Questo contributo parte da un’affermazione che potrebbe sembrare apparentemente provocatoria alla luce dei tempi che ci troviamo a vivere: siamo una società che misconosce il conflitto. Ciò non significa che non esistono dinamiche conflittuali, in quanto esse attraversano, spesso drammaticamente, le nostre società e si impongono nelle nostre vite, entrando anche violentemente nelle nostre case attraverso immagini, video, parole, slogan urlati sui social network. Sostengo che siamo una società che misconosce il conflitto perché, paradossalmente, nonostante i conflitti si moltiplichino e si complessino, noi non riusciamo ad elaborarli e a percepirli in quanto tali e, di conseguenza, non riusciamo a individuarli, ad attraversarli, a viverli. Ci accorgiamo di essi solo quando divengono violenti, imponendosi drammaticamente sulle nostre esistenze. Ciò si riflette prima di tutto nel linguaggio, che segnala una profonda confusione nel modo di interpretare gli eventi conflittuali. Spesso e volentieri utilizziamo indifferentemente termini come conflitto, violenza, guerra. In particolare, il linguaggio bellico è utilizzato diffusamente per indicare qualsiasi tipo di fenomeno, dalla guerra contro il virus pandemico, alla guerra contro il terrorismo, alla guerra contro i migranti, la cui presenza viene percepita come una vera e propria “invasione”.
Le costellazioni conflittuali e la violenza
L’incapacità di esprimere le varie sfumature del conflitto ha però un retroterra nell’incapacità di vivere il conflitto e di riconoscere gli elementi di negatività che esso porta con sé. Il conflitto, tuttavia, nonostante il bagaglio di fatica o di dolore che porta con sé, non è qualcosa di negativo. Esso, infatti, ci pone di fronte ad un dilemma morale, pratico, relazionale che diviene fattore propulsivo di cambiamento.
Nel conflitto sono presenti due elementi fondamentali: la relazione e il riconoscimento dell’altro. Laddove c’è conflitto, c’è una relazione difficile e dolorosa, che ci pone di fronte a una condizione di fragilità, sia essa percepita in noi, nell’altro o nella relazione stessa. Il conflitto è qualcosa che ci obbliga a metterci in gioco, a confrontarci con i limiti e le fragilità dell’altro, ma anche e soprattutto con le nostre. Il conflitto ci conduce, quindi, alla perdita dei confini, alla messa in discussione di un agire o di un’identità che sentiamo intimamente nostra.
Il conflitto, pertanto, ha una funzione generativa e trasformativa, perché ci spinge a uscire al di fuori di noi stessi e, nel confronto-scontro con l’altro, genera una messa in discussione del nostro agire o della nostra identità.
Da queste parole si evince che il conflitto non è qualcosa di negativo, anche se può essere qualcosa di molto faticoso e doloroso. Il conflitto, in ogni caso, non è identificabile con la violenza.
La violenza, infatti, può essere una caratteristica episodica nelle “costellazioni conflittuali”, ma è quell’elemento che deve rimanere entro confini limitati, altrimenti ne risulterebbe pregiudicata la relazione stessa. La violenza fisica o psicologica comporta un agire coercitivo sull’altro, al fine di condurre questi verso la nostra volontà, modificando forzatamente le sue scelte, i suoi desideri o le sue azioni. La violenza, però, può arrivare all’annientamento fisico, all’annullamento dell’altro.
Per cercare di comprendere come il conflitto può trasformarsi in violenza, è necessario brevemente discutere il tema, individuando alcuni caratteri del conflitto. Esso è un fenomeno complesso, difficilmente definibile, se non per categorie comportamentali. Ciò nonostante, si può provare a individuare alcuni caratteri tipici di quelle che definirei “costellazioni conflittuali”.
In primo luogo, si possono distinguere una serie di arene conflittuali, a seconda del livello della realtà sociale in cui il conflitto appare. Esso può essere “micro”, caratterizzato da relazioni faccia a faccia, “meso”, agito a un livello sociale intermedio quanto a dimensioni e complessità e “macro”, esteso a grandi aggregazioni politico-sociali, come le società, gli Stati o le comunità. In ciascuna di queste arene è poi possibile individuare conflitti che si manifestano al suo interno o tra unità simili dello stesso tipo, ossia conflitti inter-unità o intra-unità, che possono coinvolgere, a diversi livelli, persone, gruppi, organizzazioni, società. A caratterizzare il conflitto, dunque, può essere la dimensione, ovvero la quantità di persone coinvolte e la complessità, sia dello stesso conflitto che degli attori che ne fanno parte.
