Niente sarà più come prima? L’invasione dell’Ucraina è presentata come una inedita rottura dell’ordine internazionale, una inaudita violazione del diritto internazionale, una guerra sommamente ingiusta. Il futuro, d’altra parte, ha un sapore antico. Si ripresenta la guerra combattuta sul terreno, con il suo macabro conteggio: stragi di civili, stupri, colossali movimenti di profughi. L’Europa del 2022 sembra quella dell’Ottocento o, peggio, quella del 1914.
Da Westfalia al ritorno del diritto discriminatorio della guerra
La Prima guerra mondiale, in effetti, è vista come l’ultimo atto della fase in cui i rapporti fra le nazioni si sono inquadrati nel “modello Westfalia”. È dopo i trattati che nel 1648 hanno posto fine alla Guerra dei trent’anni che gli Stati si sono reciprocamente riconosciuti lo ius ad bellum come un attributo inerente alla sovranità, senza discriminare fra iusti e iniusti hostes. Prima c’era stata la teoria della guerra giusta, che considerava morali le imprese militari condotte da un principe legittimo, che era titolare di una giusta causa e mosso da una retta intenzione. È stato il dispositivo attraverso il quale i teologi cristiani, da Ambrogio da Milano e Agostino di Ippona nel V secolo, a Tommaso d’Aquino nel XIII, a Francisco de Vitoria nel XVI, avevano argomentato che per i cristiani combattere non è sempre un peccato, nonostante i precetti inequivocabilmente pacifisti e nonviolenti contenuti nei Vangeli. Questo ha permesso di legittimare le crociate e le guerre coloniali, a cominciare dal genocidio dei nativi americani. Dopo la prima guerra mondiale si è ripresentato un concetto discriminatorio di guerra: si è cercato di processare il Kaiser sconfitto, accusandolo della “più grave violazione della moralità internazionale e della sacralità dei trattati” nell’art. 227 del Trattato di Versailles. La Società delle Nazioni è sembrata l’attuazione del pacifismo kantiano e il patto Briand-Kellogg del 1928 ha definito la guerra di aggressione un crimine. Tutto questo non ha scongiurato l’immane carneficina della Seconda Guerra Mondiale. Ma alla sua conclusione il progetto del pacifismo giuridico è sembrato realizzarsi. Nei processi di Norimberga la guerra di aggressione viene qualificata come “crimine internazionale supremo”. Nel preambolo della Carta “noi, popoli delle Nazioni Unite” dichiariamo che la guerra è un “flagello” e ci impegniamo a “mantenere la pace e la sicurezza internazionale”. Gli Stati “devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza” (art. 2). Nell’art. 51 La risposta all’aggressione è considerata legittima difesa, espressione del “diritto naturale di autotutela individuale o collettiva”, sub condicione e a termine, fino all’intervento del Consiglio di sicurezza.
