Ciò che è accaduto è il risultato di ciò che si è stato, di ciò che si è fatto e non si è fatto. La destra non ha stravinto contro il centro sinistra. Ha stravinto contro una assenza, un vuoto soprattutto di idee . E il centro sinistra è stato sconfitto da quel 37% di elettori che non è andato a votare. Poteva andare anche peggio. Nell’ultima settimana io stesso ho avvertito che tanti che avevano deciso di non votare, si sono poi turati il naso e hanno votato per la lista democratici e progressisti. E se non ci fossero stati i 5 stelle al sud e il terzo polo in alcuni collegi del nord, il centro destra sarebbe arrivato probabilmente alla soglia critica dei 2/3 di parlamentari. Ma non è di questo che vorrei parlare e tanto meno del PD. Il problema, a me pare, è che, non da oggi, una cultura di sinistra non c’è più, è stata dissolta. Invece l’ideologia della destra sembra diventata verbo assoluto, con in più, oggi le “verità di guerra”. Se oggi proponessi di nazionalizzare gli asset strategici del paese (se ne discute in Gran Bretagna e in Germania) o di eliminare la spesa nella sanità convenzionata a vantaggio del servizio pubblico, oppure di tornare a parlare dell’utilità sociale cui è condizionata la proprietà privata – come dice la nostra Costituzione – mi prenderebbero per matto. Eppure sono temi basici di una cultura di sinistra.
Ma c’è di più e di peggio. In un mondo sempre più piccolo la destra dei paesi capitalistici ha una visione globale, la sinistra no. Per non parlare del radicamento sociale, ovvero chi vuoi rappresentare con la tua politica, stante che non si possono tenere insieme tutti gli interessi. La destra lo sa, la sinistra no. La sintesi del tutto possiamo riassumerla nel concetto di “assenza di una cultura politica autonoma” da cui trarre le forze per battersi, che è poi la condizione di base per l’esistenza di un partito. Se non si passa per questa strettoia non è possibile una rifondazione della sinistra. Provo a sviluppare brevemente un aspetto di questo punto.
Serve una nuova lettura della globalizzazione
Non può esistere una sinistra che non abbia una lettura propria del mondo. Ne abbiamo avuta una sbagliata che si è rilevata nefasta: l’idea che la globalizzazione dei mercati e della finanza avrebbe avuto un’unica direzione in senso progressista: da occidente verso il resto del mondo, irradiandolo di cultura del diritto, di democrazia, di benessere. Fallita miseramente quella non se n’è avanzata un’altra. Non esiste sinistra che non sviluppi almeno una lettura critica del liberismo. Non limitandosi a denunciarne gli effetti sociali e ambientali, ma evidenziandone le origini, le cause di fondo da rimuovere, i soggetti principali da combattere.
La parte più dinamica e più giovane del mondo chiede un nuovo ordine internazionale.
Non esiste una sinistra che non abbia come priorità affermata ricercata pratica la Pace. Perché la precondizione per ogni processo di emancipazione dei popoli da forme sempre più sofisticate di dominio è che essi possano battersi per i loro interessi e diritti senza che a essi venga mossa guerra. Tutto il resto viene dopo e dipende dalla pace. A questo punto apro una parentesi sulla attualità. L’ho detto e scritto proprio in occasione di un incontro tenutosi a Pesaro: non si capisce niente di ciò che sta accadendo in Europa e nel mondo se non si parte dal fatto che è in corso una guerra del sistema del dollaro, che fa capo agli USA, contro quella parte di mondo che si vuole emancipare dalla sua supremazia. Un mondo che vuole liberarsi dal signoraggio del dollaro che consente (lo provano anche le radicali scelte della FED di questi giorni) di alimentare il proprio debito e la propria macchina militare scaricandone il costo su chi deve necessariamente fare operazioni in dollari nel mercato mondiale. E’ il neocolonialismo di cui parla anche Piketty come uno dei perni su cui, superato formalmente lo schiavismo e il colonialismo, abbiamo continuato ad alimentare il nostro surplus di ricchezza e alimentato la disuguaglianza globale.
Badate questo è un passaggio ineludibile per poter passare dal mondo unipolare al mondo multipolare che a parole molti dicono di volere. Sapendo che solo un mondo multipolare può coesistere competere, affrontare le grandi sfide globali – quelle del cambiamento climatico in primo luogo – senza farsi la guerra. Ma il signoraggio del dollaro è un macigno enorme da rimuovere ed è difeso dalla più grande macchina militare che l’umanità abbia mai conosciuto. Si dice che in vero si tratterebbe di difendere non lo strapotere di un sistema economico ma la democrazia i valori occidentali contro le autocrazie. Mi pare che le democrazie, vistosamente in crisi, spesso ridotte a oligarchie del denaro e lo stesso modello economico occidentale abbiano tanti scheletri nell’armadio da sconsigliare chiunque a mettere il confronto sul terreno della morale. Il passaggio storico è un altro ed è il frutto della espansione del capitalismo e del libero mercato. Quando la borghesia si mobilitò e fece le sue rivoluzioni contro le prebende parassitarie del sistema feudale e del potere temporale della Chiesa non fece discorsi di morale. Quelle rivoluzioni interpretarono la parte dinamica del mondo contro quella immobile, conservatrice e, appunto, parassitaria. Costruirono le condizioni minime perché un potere, quello borghese, si sostituisse a quello della nobiltà parassitaria. Oggi traslate questo concetto alla realtà attuale. La parte dinamica del mondo quella che lavora per tutti, che è giovane, ansiosa di affermarsi chiede strada e per farlo mette in discussione le prebende parassitarie e il signoraggio del vecchio occidente. E così sarà! È nell’interesse di tutti che questo cambiamento sia governato in modo pacifico. Non siamo dentro una dinamica capitalismo contro anticapitalismo, ma dentro ad una dinamica evolutiva del capitalismo.