Nello studio dei conflitti, inoltre, possiamo assumere diversi approcci: l’approccio orientato all’azione, che definisce l’esistenza di un conflitto a partire dalla presenza di almeno due soggetti o attori con obiettivi incompatibili ma caratterizzati da azioni osservabili e l’approccio strutturale al conflitto, che pone l’accento sulle caratteristiche del sistema sociale e politico di cui fanno parte gli individui o i gruppi[1].
Concentrandoci in primo luogo sull’approccio orientato all’azione, è possibile affermare che, affinché si percepisca un conflitto, è necessario che ci sia una relazione tra gli agenti, ma anche che ci sia reciproco riconoscimento tra questi. È fondamentale, però, valutare anche un altro elemento: il riconoscimento dello stesso contesto conflittuale da parte degli attori, in quanto un attore può considerarsi in conflitto con un altro, ma questi può non percepire l’elemento conflittuale.
Dunque, affinché il conflitto possa essere definito in senso stretto è necessario che tutte le parti percepiscano l’elemento di conflittualità. Ciò consente di distinguere il conflitto in senso stretto da altre “costellazioni conflittuali” nelle quali alcuni attori possono non avere la percezione dell’incompatibilità che dà luogo al conflitto.
Quest’ultimo è, per esempio, il caso dell’oppressione, nella quale l’antagonista non è cosciente della limitazione e non è capace di intraprendere azioni per superare l’incompatibilità. Vi sono altri casi in cui, pur essendo percepito l’ostacolo alla propria autorealizzazione, l’antagonista non è un soggetto o un gruppo di soggetti, ma una struttura di relazioni sociali. In questi casi un agente entra in conflitto a livello “meso” e “macro” con una struttura sociale di cui auspica la trasformazione. Vi è, infine, la situazione nella quale una serie di vincoli strutturali, e non il comportamento cosciente di un oppressore, crei una limitazione all’autorealizzazione di persone e gruppi non ancora organizzati come attori. Si tratta in questo caso di conflitto latente.
Dunque, il significato dei conflitti è molto ampio, ma possiamo provare a concentrarci sul conflitto in senso stretto. Quest’ultimo è caratterizzato da almeno due aspetti che riguardano la relazione tra gli attori: a) deve esserci la possibilità di una interazione, cioè gli attori devono condividere uno stesso spazio sociale e b) deve esserci reciproco riconoscimento degli stessi come controparti nel conflitto.
A partire da queste condizioni base si distinguono tradizionalmente tre comportamenti base all’interno di una formazione conflittuale: la contraddizione di base, creata dall’incompatibilità tra gli scopi degli attori; il comportamento, ovvero l’insieme delle azioni osservabili con cui gli attori intendono condurre il conflitto per conseguire i propri obiettivi e impedire alla parte avversa di conseguire i suoi; gli atteggiamenti delle parti in conflitto, ovvero l’insieme delle percezioni, delle emozioni e delle disposizioni degli attori, originati dal conflitto o preesistenti ad esso, che determinano il comportamento e l’interpretazione della situazione. I comportamenti sono immediatamente visibili e costituiscono la punta dell’iceberg di ogni conflitto. Essi però sono accompagnati da percezioni, aspettative, schemi cognitivi, valori, tratti culturali che costituiscono la dimensione soggettiva, che si affianca a quella oggettiva del conflitto. Gli stereotipi e i pregiudizi rappresentano degli schemi mentali, spesso non coscienti, elaborati al fine di semplificare la realtà, riducendo la dissonanza cognitiva che l’incontro con l’alterità comporta. Essi possono alterare e inasprire la dinamica conflittuale, influenzando la relazione con l’altro o provocando addirittura una reazione violenta di chiusura, di allontanamento o di rifiuto. Lo stereotipo può arrivare, nella peggiore delle ipotesi, a negare il conflitto, trasformando la chiusura in un solipsismo rancoroso, pronto ad esplodere e a manifestarsi violentemente.