Non c’è dubbio che l’invasione russa dell’Ucraina integri il “crimine internazionale supremo”, rientri cioè nella definizione di aggressione della Risoluzione 3314 (14 dicembre 1974) dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Il fatto che negli ultimi anni gli Stati Uniti abbiano armato l’Ucraina e l’abbiano sostenuta in vari modi, che l’Ucraina abbia chiesto di entrare nella NATO, la quale ha “abbaiato alle porte della Russia” come si è espresso Papa Francesco non giustifica in nessun modo tale aggressione. Così come la pressione degli Stati arabi confinanti non ha legittimato nel 1967 la Guerra dei Sei giorni scatenata da Israele e l’occupazione dell’intera Palestina. Non c’è dubbio che la risposta ucraina sia legittimata dal diritto di autodifesa. Così come non c’è dubbio che il Consiglio di Sicurezza non interverrà, come non è intervenuto contro le aggressioni perpetrate da USA, URSS e dagli altri membri permanenti durante la Guerra fredda, dal Vietnam all’Afghanistan. Dopo il 1989 è sembrato che le Nazioni Unite potessero finalmente riassumere la loro funzione originaria e la Guerra del Golfo del 1991 – in risposta all’aggressione dell’Iraq contro un altro Stato membro delle Nazioni unite, il Kuwait – è stata autorizzata, pur con modalità ambigue, dal Consiglio di sicurezza. L’URSS di Gorbachev era impegnato in una politica di distensione e riforma e sarebbe collassato entro l’anno, poco dopo il collasso del Patto di Varsavia. Negli anni seguenti la Russia è stata indebolita dalla crisi economica, dalla corruzione e dalla criminalità conseguenti al rapido passaggio all’economia capitalistica, secondo i dogmi del pensiero unico liberale, mentre la Cina era impegnata nel porre le basi del suo impetuoso sviluppo economico e sociale. In questo contesto gli Stati Uniti sembravano essere rimasti l’unica superpotenza, il centro dell’ “Impero”, e affermavano il loro progetto di egemonia unilaterale: il New World Order. Nel frattempo si discuteva di “ingerenza umanitaria”: molti sostenevano che di fronte a gravi crisi umanitarie le Nazioni Unite potessero autorizzare azioni militari che derogassero il principio di non intervento negli affari interni di Stati egualmente sovrani.
La rimilitarizzazione dei rapporti internazionali
I massicci bombardamenti della Jugoslavia nel 1999 hanno comunque rappresentato un punto di svolta. Dopo il rifiuto del governo di Slobodan Milosevic di accettare le condizioni poste nelle trattative di Rambouillet, la NATO ha attaccato senza nessun tipo di autorizzazione da parte delle Nazioni Unite. I ponti, le infrastrutture, la televisione nazionale sono stati bersagli intenzionali, l’ambasciata della Cina (contraria all’intervento, insieme alla Russia) un danno collaterale. I tentativi di giustificare tale guerra di aggressione facevano riferimento all’emergenza umanitaria in Kosovo (un genocidio, secondo alcuni), vittima della repressione dell’esercito e delle milizie serbe. Eminenti giuristi tentarono di dare una giustificazione elaborando l’istituto della “consuetudine istantanea” ma la maggior parte degli intellettuali occidentali optarono per categorie morali o antropologiche: umanità contro bestialità.
Dopo l’11 settembre George W. Bush ha dichiarato la “Guerra al terrore”. L’Afghanistan è stato il primo obiettivo, senza autorizzazioni da parte delle Nazioni Unite, che sono state invece ricercate inutilmente prima della guerra all’Iraq del 2003. Erano contrari la maggioranza dei membri del Consiglio di Sicurezza (non ci sarebbe stato bisogno che Cina, Russia o Francia esercitassero il diritto di veto) e gran parte dei paesi della “vecchia Europa”, con l’esclusione di Italia e Spagna. I nostri carabinieri uccisi a Falluja facevano parte delle forze di occupazione di una guerra di aggressione. Eravamo correi nel crimine internazionale supremo.
Negli ultimi vent’anni è continuato il processo di “rimilitarizzazione dei rapporti tra gli stati”, affiancato nel dibattito intellettuale, da quello di riabilitazione della “Guerra giusta”. Norberto Bobbio, che nel 1966 aveva dichiarato la guerra “incontrollata e incontrollabile dal diritto, come un terremoto o una tempesta”, nel 1991 ha definito Tempesta nel deserto una “guerra giusta”. “Giusta” nel senso di giuridicamente legittima. E infatti, come ricordato sopra, era stata autorizzata dall’ONU. Ma in quegli anni la Guerra giusta era stata resuscitata come categoria etica. Protagonista di questa operazione Michel Walzer, che dopo aver sprezzantemente definito le Nazioni unite un “mondo di carta” costruito dai giuristi, si era impegnato nell’elaborazione di un “argomento morale”: un’etica che vincola i combattenti, i cui principi – come la legittimità della risposta a un’aggressione e l’immunità dei civili – sono universalmente riconosciuti.
