Sono anni ormai che da più parti vengono avanzate proposte per la riforma delle regole sulla governance economica europea e, in particolare, sul Patto di stabilità e crescita (PSC), già rivisto ben due volte, nel 2005 e nel 2011, dalla sua adozione originaria nel 1997 (per una disamina delle varie riforme, sia consentito il rinvio a Salmoni, 88 ss. e bibliografia ivi citata).
La crisi economico-finanziaria aggravata da pandemia e guerra
La riforma del 2011, in particolare, fu adottata a valle della grande crisi economico-finanziaria del 2009-2010, ponendo in essere un giro di vite senza eguali delle norme sulla finanza pubblica degli Stati membri, costretti ormai all’interno di vincoli rigorosissimi nel nome delle tanto decantate, quanto famigerate politiche di austerity (ex plurimis, Cantaro; Guazzarotti; De Fiores; Gallino; Benvenuti; Losurdo; Saraceno; Clericetti; Somma; Salmoni).
Una crisi, quella del 2010, in realtà mai terminata – nonostante quanto si sia potuto pensare – e aggravatasi a livelli monstre con conseguenze ancora più devastanti in primis a causa della pandemia e poi per via della guerra tra Russia e Ucraina, con pesanti ricadute (ancorché con tempistiche e modalità distinte) pressoché in tutti i Paesi dell’Unione al punto che, come noto, la Commissione ha dovuto attivare, nel 2020, la general escape clause (prorogata fino al 2024) con la quale il PSC è stato temporaneamente sospeso senza, tuttavia, sospenderne le procedure.
La riforma della governance economica europea
A causa di questa situazione, quindi, lo scorso 9 novembre 2022 la Commissione europea ha adottato una comunicazione contenente gli Orientamenti per la riforma del quadro della governance economica europea nella quale ha fornito alcune indicazioni di come auspicherebbe cambiasse la normativa attualmente in vigore ammettendo, di fatto, che le regole fiscali europee non hanno funzionato in passato, non funzionano oggi e, così come sono, non funzioneranno mai.
Esse, infatti, non hanno diversificato a sufficienza tra i vari Paesi con l’aggravante che nonostante la rispettiva differente posizione fiscale e la disuguale capacità di rispondere ai rischi e alle altre vulnerabilità, le politiche di bilancio nazionali hanno continuato ad essere pro-cicliche nonostante l’adozione del NGEU e, soprattutto, nonostante la procedura per disavanzi eccessivi (EIP) sino ad oggi non sia mai stata attivata, né la sorveglianza sulle discipline di bilancio sia riuscita a prevenire l’insorgere di nuove vulnerabilità e a promuovere un’adeguata azione politica preventiva.
In generale, si tratta della risposta europea a ciò che era stato più volte e autorevolmente messo in discussione: innanzi tutto i riferimenti numerici cui è ancorato il Patto, il 3%, il 60%, la riduzione del debito di un ventesimo all’anno, ecc. (spesso criticati per la loro mancanza di scientificità da una parte della dottrina: Triulzi; Fitoussi; Wyplosz), ma anche il fatto che esso sia diventato pressoché ingestibile a causa della sua complessità, e della costante aggiunta di eccezioni, clausole di flessibilità e altri fattori (Wieser; Bénassy-Quéré e altri; Kamps e Leiner-Killinger).
Sul punto, fino alla predetta comunicazione, la fantasia delle Istituzioni nazionali, sovranazionali e internazionali si era letteralmente scatenata: dalle proposte dell’European Fiscal Board (EFB) seguite da Bordignon e Priewe a quelle del MES, della Bundesbank, del Consiglio tedesco degli esperti economici, del Governo federale tedesco e del FMI.
Non era stata meno fervida la creatività di alcuni statisti (i.e., Macron e Draghi, ma anche dei c.d. Frugali insieme a Lettonia, Slovacchia e Repubblica Ceca, nonché di Stati quali la Spagna e i Paesi Bassi) e di numerosi studiosi quali in primis Giavazzi e altri, a supporto delle posizioni dei leaders francese e italiano, ma anche, con proposte alternative Amato M. e Saraceno; Blanchard e altri; Bordignon e Pisauro; Cesaratto; Buti e Messori; Amato G., Bassanini, Messori, Tosato e molti altri ancora in maniera adesiva alle proposte dell’uno o dell’altro (fatta eccezione per Bini Smaghi che ha sempre manifestato molta prudenza sulle diverse varianti suggerite per modificare il PSC).
Cosa cambia realmente con la riforma del PSC?
Questo il contesto entro il quale, oggi, l’UE si è risolta a rivedere per l’ennesima volta la normativa sul Patto di stabilità e crescita.
I termini esatti della comunicazione della Commissione europea lasciano ampi spazi al dibattito sui suoi contenuti che, al momento, non sono ancora del tutto definiti sebbene ritengo sia improbabile uno stravolgimento di quanto in essa anticipato e, soprattutto, la sensazione che si ha analizzandone il testo è che l’UE non si stia avviando verso una radicale modifica del PSC, cosa che, ad avviso di chi scrive, sarebbe stata altamente auspicabile.