Nei conflitti in senso stretto è possibile ancora distinguere tre elementi: l’agente, l’azione e l’obiettivo. In base a questi tre elementi le azioni conflittuali possono essere classificate in quattro tipologie: la divergenza, che si verifica laddove un’azione che dovrebbe essere coordinata e cooperativa tende a obiettivi differenti; la concorrenza, che si determina quando un’azione è diretta verso un obiettivo conteso; l’ostacolamento, che si determina quando un’azione è diretta contro l’azione di un altro agente; l’aggressione, che si determina quando un’azione è diretta contro l’altro agente. Un caso specifico della concorrenza è la competizione che si determina quando, oltre a mirare allo stesso obiettivo, due o più agenti agiscono l’uno contro l’altro, attraverso atti di ostacolamento reciproco o addirittura di aggressione reciproca. La concorrenza, dunque, può diventare competizione e l’azione conflittuale rivolgersi direttamente contro l’altro.
Nei casi estremi il conflitto che tocca direttamente l’altro può trasformarsi in violenza fisica o psicologica. In genere, la violenza ha carattere strumentale: attraverso di essa l’agente intende raggiungere un determinato scopo, modificando il sistema di relazioni sociali di cui fa parte. La violenza, dunque, può essere un esito estremo del conflitto, ma essa deve rimanere contenuta entro certi limiti, altrimenti spezza la relazione che è alla base della stessa dinamica conflittuale.
È necessario, pertanto, distinguere tra conflitto e violenza. Nell’accezione comune, la violenza attiene alla sfera del comportamento e costituisce una scelta strategica possibile, un restringimento delle modalità di azione a disposizione degli individui e dei gruppi in conflitto. In questo senso, la violenza può essere definita come la capacità di infliggere un danno al corpo e/o alla psiche di altri individui. La violenza, inoltre, può essere distinta in violenza caotica o in violenza conservativa.
La violenza nello spazio politico: il capro espiatorio e la guerra
Passando a un approccio strutturale, sono molteplici le teorie di stampo filosofico-politico o antropologico che spiegano la natura della violenza e che cercano una risposta politica ad essa. In particolare, la violenza caotica è sempre stata considerata come una dimensione disgregativa, cui deve corrispondere una violenza ordinativa che può essere incarnata dalla sovranità o dallo Stato. Le società umane si sono da sempre poste il problema di neutralizzare o quantomeno limitare la violenza, al fine di costituire, preservare o rigenerare le relazioni umane che, con le dinamiche spesso conflittuali che portano con sé, rappresentano la base di qualsiasi orizzonte comune, sia esso comunitario o societario. L’esigenza ordinativa rappresenta l’essenza stessa della costruzione di un ordine politico, in quanto la stessa geometria del potere e una geometria ordinativa.
Ciò è evidente, in primo luogo, se consideriamo quale funzione politica abbiano i confini. Essi delimitano un interno da un esterno, individuando i limiti spaziali del “noi” e separandoli dallo spazio del “loro”. I confini individuano un’alterità che si pone in relazione con lo spazio del “noi”. Quando il confine è rigido e invalicabile, l’altro, ossia colui che sta dall’altra parte del confine, è considerato variabilmente con i tratti della negatività, in quanto in una dimensione nella quale la relazione conflittuale tende ad irrigidirsi, egli è considerato un nemico o un soggetto barbaro o selvaggio. Quando il confine è mobile e attraversabile la dimensione conflittuale consente di mantenere un carattere relazionale e le differenze si relativizzano. Quando il confine è rigido non vi è più spazio per la relazione, sia essa conflittuale o no, ma emerge l’opposizione diretta all’altro da noi che assume spesso i caratteri della violenza estrema.
Ma la geometria politica non implica solo l’esistenza di un confine, implica anche la determinazione di un soggetto o di una serie di soggetti che rappresentino una terzietà, indispensabile al mantenimento dell’ordine interno o esterno. Se colui o coloro che stanno fuori dai confini rappresentano una terzietà esterna, verso cui eventualmente dirigere l’ostilità in forma bellica, colui o coloro che stanno dentro i confini, essendo però identificati con dei caratteri differenziali, rappresentano quella terzietà interna che costituisce un criterio di paragone ordinativo. È tale la figura del nemico interno, ossia di colui o di coloro che vengono percepiti come diversi e in qualche modo minacciosi per questa loro diversità.
A chiarire la natura del terzo incluso come soggetto che può divenire nemico è l’importante contributo di René Girard, il quale nelle sue opere sottolinea il carattere di terzietà della vittima sacrificale come elemento in grado di produrre ordine, a partire da un atto di esclusione e di separazione. Girard parte dal definire la differenza tra violenza caotica e violenza ordinativa[2].
