IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Syriza, una disfatta annunciata?

La sconfitta alle ultime elezioni si aggiunge alla serie di inequivocabili fallimenti politici e elettorali delle altre sinistre europee. La vittoria della destra rispecchia l’egemonia del metodo di governo neoliberale, unito ad un virtuoso pragmatismo politico ed economico.

Nelle elezioni di maggio, la destra, pur ottenendo un 40,79% e 146 seggi ha rifiutato il mandato esplorativo, preferendo andare alle urne un mese dopo, ottenendo una maggioranza assoluta dei seggi (155) grazie al premio previsto dal sistema elettorale proporzionale rafforzato, garantendo in tale maniera un governo senza alleanze. Cosa che non accadeva più dal 2009. Al secondo turno, la sinistra di Tsipras incassa invece un’ulteriore riduzione dei voti (da 20,04% e 77 seggi, passa al 17,85% e appena 48 seggi), nonostante la sconvolgente tragedia in mare di proporzioni storiche (la morte di 600 persone) sulla rotta della Calabria, strage perfettamente evitabile e addebitabile alla responsabilità del governo in carica.

 I numeri della sconfitta

Per comprendere i termini della disfatta (venti punti percentuali di distanza dal primo partito) occorre tener conto che i voti a Syriza si sono redistribuiti principalmente tra l’oppositore ideologico principale (Nea Dimokratia) e i partiti minori, tra cui 3 estremisti: Elliniki Lysi (Soluzione Greca) di Velopoulos, partito cristiano-nazionalista anti-immigrati (che raggiunge il 4,44%), il partito supportato dai fondatori dell’organizzazione criminale Alba Dorata dei Spartiates (Spartani) con 4,6%, e il partito nazionalista-ultraortodosso di Nike (Vittoria) che raggiunge il 3,6%. La sorpresa maggiore è che della crisi di Syriza non approfittano nemmeno le due formazioni create dai transfughi. È rimasta sotto la soglia di sbarramento del 3% Mera25 di Yannis Varoufakis, mentre vi è stato un magro aumento dello storico partito comunista (KKE) (che dal 7,23% sale al 7,69%, conseguendo 20 seggi). Si rafforza Plefsi Eleftherias (Rotta verso la Libertà, con 3,17% e 8 seggi) di Zoi Konstantopoulou, figura politica che si è distinta non tanto per il suo impegno come Presidente del Parlamento, quanto per la sua ostinata volontà di dimostrare l’insostenibilità del debito greco con la “Commissione per la verità sul debito pubblico” di sua ispirazione.

Le divisioni antiche e recenti della sinistra hanno giocato un ruolo importante nella sconfitta, se si considera che i partiti di sinistra hanno raggiunto complessivamente il 44% dei voti espressi. La sconfitta di Syriza può essere letta, in parallelo con la preferenza ai partiti estremisti, come reazione antieuropea e in parte come risposta alla capitolazione di Tsipras alle politiche di austerità dopo il referendum del 2015. Ma vi è di più. La virata a destra degli elettori di sinistra è connessa all’incapacità di mettere in pratica le promesse elettorali, non solo per i risvolti di tale inettitudine a livello economico-sociale, ma soprattutto per il voltafaccia di Syriza nei confronti delle aspettative di una resistenza alle politiche neoliberali.

A questo quadro poco confortante si aggiunge un’anomalia nel funzionamento del Parlamento: l’opposizione dispone di meno di 50 deputati, cosa che rende impossibile lo svolgimento del suo compito politico e istituzionale e che vanifica la garanzia costituzionale del controllo parlamentare (ad esempio, non può promuovere una mozione di sfiducia, non può avanzare proposte di revisione costituzionale, non può istituire una commissione di inchiesta). Dal 1974 ad oggi non si è mai avuta un’opposizione talmente debole, da veder de facto annullato il contrappeso istituzionale alla maggioranza governativa. Il quadro si completa con un nuovo record di astensione che sale al 48,36% del corpo elettorale.