La dottrina della guerra giusta al servizio di tutti gli aggressori
Il discorso sulla guerra giusta si è generalizzato durante la guerra del Golfo del 1991, nonostante le cautele meta-etiche di intellettuali pur favorevoli all’intervento come Massimo Cacciari e Jürgen Habermas. Ma è stato dopo l’11 settembre che il cortocircuito fra principi presupposti universali (visti come valori morali, anche se formulati nei termini di diritti umani) e intervento militare si è chiuso. Walzer sottoscrisse il documento “What We Are Fighting For”, che sostiene il concetto di “War on terror” in base all’idea di un’ampia condivisione della nozione “in molte delle differenti religioni del mondo e delle tradizioni morali secolari” . Nella National Security Strategy of the United States of America del 2002 la Casa Bianca affermò che i valori di “libertà, democrazia e libera impresa” sono “veri e giusti per ogni persona, in ogni società” e che questo giustifica l’uso della forza per difenderli contro terroristi e “Stati canaglia” che li minacciano .
Walzer ripropone la tesi che ciò che rende una Guerra “giusta”, la justa causa che attribuisce lo ius ad bellum, è la risposta a un’aggressione. Ma espande notevolmente il significato di aggressione: “l’aggressione ha inizio prima ancora che si spari il primo colpo o si oltrepassi un confine”. La minaccia di aggressione è equiparata all’aggressione effettiva e la “legittima difesa preventiva” è moralmente giustificata. Tale approccio è replicato dalla Casa Bianca nel 2002: “per secoli il diritto internazionale” ha condizionato “la legittimità dell’intervento preventivo […] all’esistenza di una minaccia imminente”. Me nell’affrontare Stati canaglia e terroristi tale concetto deve venire adattato: “our best defense is a good offense” . La presunta detenzione di armi di distruzione di massa sembra una condizione sufficiente per un attacco preventivo. Se si è dimostrato che le cose non stavano così – che l’Iraq non possedeva tali armi – l’ “intenzione” di produrle è stata sufficiente, come dichiarò nel 2004 l’impudente George W. Bush . Caduto di recente, com’è noto, in un clamoroso lapsus riguardo all’invasione dell’Ucraina.
La situazione geopolitica globale si è via via modificata e il progetto di New Worl Order è clamorosamente naufragato ma la teoria della guerra giusta ha continuato a godere di buona salute. Nel discorso di accettazione del Premio Nobel per la pace del 2009 (un premio Nobel preventivo, conferito all’inizio del suo mandato) il presidente Barack Obama ha citato ampiamente la guerra giusta, aggiungendo “io – come ogni capo di Stato –mi riservo il diritto di agire unilateralmente se necessario per difendere la mia nazione” . Oggi Walzer, sulla rivista storica della sinistra americana come sul Wall Street Journal , celebra la vitalità della sua teoria. E si toglie la soddisfazione di fare una predica ai “liberal europei”, che sperano ancora di negoziare con Putin quando la via diplomatica è preclusa mentre i liberal americani sono “rassegnati al fatto che ogni via d’uscita passi ormai dalla vittoria militare” . Le parole di Walzer risuonano sinistramente a fronte delle 6000 testate nucleari detenute dalla Russia, mentre il suo presidente è diagnosticato dai leder e dai giornalisti occidentali come un criminale psicopatico. Anche se non si evoca Il dottor Stranamore, sono comunque sintomatiche di un’attitudine diffusa: mentre i civili sono uccisi, violentati e costretti a fuggire, le città distrutte, i raccolti bloccati, la dimensione ideologica della guerra prevale sulle istanze umanitarie, sull’imperativo di evitare morte e sofferenza. Ma se una delle parti è “giusta” (ovviamente, noi), nessuno può essere neutrale e i crimini di guerra possono venie commessi solo dall’altra parte. La teoria della guerra giusta svolge un ruolo chiave nella moralizzazione e nella normalizzazione della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Putin e i suoi consiglieri sembrano essersi familiarizzati con la sua retorica. Nella propaganda Russa la guerra non è nominata e l’“operazione militare speciale” è presentata come un intervento preventivo contro il “genocidio” perpetrato dalle milizie ucraine sulla popolazione russofona del Donbass mentre il governo di Kiev è delegittimato come filo-nazista: l’altra faccia dell’esportazione della democrazia. Se il contesto ideologico ci dice “de te fabula narratur”, d’altra parte è arduo sostenere che la Russia stia mettendo a repentaglio uno stabile ordine internazionale liberale. Dopo la Guerra Fredda, il vincitore non ha elaborato una strategia per trattare il nemico sconfitto e un tale ordine non è stato costruito.