La violenza che Girard definisce “mimetica” scaturisce da una degenerazione del conflitto. Nell’opera del 1978, Delle cose nascoste fin dalla fondazione del mondo, Girard parla della violenza mimetica come quella violenza che si produce a partire da una dinamica conflittuale concorrenziale, che si esplica originariamente nei confronti di un oggetto, desiderato da due o più soggetti contendenti, ma che poi si trasferisce direttamente sui soggetti stessi, mediante una dinamica desiderante[3]. Desiderare l’oggetto posseduto dall’altro significa desiderare il desiderio che l’altro ha dell’oggetto, e in particolare il piacere che l’altro ottiene nel suo moto di appropriazione dell’oggetto stesso. Ma la dinamica desiderante diviene una dinamica violenta. Chi desidera si sente minacciato dall’analogo desiderio dell’altro e ogni soggetto percepisce lo spostamento dell’attenzione desiderante dall’oggetto al soggetto in quanto, in primo luogo, lo esperisce su se stesso e, dunque, lo proietta nelle intenzioni dell’altro.
Questa teoria ci spiega come da una dinamica conflittuale di tipo concorrenziale si passi alla competizione e poi all’aggressione violenta. Questa escalation violenta coinvolge tutti gli attori potenzialmente e ha come caratteristica quella di propagarsi all’infinito in assenza di un principio ordinativo o di un’autorità che possa limitare la violenza.
Nell’ordine sacrificale individuato da Girard la scelta di una vittima che possa essere soggetta alla violenza rappresenta il criterio ordinativo che gli individui scelgono per riportare l’ordine. La vittima sacrificale, dunque, come terzietà interna, rappresenta la dimensione nella quale la violenza caotica che minaccia la disgregazione sociale si può trasformare in violenza ordinativa, perché indirizzata e canalizzata verso un soggetto o una categoria di soggetti. In un ordine di tipo sacrificale, il principio ordinativo è dato dalla differenza della vittima sacrificale che deve essere evidente e vissuta come radicale, affinché i soggetti che fanno parte del “noi” possano trovare un criterio di identità.
Anche la violenza rivolta verso il nemico esterno è elemento ordinativo. La guerra, per esempio, viene invocata con finalità disparate, ma risponde sempre all’impossibilità di trovare un criterio ordinativo alternativo. Si mandano i cittadini in guerra per difendere qualcosa, un territorio che si rivendica, un sistema di valori, un’ideologia, un’identità considerata minacciata, una religione, un’etnia, una razza, ecc. In ogni caso, però, la finalità è quella di risolvere il conflitto con la violenza, presente sia nella guerra offensiva che in quella difensiva.
La guerra rappresenta una degenerazione del conflitto, in quanto ne manifesta l’esito estremo e l’estremo limite, implicando l’utilizzo della violenza a fini offensivi o difensivi. Chiaramente i due livelli sono da sempre stati separati: la guerra è considerata lecita in genere a fini difensivi, mentre non è ammissibile con finalità offensive. La teoria della “guerra giusta” ha posto le basi della definizione della legittimità della guerra nell’elemento dell’ingiuria, cioè dell’essere colpiti e doversi difendere. Ma questa differenza non cancella il dato di fatto: alla base della guerra c’è la violenza, che colpisce indiscriminatamente militari e civili e che rappresenta il limite estremo cui può giungere il conflitto, eliminando di fatto la possibilità della relazione che il conflitto sottende.
La mediazione politica dei conflitti: la terzietà istituzionale
La teoria hobbesiana rende conto di questa dimensione degenerativa della guerra. In primo luogo, Hobbes sostiene che la guerra tra gli Stati può identificarsi con la condizione di violenza caotica presente nello stato di natura. Lo spazio internazionale, infatti, nel periodo a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, era uno spazio privo di una mediazione, di una regolamentazione, nel quale vigeva la legge del più forte. Solo nel contesto della regolamentazione internazionale e della creazione di istituzioni internazionali, che hanno come obiettivo la mediazione e la composizione dei conflitti, la situazione descritta da Hobbes ha trovato una sua parziale anche se, purtroppo, non risolutiva soluzione. Rimane però alla base della tematica bellica il presupposto dell’esercizio della violenza come elemento che determina l’esaurirsi della relazione.