 Il pragmatismo politico della destra

La vittoria della destra testimonia l’inadeguatezza della proposta politica della sinistra, che è apparsa agli elettori anacronistica e preconcetta. Il popolo greco ha votato per la stabilità, la solidità ed il pragmatismo economico, qualità di governance che mancherebbero alla sinistra. La fine – almeno temporanea- dello storico bipolarismo greco tra neoconservatorismo e progressismo di sinistra, non è, infatti, merito del governo di Kyriakos Mitsotakis, ma deriva prima di tutto dalle carenze della controparte: la sinistra non è stata in grado di navigare crisi generate dal sistema economico neoliberale e di difendere le classi sociali più deboli dai condizionamenti dei mercati finanziari. La sfiducia nei confronti delle istituzioni è avvalorata anche dalla ricerca-sondaggio (condotta in Grecia dal 17 al 27 marzo 2023) che evidenzia gli orientamenti ideologici del corpo elettorale. L’indagine rivela anche l’insoddisfazione per il funzionamento della democrazia, la paura ed il pessimismo dettati dall’incertezza del reddito, dalla forte riduzione del potere di acquisto e dalle difficoltà finanziarie senza concrete prospettive di miglioramento. Il dato forse più eclatante consiste nel fatto che la maggioranza dei cittadini ritiene ormai irrilevante la distinzione tra sinistra e destra, questione che non corrisponderebbe più a un valore discriminante nell’epoca attuale.

Chi ha votato da sinistra per Nea Dimokratia (Nuova Democrazia) ha dovuto arrendersi ad un compromesso ideologico gravoso: ha accettato la continuità della corruzione politica greca, rivelatasi ora con il ‘Watergate greco’ sulle intercettazioni governative contro gli avversari politici; ha indirettamente condiviso la narrativa in ordine all’ammodernamento delle infrastrutture, narrativa clamorosamente smentita dal disastro ferroviario di febbraio che ha provocato 57 morti, mostrando la scandalosa mancata sorveglianza dello Stato sui beni di pubblico interesse; ha finito per allinearsi con la narrazione governativa che nega l’eccezionale durezza delle politiche migratore, e che giustifica la prassi dei ‘pushback’ come azione di contrasto alla tratta criminale di persone.

Law and order?

Nulla ha scalfitto la popolarità di Kyriakos Mitsotakis, che giustifica l’imposizione di scelte impopolari ma “purificatrici”, all’insegna dello slogan law and order. Si pensi al noto incidente con la giornalista olandese, aggredita in conferenza stampa dal Premier per la sua insistenza sulle condizioni degradanti delle strutture di detenzione dei migranti (Ottobre 2021) che diede ispirazione alla legge sulle ‘fake news’. Analogamente, il Governo ha abilmente distolto l’attenzione dalle proteste sui tagli all’istruzione universitaria pubblica e gratuita, con l’istituzione simbolica di un inedito corpo distaccato di ‘polizia universitaria’, eliminando quello che è stato il luogo di ‘asilo politico’ della sinistra, fin dalla rivolta contro i Colonelli nel Politecnico di Atene. Similmente, ha bypassato l’indignazione per la legge sulla privatizzazione della salute, invocando a sua giustificazione l’adeguamento alle ricette prescritte dall’Europa in merito alla razionalizzazione della spesa pubblica.