Una sinistra che ha nel suo DNA la pace e la critica al liberismo non può che guardare con interesse questo processo perché riguarda la maggioranza della popolazione mondiale. Per capirci: recentemente a Samarcanda sono state dette cose importanti per una sinistra che vuole fare la sinistra, non perché chi le ha dette sia da prendere a riferimento, ma perché chi le ha dette sta cambiando il senso della storia; e la sinistra deve essere dentro questo cambiamento. Il compito nostro è che in questo percorso i diritti dei lavoratori, la redistribuzione della ricchezza, la parità fra i generi, la tutela dell’ambiente, nuovi modelli di benessere sociale abbiano il loro spazio, condizionino il percorso. Questa sì che è una competizione interessante da farsi.
L’Europa è decisiva
La sinistra può essere europeista, anzi secondo me deve esserlo, ma non può essere atlantista pur facendo parte di quella alleanza. Un’Europa forte economicamente, con una moneta altrettanto forte, con una sua autonomia sempre più marcata collide gioco forza con la guerra globale che gli americani muovono al nuovo mondo per mantenere il loro primato. Qui c’è la tragedia dell’Ucraina e il più grande regalo ( spontaneo o provocato il risultato non cambia) che la Russia ha fatto agli americani e il più grave danno che ha fatto all’Europa e alla coesistenza fra Russia e Europa. Ha offerto il destro alla Nato per sostituirsi all’Europa. E la prima vittima di questo sfaldamento europeo è la Germania, il colosso che ha trascinato l’Europa. Tagliare le gambe alla sua economia è come sparare al cuore di un progetto di autonomia europea sempre più marcato. Oggi l’alfiere degli americani in Europa è la Polonia che ha preso il posto della Gran Bretagna. E pensare che pochi mesi fa la volevamo mettere in castigo per il suo sistema scarsamente democratico, a proposito di morale! Questa progressiva sostituzione dell’Europa con la Nato che ci fa tornare indietro di alcuni decenni si aggraverà con l’affermarsi dei governi di destra nei singoli paesi. Meloni in coerenza con il MSI non ha problemi di atlantismo. Problemi di europeismo invece ne ha parecchi. Ecco perché tempo fa dicevo a proposito dell’Ucraina che si tratta di capire se vogliamo stare con il presidente dell’ANPI o con la Meloni. Oggi vorrei che stessimo con il Papa e i suoi recenti appelli che rimandano a memoria ad analoghi appelli fatti da Giovanni XXIII non hanno nel nostro paese un Togliatti capace di raccoglierli con un discorso di Bergamo (1963) dei giorni nostri.
Ma anche il discorso sull’Europa ha a che fare con la sconfitta della nostra sinistra. Aver propagandato un’idea neutra dell’Europa, come se in quella sede sparissero gli interessi nazionali e di classe, aver favorito trattati iperliberisti, non aver posto un argine al dumping fiscale e del lavoro all’interno dell’Europa ci ha reso difficile farci capire dai nostri operai dai nostri artigiani dai nostri giovani.
Tornare a essere colti e popolari
E vengo all’ultimo punto. Non esiste una sinistra che non sa chi vuole rappresentare. Se tu sei il quarto partito fra gli operai il terzo fra i disoccupati, evidentemente stai facendo un mestiere che non è il tuo. Come è potuto accadere? Non regge che sia la conseguenza dei cambiamenti intervenuti nel mondo del lavoro, non è sufficiente che oggi si siano rarefatti i luoghi in cui, aggregandosi, i lavoratori si formavano una coscienza collettiva. Sono aspetti rilevanti, ma a mio parere non esaustivi di una vera e propria perdita di una bussola sociale che non data da oggi. Eppure per tornare “in strada” dovremo necessariamente leggere i processi con gli occhi di chi vive male del proprio lavoro, di chi il lavoro non lo ha e immergerci nel vissuto reale di questi milioni di donne e uomini. Questo non significa, a mio parere, indulgere a un “plebeismo” che ci porterebbe fuori strada. Fatemi richiamare un aspetto che mi ha sempre convinto del PCI (e non è una bestemmia rifarsi a quella grande esperienza se oggi vince chi ha mantenuto la fiamma nel suo simbolo). I comunisti italiani aderivano alla realtà del mondo del lavoro che li percepiva automaticamente come il loro partito ma non assumevano l’ignoranza e l’approccio semplificatorio ai problemi come metodo di lavoro. Bisogna tornare a essere colti e popolari: niente di meno; lasciando ai liberali liberisti di poter svolgere a loro modo il loro percorso autonomo politico culturale.