Si tratta di qualcosa di più di una mera sensazione se è vero, come è vero, che il Commissario europeo Valdis Dombrovskis, in un’intervista rilasciata a La Stampa il 20 gennaio scorso, in occasione del World Economic Forum di Davos, ha sottolineato la necessità di “evitare che vi siano contraddizioni fra la politica monetaria e quelle di bilancio”, invitando gli Stati membri, e in particolare l’Italia a vigilare sui deficit (aggiungendo che la valutazione della Commissione sulla manovra per il 2023 è positiva, che “le cose sono nel complesso sulla strada giusta” e che “l’attuazione delle nostre raccomandazioni va bene”, ma anche che “l’importante è non perdere slancio” perché “il 2023 sarà il grande anno dei pagamenti legati al Next Generation Eu e tutti gli Stati membri devono avanzare con le riforme e gli investimenti”).
L’invito a vigilare sul deficit evidenzia la circostanza che anche l’adozione di un “nuovo” Patto di stabilità e crescita non intende abbandonare la necessità di rispettare i valori numerici, come detto, del tutto arbitrari, fissati sin dal 1997, mantenendo la centralità del rapporto debito/PIL al 60% e di quello deficit/PIL al 3%.
D’altronde, già il 19 ottobre 2021, in una sua precedente comunicazione, la Commissione UE aveva affermato che la ripresa di un percorso di riduzione del rapporto debito/PIL sarebbe stata essenziale “per mantenere finanze pubbliche sane, evitare divergenze fiscali persistenti tra gli Stati membri, preservare condizioni di finanziamento favorevoli per i settori pubblico e privato, e prevenire episodi di stress di mercato che provocherebbero costose ricadute”. Pertanto “una riduzione realistica, graduale e duratura del debito pubblico rimane importante anche per ricostituire le riserve prima della prossima recessione” e implica il ritorno a un percorso di convergenza tra gli Stati membri che può essere agevolato da una procedura per gli squilibri macroeconomici ben funzionante.
Paesi di serie a, b, c
I punti essenziali della più recente comunicazione dello scorso 9 novembre sono tre che, in qualche modo, evocano quanto già sperimentato con altri meccanismi.
In primo luogo, gli Stati membri vengono distinti in tre diversi gruppi a seconda del loro indebitamento: elevato (oltre il 90% del PIL), moderato (tra il 60 e il 90%) e basso (inferiore al 60%). Sulla base di tale distinzione, un po’ come accade per le linee di credito del MES, l’allontanamento delle nuove regole sulla governance comporterà procedure e sanzioni più o meno stringenti. A ciò si aggiunga che l’impatto che avrà per un Paese la circostanza di essere inserito tra quelli a rischio elevato, come accadrebbe all’Italia, non può che essere negativo, producendo un effetto stigma pari se non peggio di quello collegato ad un eventuale ricorso al MES (Tria).
In secondo luogo, prendendo spunto dal meccanismo introdotto dal Recovery fund nell’ambito del NGEU, gli Stati membri dovranno concordare con la Commissione un Piano fiscale almeno quadriennale di avvicinamento al 60% del rapporto debito/PIL che includa anche riforme e investimenti (che in seguito sarà adottato dal Consiglio), concordando un tetto pluriennale alla spesa pubblica dal cui computo sono esclusi solo gli interessi sul debito e i sussidi alla disoccupazione. Questo Piano, però, è immaginato in maniera tale che i Paesi definiti ad alto rischio dovranno concordare maggiori riduzioni di spesa in minor tempo (di norma 4 anni rispetto ai 7 concessi agli Stati a basso rischio), con l’aggravante che in caso di allontanamento dal percorso concordato l’UE potrebbe decidere l’interruzione delle erogazioni del PNRR.
In terzo luogo, anche in questo caso ricalcando le orme del Recovery fund, sia il controllo sull’applicazione del Piano sia le eventuali sanzioni saranno più rigorosi rispetto a quanto precedentemente previsto: sanzioni finanziarie (sebbene di importo ridotto rispetto al passato) e “reputazionali” (ad es., i ministri dei Paesi che non rispettano il proprio Piano dovranno comparire davanti al Parlamento UE e spiegare come intendano rientrare dall’infrazione), ma soprattutto la riduzione della possibilità di accedere ai Fondi europei.
In estrema sintesi, la logica cui si ispirano gli Orientamenti della Commissione sembra essere per grandi linee -e con qualche distinguo- quella di sempre (Maranzano e Romano) con alcune aggravanti che, a titolo esemplificativo, possiamo così riassumere: innanzi tutto, l’idea che la spesa pubblica sia un mero costo e non uno strumento per aumentare la crescita e che, di conseguenza, il debito pubblico sia una passività da ridurre a tutti i costi era e continua ad essere anche nell’attuale proposta il leit motiv della normativa europea sulla governance economica (in termini non dissimili Guarascio e Zezza).