La distanza tra la retorica e la realtà

Syriza non è riuscita a veicolare una proposta autenticamente alternativa né quando stava al governo, né in questa fase elettorale. Persino, nella sua ultima manifestazione precedente al secondo turno (giugno 2023), Tsipras evocava un nuovo “Patto di Cambiamento” con il popolo, riferendosi in realtà agli stessi punti riciclati del suo vecchio programma elettorale (aumento dei salari, riduzione dei prezzi, regolamentazione del debito e uno Stato equo ed efficiente vicino ai bisogni del cittadino…), senza un preciso piano di azione; peraltro, punti programmatici elusi dal suo stesso governo. Syriza non ha saputo reagire alle sfide economiche interne, ma è pure scivolata sulle sfide esterne di interesse nazionale, come è accaduto con l’‘Accordo di Prespes, un atto di alto valore geopolitico, ma anche il tallone d’Achille di Tsipras. Il partito che è riuscito a fare l’impossibile, cioè, riunire la costellazione dei partiti di sinistra in una coalizione forte e causare il più alto travaso di voti della storia europea recente, non è più lo stesso dopo la ‘lunga notte’ del 16 luglio 2015. Esso ha smarrito per strada quello strabiliante tredici per cento degli elettori di destra che, pur restando fedeli alla famiglia ideologica di appartenenza, votarono ‘no’ al referendum di Tsipras, sperando ad una valida alternativa all’austerità imposta da Nea Dimokratia. Tsipras ha anche perso gli elettori del centro, che non gli perdonano lo smantellamento dello stato sociale, un’eredità di A. Papandreou, e la sua ambiguità rispetto alle politiche di accoglienza (vd. Moria). A poco è servita l’assunzione di responsabilità politica di Tsipras sulle ottantasette orribili morti negli incendi a Mati (2018). Per molti, la causa primaria per il disastro elettorale è legata al progressivo slittamento di Syriza da partito ispirato alle lotte sindacali di sinistra radicale a partito che si è ideologicamente approssimato al centro. La strategia improntata a guadagnare consensi al centro, annacquando il programma elettorale, integrando il suo organico con i quadri provenienti dall’ala moderata, incluso il tanto criticato PASOK e qualche esponente di ND di Karamanlis aveva già provocato l’abbandono di molti dirigenti e militanti radicali. La cd. “svolta al centro” ha inferto il colpo di grazia, con la perdita dei simpatizzanti di sinistra dissociati dai partiti che riponevano in Syriza la speranza di una sinistra integra e moderna, in grado di sfidare il fronte neoliberale, ma distinta dalla sinistra comunista antieuropeista del KKE, nostalgica di un passato ormai superato.

 L’europeismo e l’atlantismo di Mitsotakis

Mentre l’immagine di Tsipras da “eroe senza macchia e senza paura” si trasformava in un obbediente esecutore delle riforme strutturali richieste dall’Europa, Mitsotakis sfoggiava il “know-how” acquisito nell’esperienza lavorativa nell’alta finanza, nella frequentazione di Università estere private e avvalorato dalla sua dinastia familiare: l’incarnazione dell’ideale del cittadino neoliberale di successo. Il primo si è dimostrato incoerente di fronte al suo elettorato. Fermo alle enunciazioni di principio con cui per anni ha contrastato le politiche neoliberiste salvo poi dargli il suo sigillo; l’altro, Mitsotakis, rivolto alla borghesia greca impregnata dagli ideali atlantisti ed europeisti, appare coerentemente allineato con il ‘sogno europeo’, che promette ‘benessere materiale in cambio di duro lavoro. L’Unione ha percepito Tsipras come un anticapitalista ribelle (poi domato), che aveva tentato accordi commerciali nel 2016 con Putin; Mitsotakis ha dato prova ‘tecnica’ di un governo solido e persino orgogliosamente autoritario contro ogni minaccia (migranti ai confini dell’Europa, questioni nazionali riguardanti le provocazioni della Turchia), alleandosi con Washington (guerra Russo-Ucraina) e Israele. Mitsotakis promette di traghettare la ‘vecchia Grecia’ verso una ‘nuova Grecia’, completando il suo ‘ammodernamento europeo’ che rassicura gli investitori. Benché le diseguaglianze crescano e l’inflazione minacci il potere di acquisto dei salari e la tenuta dei conti pubblici, la sinistra è assente all’appello contro il ‘realismo economico-politico’.

Esiste ancora una sinistra greca?

 Chi si sente ancora di appartenere alla sinistra dovrebbe guardare alle sue spaccature identitarie con le parole di L. Cohen nel suo ‘Anthem’, cioè come squarci da cui far entrare la luce.

Le divisioni interne sono uno, ma non l’unico, problema della sinistra greca. La frammentazione identitaria contraddistingue la sua storia fin dal momento fondativo del KKE (1918, allora SEKE), e va di pari passo con l’inadeguatezza delle diverse anime di proporre una visione unitaria ed un vero progetto riformista ‘di sinistra’. Syriza è riuscita nell’impresa di aggregare varie componenti ideologiche (almeno 11), rappresentando il più solido movimento congiunto di sinistra radicale capace di raccogliere la sfida impossibile della ‘terza via’: di conciliare, cioè, la sinistra con l’appartenenza all’Eurozona. Il vero problema è, dunque, che Syriza ha creato un ‘polo di aggregazione di idee’ senza un piano d’azione concreto capace di resistere ai vincoli esterni.