Quale via d’uscita?
La Guerra è venuta. Chi ci salverà? Purtroppo non può più aggiornarle, ma le riflessioni elaborate trenta anni fa da Danilo Zolo in seguito alla Guerra del Golfo sono di sconcertante attualità. La sua critica più tagliente si rivolgeva all’“etica internazionale” e in particolare ai “vicoli ciechi” della teoria di Walzer, ma denunciava anche le aporie del pacifismo giuridico, da Kant a Kelsen, a Bobbio, a Habermas. Il pacifismo giuridico sopravvaluta le possibilità del diritto e non affronta le radici economiche, culturali, antropologiche della guerra. Da questo punto di vista, il pacifismo assoluto e la nonviolenza gandhiana si rivelano meno irrealistici. Le Nazioni Unite, d’altra parte, sono caratterizzate da una struttura oligarchica basata sul diritto di veto attribuito ai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e configurano “un governo internazionale delle grandi potenze identico sotto il profilo costituzionale a quello della Santa Alleanza”. Prognosticando la loro non riformabilità, Zolo auspicava un “‘pacifismo debole’ – che privilegi l’auto-organizzazione, il coordinamento e la negoziazione” basato sul riconoscimento che “la diversità, il mutamento e la differenziazione dovrebbero essere la regola”. E ipotizzava “una costellazione di ‘regimi giuridici internazionali’ che siano in grado di coordinare i soggetti della politica internazionale […] adottando strutture normative e forme di leadership diffuse e policentriche”.
In questa prospettiva organizzazioni regionali come l’Unione Europea avrebbero giocato un ruolo fondamentale. Oggi l’UE e i suoi Stati membri sono concentrati sulla Guerra, cooperano nel sostegno militare alla “resistenza” dell’Ucraina, danno il benvenuto alla sua richiesta di adesione all’UE, applicano importanti sanzioni economiche alla Russia, aumentano le spese militari. Dobbiamo dar ragione a Carl Schmitt, rilevando che solo di fronte a un nemico l’Europa riesce a trovare un’identità comune e a costituirsi come un soggetto geopolitico unitario? In realtà siamo di fronte a un’affermazione della NATO e a un indebolimento dell’UE, mentre l’Europa rischia di smarrire i principi del suo patrimonio costituzionale, a cominciare dall’ispirazione pacifista e dalla protezione universale dei diritti. La stessa risposta unitaria all’emergenza umanitaria permette agli Stati membri di discriminare i rifugiati Ucraini (bianchi, se possibile biondi) da quelli asiatici e africani, con tutte le loro sfumature di colore. La domanda torna ad essere “quale Europa” e di nuovo le parole di Zolo sono drammaticamente attuali:
«La pace internazionale potrebbe essere favorita dalla capacità dell’Europa di svolgere una funzione di equilibrio strategico in un mondo che tenta di liberarsi dall’unilateralismo imperiale degli Stati Uniti e di darsi un assetto policentrico e multipolare. Si potrebbe sostenere che l’ordine mondiale dipenderà dalla capacità dell’Europa di essere ‘europea’ e cioè sempre meno atlantica e sempre meno occidentale: un’Europa orientata a svolgere un ruolo autonomo nel medio Oriente e nell’Oriente asiatico. L’emergere di grandi potenze regionali come l’India e la Cina rischia altrimenti di fare del Pacifico il nuovo epicentro egemonico del mondo, emarginando ancora una volta l’Europa, il Mediterraneo e i loro valori» .