Hobbes è conosciuto come il filosofo che ha pensato la strutturazione dell’ordine politico come antidoto alla violenza indifferenziata, identificata nella condizione dell’uomo allo stato di natura. Nella sua più importante opera politica, Leviatano, o la materia, la forma e il potere di uno stato ecclesiastico e civile, del 1651, il filosofo inglese sottolinea che la condizione originaria dell’uomo è di agire ai fini dell’autoconservazione. Nella sua impostazione materialistica e sensistica, l’essere umano è sospinto verso ciò che gli procura piacere e che identifica in massimo grado con il bene. Ma ciò che è bene per l’uomo è in primo luogo ciò che ne facilita il movimento. La dinamicità del movimento indica la tensione desiderante dell’uomo, che si indirizza sempre verso la sopravvivenza, ossia la conservazione e il progressivo miglioramento delle proprie condizioni di esistenza. Questo orizzonte auto conservativo, che condiziona l’individuo con i caratteri della necessità, produce nella filosofia hobbesiana la coincidenza del tema del desiderio con quello della violenza. Il desiderio di autoconservarsi, in una condizione di completa uguaglianza tra gli individui nella possibilità di darsi la morte per assicurarsi le condizioni migliori per sopravvivere, produce paura reciproca e la paura reciproca dà vita a una condizione generalizzata di potenziale violenza reciproca[4].
Anche in Hobbes, così come in Girard, la violenza caotica si genera perché le possibilità del conflitto e della sua ricomposizione risultano neutralizzate, a causa della costitutiva tendenza degli individui ad agire per garantire a se stessi la sopravvivenza. Nella definizione delle regole che sono alla base delle leggi di natura e nel riconoscimento del carattere razionale dell’essere umano Hobbes individua un criterio in grado di definire una prima ricomposizione dei conflitti (es. pacta servanda sunt). Tale soluzione, però, non è risolutiva, in quanto la legge di natura vincola solo in foro interno e dunque può essere considerata dagli individui esclusivamente come un insieme di regole prudenziali che li spingono verso la convivenza, ma che non hanno i caratteri della stabilità.
Proprio perché gli individui sono uguali nella forza o nelle strategie che possono mettere in campo ai fini della sopravvivenza, la violenza non può mai essere espulsa dalle dinamiche della convivenza. L’individuazione di un’istanza terza sovrana rappresenta, pertanto, la soluzione delle dinamiche violente. La terzietà interna del sovrano trasforma la violenza caotica in violenza ordinativa, in quanto il sovrano sarà l’unico in grado di avere il monopolio legittimo della forza.
In tal caso, la guerra sarà giustificata in quanto, come indicato già dalla medievale tradizione della “guerra giusta”, uno degli elementi principali che definisce l’ammissibilità della guerra è che essa sia dichiarata da un’autorità legittima[5].
Il sovrano è colui che può utilizzare la violenza in maniera legittima, sottraendola a tutti gli altri individui e producendo in questo modo un ordine politico incentrato sulla pace. La guerra diviene il meccanismo che consente di spostare la violenza oltre i confini, rivolgendola contro il nemico esterno.
A questo punto, però, è necessario chiedersi quale rapporto si produce tra le due forme di terzietà interna che abbiamo finora individuato: la vittima sacrificale e il sovrano.
Si può dire che la sovranità, in qualsiasi forma istituzionale si presenti, rappresenta l’istanza ordinatrice e ha il compito di porsi a garanzia della mediazione dei conflitti. In questo senso, il sovrano e la vittima sacrificale assumono una funzione simile, ma dal carattere inversamente proporzionale. Più forte è la garanzia di mediazione dei conflitti operata dalla terzietà sovrana, minore sarà la tentazione di trovare nemici interni che dovranno essere esclusi, confinati, etichettati o messi a morte. La violenza indifferenziata, infatti, tende a rifiorire e a canalizzarsi nelle dinamiche vittimarie laddove la terzietà statale, istituzionale o sovrana, non riesce a garantire una mediazione efficace e una trasfigurazione dei conflitti.
Ma possiamo porci un’altra domanda: quali sono le modalità per mezzo delle quali la terzietà sovrana, statuale o istituzionale opera mediando i conflitti?