In secondo luogo, è evidente che per ridurre il rapporto debito/PIL la spesa pubblica dovrà crescere meno del debito e laddove ciò non accadesse gli Stati dovranno necessariamente ridurla, il tutto costantemente monitorato e approvato ex ante dalla Commissione europea -attraverso l’analisi della sostenibilità del debito (DSA)- che assume un ruolo di attore primario a scapito sia delle altre Istituzioni sovranazionali, sia dei governi degli Stati membri, con un’accentuazione del deficit democratico da cui è afflitta da sempre l’UE (in termini, Tosato; Bini Smaghi, Riforma del Patto di stabilità. I motivi di preoccupazione, in Corriere della sera, 28 gennaio 2023).
In terzo luogo, la circostanza che attraverso detto monitoraggio e conseguente obbligatorio aggiustamento delle politiche fiscali nazionali l’UE si trovi, di fatto, a “dirigere” e disciplinare una materia che non è di competenza sovranazionale, violando le norme dei Trattati europei.
Un cortocircuito in termini di legittimità democratica?
I commenti da parte della dottrina, sia economica che giuridica, sono stati, salvo alcune eccezioni (Pench; Wyplosz), piuttosto tiepidi. Per qualcuno, infatti, la proposta è stata “un passo avanti importante…che tuttavia rischia di non essere abbastanza” (Saraceno); per altri, pur essendovi una complessiva adesione alle misure suggerite, sussiste il rischio che “in assenza di riforme istituzionali della UE” una siffatta riforma possa portare “ad un cortocircuito in termini di legittimità democratica” (Bordignon); per altri ancora la riforma sarebbe da accogliere positivamente perché consente una procedura di determinazione delle politiche di spesa incentrata sul rapporto bilaterale tra singoli governi e Commissione (Minenna), o perché ammette nuove misure che aumentino voci di spesa non ciclica purché compensate da nuove misure sulle entrate (Pisauro). Vi è anche chi ha assunto una posizione più o meno moderatamente critica ritenendo preferibile l’attuale calcolo basato sul c.d. output gap a quello oggi proposto fondato sulla c.d. spesa primaria (De Romanis) oppure chi parla di una proposta che accentua la tecnocrazia (Piga) svuotando i governi del loro potere di indirizzo nel solco della tendenza alla depoliticizzazione della sfera economica (Guarascio e Zezza), o ancora chi, correttamente, ritiene che la negoziazione tra i governi degli Stati membri e la Commissione volta all’adozione del Piano fiscale di riduzione del debito sia una fictio perché la forza negoziale del Paese in questione, dopo che il suo debito è stato valutato come scarsamente sostenibile, sarebbe pressoché nulla (Guazzarotti).
Oltre al fatto che per tutta la durata dei Piani fiscali nazionali approvati dall’UE essi non potranno essere modificati salvo che si verifichino circostanze oggettive che ne rendano impossibile l’attuazione, ma in questo caso lo Stato membro dovrebbe presentare un “nuovo” Piano che dovrebbe essere approvato mediante il medesimo processo di convalida posto in essere per il Piano originario, il che pare poco conciliabile con quanto previsto dall’art. 81 della nostra Costituzione (Salmoni).
Superare i dogmi indiscussi del mercato e della concorrenza
Il vero e proprio caos economico e finanziario che affligge la gran parte degli Stati UE ha aumentato le preesistenti divergenze economiche, sociali e territoriali.
La decisione di cambiare la normativa sul PSC, quindi, è importante e auspicabile ed era attesa da Governi, analisti, economisti, ma anche da molti giuristi.
Essa, però, si intreccia in maniera alquanto confusa e complessa con tutte le altre riforme o proposte di riforme in campo: il “nuovo” Trattato MES, l’istituzione dell’Agenzia del debito, il completamento dell’Unione bancaria europea, l’istituzione del Fondo per la sovranità europea (per fare fronte all’Inflation Reduction Act adottato dagli Stati Uniti e finanziato da debito comune europeo che, però, ha già scatenato le discussioni tra i diversi Stati membri), la parziale interruzione da parte della BCE dell’acquisto di titoli di Stato a supporto dei Paesi con maggiori difficoltà finanziarie e la sua subordinazione alle regole e alle condizionalità sancite nel Transmission Protection Instrument (il c.d. TPI).
Una vera e propria giungla di norme sulla quale, probabilmente (e suppongo correttamente dal loro punto di vista), la gran parte degli economisti non ferma l’attenzione essendo focalizzati sulla soluzione di “altri” problemi, ma la cui complessità e pericolosità i giuristi non possono ignorare, sussistendo il rischio concreto di vanificare l’applicabilità di uno dei principi fondamentali della civiltà giuridica contemporanea, quello della certezza del diritto.
L’auspicio è che la costruzione della casa comune europea non continui ad essere portata avanti in maniera inconsulta e, ancora una volta, senza un disegno armonico complessivo che guardi al futuro, sulla scia dell’emergenza del momento, perché così facendo il rischio reale è che si continuerà a non costruire alcunché.
Un pasticciaccio brutto, insomma, che sembra assai difficile da sbrogliare… forse impossibile, almeno finché l’Unione continuerà ad avere a fondamento il mercato e la libera concorrenza, i dogmi indiscussi e intoccabili di questa nostra “povera” Europa, una casa comune che non c’è e che forse, in questi termini, sarebbe meglio non fosse mai edificata.