprensione l’evoluzione – e la potenziale trasformazione – degli islamisti insediatisi a Damasco senza celare il timore di pericolosi contagi.

Per l’Iran una complessa equazione

L’Iran per il momento ha subito un duro colpo e ha preferito contenere le perdite. Plausibilmente, ripiegherà verso la strategia che riesce a condurre meglio, ovvero approfittare delle numerose contraddizioni che si profilano tra la moltitudine di attori che gli hanno inflitto la sconfitta: Turchia, Israele, USA e monarchie/autocrazie sunnite. Se poi la débâcle siriana porterà ad un regolamento di conti a Teheran lo vedremo nei prossimi mesi, anche se la leadership clericale iraniana è sempre stata piuttosto abile a lavare i panni sporchi in famiglia.

Resta poi una residua speranza – alimentata anche da crescenti indiscrezioni circa un informale quanto irrituale canale di dialogo che si sarebbe aperto tra Elon Musk e l’Ambasciatore iraniano all’ONU (che potrebbe aver influito anche nel felice esito della vicenda di Cecilia Sala) – che Trump sorprenda nuovamente tutti rilanciando un dialogo, anche se ci si interroga legittimamente su quali basi possa essere riaperto.

Gli interessi russi

La forza della posizione russa nella regione poggerà sulla capacità del Cremlino di mantenere le proprie basi militari in Siria a prescindere dal cambio di regime, ma soprattutto da un’eventuale convergenza di interessi con le monarchie del Golfo per contenere un possibile deriva islamista in Siria, coniugata alla collaborazione pragmatica instaurata da tempo nel settore energetico nel formato OPEC plus dove, Mosca e Riad soprattutto, riescono a decidere in larga parte il prezzo del petrolio sui mercati concordandone le quote di produzione. Si tratta di una leva che come noto, ha significativi riflessi economici negli Stati Uniti, in Europa e in Asia. Se la Siria dovesse soffrire di una deriva islamista tale da impensierire le monarchie sunnite del golfo e le altre autocrazie arabe (Egitto e Giordania) ecco che per Mosca si aprirebbero ulteriori spiragli di pragmatica collaborazione. In altri termini, il processo di accreditamento, “riciclaggio” e “occidentalizzazione” del Presidente pro-tempore della Siria e dei suoi collaboratori potrebbe incontrare più ostacoli del previsto, ovvero, riuscire ad “intortare” e “depistare” leaders e opinioni pubbliche occidentali, ma non riscontrare altrettanto successo nel mondo arabo.

Per i palestinesi non tutto è compromesso

Per la Palestina, infine, la svolta siriana è un inconveniente serio in quanto indebolisce l’unico attore regionale, l’Iran (e di riflesso Hezbollah), che negli ultimi anni, contrariamente ai paesi arabi, ha sostenuto seriamente la causa palestinese. In ogni caso, la tregua concordata dall’insolita mediazione USA (con Amministrazione uscente ed entrante in un’insolita cooperazione), Egitto e Qatar è uno sviluppo positivo. Se le clausole circolate risulteranno confermate e, soprattutto, verranno rispettate, quello che si profila è un forte smacco per Israele che ha sicuramente stravinto militarmente ma ha perso politicamente: la sua immagine internazionale è compromessa e Hamas, nonostante tutto, non è stata né sconfitta né rimossa da Gaza mentre Israele dovrebbe ritirarsi completamente dalla striscia infliggendo un duro colpo alle ambizioni annessionistiche dell’estrema destra che sostiene il Governo Netanyahu.

Per i Brics potenzialità e rischi

Quanto agli effetti sul processo BRICS è abbastanza difficile valutarne l’impatto immediato. Il processo di adesione a questo formato prosegue a prescindere dagli eventi in Medio Oriente, come dimostrato dalla recente, e assai significativa, adesione dell’Indonesia. Il fenomeno BRICS, o meglio BRICS plus ormai, ha una portata ben più ampia dei semplici – seppur importanti – equilibri mediorientali.

Resta da vedere se l’Arabia Saudita scioglierà la riserva sull’adesione che si protrae da diversi mesi e se la Turchia, come ventilato da tempo, deciderà di aderire. Se così fosse, la fondamentale componente euroasiatica di questo blocco registrerebbe una cruciale saldatura geopolitica tale da ridimensionare o più che compensare – per Cina, Russia e Iran soprattutto – la perdita della Siria.

Nei prossimi mesi, l’attenzione – per provare a delineare qualche prospettiva – si concentrerà prioritariamente sulle mosse della Presidenza Trump Benché l’esperienza storica insegni che dopo l’insediamento le Amministrazioni USA necessitino generalmente di diversi mesi per poter ingranare, va rilevato che questa volta Donald Trump – contrariamente al 2017 – ha svolto una meticolosa pianificazione politica. I prossimi mesi ci diranno se è vero, e, soprattutto, se questa si rivelerà all’altezza delle grandi sfide che contrassegnano l’attuale panorama politico internazionale.

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