Il primo aspetto da considerare quando si parla di mediazione del conflitto è il tema del mantenimento del conflitto. Questo elemento, infatti, è considerato indispensabile affinché il conflitto non si trasformi in violenza. Uno Stato che voglia garantire la mediazione dei conflitti deve garantire il conflitto, ma deve fare in modo che esso rimanga entro determinati limiti, sia in termini di intensità sia in termini di possibilità. La mediazione dei conflitti, infatti, presuppone che il conflitto non giunga mai a livello estremo di intensità da implicare una violenza distruttiva, rivolta contro il nemico, sia esso parte in causa del conflitto o sia esso lo Stato stesso.
In secondo luogo, la mediazione del conflitto implica l’esistenza delle parti. Più parti ci sono più produttiva può essere la mediazione del conflitto, in quanto la garanzia del pluralismo garantisce una maggiore relativizzazione del conflitto.
In terzo luogo, la dolcezza degli strumenti da applicare alla mediazione del conflitto. Una conflittualità più o meno intensa non può essere mediata con strumenti violenti; essa, semmai, viene eradicata e soffocata nel sangue, ma così facendo si agisce solo sull’opposizione visibile, incentrata sulle azioni e sui comportamenti degli individui, moltiplicando, al contrario, l’ostilità e il senso di oppressione di chi originariamente solleva l’istanza conflittuale. Un regime autoritario che soffoca nel sangue l’opposizione e il conflitto non fa altro che preparare una conflittualità ancora più forte nel futuro.
Ricapitolando, possiamo dire che la mediazione istituzionale o statuale funziona meglio quando è esercitata in un contesto sociale in cui il conflitto non è ostacolato, ma è esplicato perlopiù con modalità pacifiche; laddove vi sia una legittimazione pluralistica dei soggetti confliggenti; laddove vi sia riconoscimento della pluralità delle istanze conflittuali; laddove chi esercita il potere non utilizzi la violenza e non imponga una visione assoluta che possa soffocare la molteplicità delle istanze, riconducendole a una forzata unità.
Tutte queste caratteristiche sono tradizionalmente identificate con la gestione del potere in una società di tipo democratico. Laddove prevalga, invece, un potere di tipo autoritario, totalitario o populistico le condizioni per una mediazione dei conflitti non esistono, in quanto la violenza può diventare uno strumento nelle mani del soggetto che governa e che può inficiare la pacifica esplicazione delle istanze conflittuali. I regimi autoritari e totalitari, annullando il conflitto, individuano uno o più nemici interni al fine di garantire l’ordine sociale.
Anche le società democratiche, tuttavia, devono gestire in maniera corretta le politiche che mirano alla mediazione del conflitto, specialmente in contesti multiculturali nei quali le dinamiche conflittuali sono molteplici e ricomprese necessariamente entro un medesimo spazio politico.
Una gestione democratica del conflitto implica l’idea che la terzietà sovrana funga da elemento mediatore, rappresentando l’aspetto referenziale interno a partire dal quale commisurare le identità di tutti gli altri individui che vivono e operano nello spazio politico. Ciò significa che l’elemento mediatore definisce il criterio dell’unità e anche il principio di unificazione tra soggetti che sono diversi tra loro e che tali in qualche modo devono rimanere. Ciò è possibile se il criterio di unificazione che l’istanza mediatrice propone non è assoluto, ma è aperto a una visione relativistica e mobile. Ogni individuo, a partire dalle proprie differenze, deve poter trovare un criterio di unità che non cancelli la differenza. L’identità che sta alla base del principio di identificazione e mediazione del conflitto è un criterio non assoluto, ma relativo.
Si può dire che l’identità politica su cui si incentra il principio di mediazione politica debba essere pensata e agita come un criterio regolativo e non come un criterio costitutivo, sulla base di un modello riflessivo-interpretativo e non di un modello ascrittivo-normativo. Il modello regolativo ci indica, infatti, quali sono gli elementi che ci uniscono, pur partendo dal presupposto che si tratta un’identità artificiale, relativa e basata sul carattere relazionale degli individui. La relazionalità, e con essa anche la conflittualità che può generarsi, rappresentano, quindi, un elemento fondamentale, in tale accezione regolativa dell’identità. Essa implica che la relazione tra gli individui sia mediata dalla relazione che ciascuno di essi ha con l’istanza terza.
Questo significa che la relazione orizzontale tra gli individui trova un criterio di regolazione nella relazione verticale di ciascuno con l’istanza terza. Ciò che unifica gli individui è un’identità data nell’istanza terza, non dall’istanza terza.