Inoltre, le sinistre oggi non offrono la visione di una ‘nuova Grecia’ in rinascita. Proporsi come contestatore della ‘Grecia neoliberale’ non solo non è più percorribile, ma è addirittura controproducente e autolesionista. Bisogna quindi riformulare la domanda di fondo: non si tratta di chiedersi se esiste ancora la sinistra greca, quanto di verificare con onestà se esistono ancora formazioni di sinistra capaci di andare al di là della mera ‘narrazione’.

La parabola di Syriza esemplifica il problema di fondo delle sinistre in Europa: la sinistra ispirata all’ideologia del Novecento non sta al passo con le esigenze delle società del Ventunesimo secolo. Non ci sono più le stesse classi sociali, non ci sono più le stesse sfide, non ci sono più le stesse sedi di contrattazione (politica ed extra-politica, economica, sociale, ideologica che sia).

Ciò che tutti gli animi e partiti di sinistra hanno in comune è l’incomprensione del crescente consenso di massa nei confronti del neoconservatorismo neoliberale.

Indagine ed autocritica conoscitiva scarseggiano nella sinistra. ‘Aforismi tecnici’ senza piano di azione alternativo hanno alimentato la confusione, offrendo il fianco a smentite neoliberali sulle politiche della sinistra e della socialdemocrazia (dipinte a loro volta come prescrizioni sincronizzate con una logica che non porta al cambiamento sociale ma riproduce stagnazione).

La mancata programmazione e pianificazione è un altro snodo del problema a sinistra. Il dominio ideologico del neoliberismo non è arrivato nelle nostre società all’improvviso, ma si è progressivamente strutturato in esse (attraverso la ‘biopolitica’ direbbe Foucault), ponendo obiettivi chiari e predisponendo piani d’azione sempre più raffinati: prioritizzare la libertà economica rimarcando il predominio del diritto di proprietà, e di seguito compiere tutte le azioni necessarie al suo soddisfacimento, sollecitare la concorrenza, la privatizzazione, la deregolamentazione, il ritiro dello Stato dal welfare, discreditare i sindacati ed educare al mercato, fino ad affrontare le crisi con ‘resilienza’. Non è chiaro cosa abbia contrapposto la sinistra come antidoto. Tante sono state le strategie di riallineamento con ideali sociali storici, in astratto, senza concreta programmazione di attuazione nel medio e lungo termine, inadeguati a confrontarsi con le correnti realtà.

 Per un rinnovo concettuale della sinistra

Serve anche un rinnovamento concettuale della sinistra: la contrapposizione aprioristica a concetti come ‘riforma’ o ‘modernizzazione’, ha generato una inutile radicalizzazione. Il divario tra ‘metodo di sinistra’ e ‘metodo di destra’ si è incardinato in una semplificazione, finendo per assegnare agli appartenenti di sinistra l’obbiettivo di difendere quasi esclusivamente certe conquiste del passato. La sinistra dovrebbe prioritizzare l’evidenza concettuale e metodologica della sua idea di modernizzazione, segnalando così la sua differenziazione da quella della destra neoliberale.

La sinistra deve in parte reinventarsi, che non significa tradire gli ideali e l’etica di sinistra, ma ripartire da essi e spingere affinché tali ideali escano dall’immaginario e trovino un posto rinnovato nel mondo così come, e non come vorremmo che fosse. Detto diversamente, è necessario che si sviluppi il ‘realismo di sinistra’, capace di confrontarsi con dati materiali, affrontare l’economia come sfera di produzione unitamente alla politica come luogo di circolazione del pensiero e di confronto plurale di forze. Trattasi di un lavoro di lunga lena, per ri-costruire un programma di trasformazione intorno al quale le classi subalterne possano orientarsi, ri-aggregarsi ed organizzarsi.

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