Nell’elemento relazionale non vi è un annullamento delle differenze, c’è incontro o scontro tra differenze. In questo senso, Francesco Remotti parla di somiglianze e non di identità[6]. Esse sono presenti già nella relazione, ma diventano consapevoli da un confronto con l’istanza terza che funge da mediazione. Tale istanza, mediando la relazione anche nei suoi aspetti conflittuali, conferisce unità nella diversità, fornisce un criterio di identificazione che però non è, e non può essere, assoluta, perché non annulla le differenze, le rende relative, facendo emergere gli elementi di similarità condivisi dai soggetti o costruendoli, laddove non esistano.
Questo secondo aspetto è fondamentale, perché non è escluso che gli elementi che producono le somiglianze debbano essere costruiti politicamente e culturalmente; essi possono essere anche interamente inventati e, soprattutto in questo caso, devono mantenere i caratteri della non assolutezza e della non rigidità.
Le società immunitarie
Quanto detto in merito alla mediazione del conflitto non esclude il fatto che la terzietà sovrana possa ricercare la via breve della vittimizzazione del nemico interno, piuttosto che esercitare strumenti miti e democratici di composizione della violenza. Infatti, anche se lo strumento politico intende raggiungere l’obiettivo dell’annullamento della violenza, le dinamiche interne possono favorire un esercizio selettivo della violenza verso alcuni individui o categorie di individui, al fine di mantenere l’ordine politico e garantire la difesa sociale.
Roberto Esposito, a tal proposito, ha parlato del carattere immunitario della costruzione dell’ordine politico e sociale[7]. Seguendo la metafora del vaccino, le società immunitarie producono un ordine sociale a partire dalla creazione e dal mantenimento di una “parte maledetta”, ossia di uno o più individui o categorie di individui, considerati “terzi esclusi”, ma che continuano a vivere ad agire nello spazio del “noi”. Questi nemici interni, che rispondono al modello della vittima espiatoria di Girard, consentono alla terzietà sovrana di mantenere l’ordine, innalzando in continuazione gli imperativi della difesa sociale ed enfatizzando la paura nei confronti di coloro che, per qualsiasi motivo, non vengano considerati appartenenti allo spazio politico nel quale di fatto vivono e devono continuare immunitariamente a vivere.
Questa logica, perfettamente compatibile con l’esplicazione formale dei principi democratici, rappresenta il modo attraverso il quale la terzietà sovrana garantisce la continua creazione e il periodico rafforzamento dell’ostilità contro il nemico interno, per garantire la stabilità e l’ordine sociale. Difendere la società, infatti, significa mantenere l’ordine, non annullando la violenza, ma spostandola ad arte su determinati soggetti o categorie di soggetti. Nei confronti di questi ultimi non si produce conflitto, in quanto i meccanismi di vittimizzazione spezzano la possibilità stessa della relazione, trasformando l’ostilità direttamente in violenza o confinando il nemico interno in spazi ristretti e separati, come i campi (campi profughi, campi di accoglienza, campi per terremotati, campi rom, ecc.). Infatti, i campi sono i non luoghi del confinamento, gli spazi in cui conteniamo o rinchiudiamo coloro che non vogliamo vedere, sentire, incontrare. Sono spazi della non relazione, e come tale, anche del non conflitto. Sono luoghi nei quali la violenza non lascia spazio alle possibilità generative della relazione conflittuale.
Nella logica immunitaria del nemico interno e dei campi, la terzietà della vittima sacrificale e la terzietà sovrana non sono più inversamente proporzionali, ma divengono l’una il volto inumano e violento dell’altra.
La mediazione politica dei conflitti: le parole per “dire” la relazione
Per evitare che la terzietà sovrana cada nel rischio di esercitarsi immunitariamente contro un nemico interno o esterno è necessario, dunque, allontanarsi dalla dimensione strettamente identitaria e aprirsi a un linguaggio e ad una prassi politica che promuova e favorisca il discorso delle differenze e delle somiglianze, nell’ottica di una comune convivenza. Ciò consente di assicurare l’esplicazione del conflitto in forme simboliche, mediate o comunque tali da non degenerare in violenza.
Consente, inoltre, di garantire il pluralismo delle idee, delle fedi, delle credenze, delle condizioni e delle scelte di vita, operando entro un orizzonte che favorisca la partecipazione e la moltiplicazione degli spazi relazionali. Ciò significa, in ultima istanza, provare a pensare e a vivere lo spazio politico come dimensione relazionale, facendo crescere nel linguaggio e nella prassi i germi positivi della relazione: cura, dialogo, mediazione del conflitto, vulnerabilità, simpatia, tolleranza, pluralismo, rispetto della dignità.
In conclusione, vorrei provare a chiarire il significato di alcuni di questi termini che affondano le radici nella dimensione relazionale intersoggettiva e partecipativa, ma che sono dei presupposti fondamentali affinché anche nello spazio politico la relazione non degeneri ed il conflitto possa rimanere entro l’alveo della nonviolenza.
La cura è un concetto che attiene strettamente alla dimensione del reciproco riconoscimento nel contesto relazionale. Col termine cura non si fa riferimento a un’imprecisata propensione oblativa di una parte curante rispetto a una parte curata. Essa non è ancorata esclusivamente alla dimensione affettivo-emozionale ne all’universo del femminile, come per secoli si è pensato, facendo riferimento alla vocazione privatistico-riproduttiva connessa alla relazione di cura. Il pensiero femminista ha contribuito a rilanciare una visione della cura come dimensione politicamente rilevante. La cura implica, in questo senso, un reciproco riconoscimento e definisce un presupposto non antropocentrico, estendibile non solo all’alterità, ma anche a tutto ciò che ci circonda.
Questo concetto è però strettamente legato a quello della vulnerabilità. Curare non significa esclusivamente andare incontro alle esigenze dell’altro. Significa riconoscere la propria vulnerabilità proprio a partire dalla dinamica relazionale e nel confronto con la vulnerabilità dell’altro. L’atteggiamento solidale che rappresenta l’origine e il fine delle azioni di cura è generato dalla constatazione di una costitutiva condizione di carenza antropologica dell’essere umano e della sua altrettanto costitutiva necessità di aprirsi all’altro, in un moto di rielaborazione e ridiscussione dei confini del sé. La relazione di cura e il riconoscimento della vulnerabilità rappresentano, dunque, due aspetti fondamentali a partire dai quali ripensare il rapporto politico tra l’io e l’altro, e in termini più ampi, tra l’io e il mondo. Si tratta di ripensare questo rapporto entro una prospettiva non antropocentrica e non predatoria, nell’ottica di un’etica che vada oltre la dimensione meramente intenzionale di tipo kantiano e che si apra a una visione ampia della responsabilità.
Allo stesso modo, risulta importante approfondire il concetto di simpatia. Σύν-πάϑος significa letteralmente sentire insieme. La simpatia è ciò che produce l’uguaglianza, pur nel rispetto e nel mantenimento delle differenze. Ciò implica quell’elemento di mediazione politica di cui si parlava precedentemente. La dimensione politica, infatti, è ciò che deve consentire la simpatia, ciò che fa di questa l’emozione politica per eccellenza. La simpatia si oppone alla paura, in quanto conduce gli individui a esperire la necessità di vivere insieme, cercando di superare gli aspetti emotivi o pregiudiziali che producono l’allontanamento e condividendo profondamente, ossia emotivamente e razionalmente, obiettivi, idee, prassi. In questo senso, la simpatia è ciò che sta alla base della partecipazione, come condivisione di intenti, di idee, di azioni, di orizzonti di significato.
Passiamo ora ad alcuni concetti più direttamente connessi alla dimensione tradizionalmente politica. Il concetto di equità è alla base di una visione politica che si incentra sul rispetto delle differenze e delle somiglianze. L’equità sociale, infatti, configura un criterio di giustizia distributiva che parte dal presupposto che gli individui siano tutti differenti tra loro e posti in condizioni economico-sociali differenti. Ciò presuppone, dunque, che tutti gli individui nella loro diversità possano accedere a condizioni di vita dignitose, attraverso un impegno attivo dello Stato nei confronti dei soggetti più deboli e una distribuzione delle risorse che dia di più a chi ha meno. Questa è la concezione di giustizia che dovrebbe essere perseguita in un contesto democratico.
Infatti, come sottolinea acutamente Norberto Bobbio, mentre la giustizia in senso liberale implica che tutti gli individui siano uguali in origine e per condizione naturale, ma che l’evoluzione della vita politica possa e debba produrre delle differenze in base alle capacità e ai meriti, la giustizia in senso democratico parte dal presupposto della differenza degli individui, per mirare alla determinazione di un’uguaglianza che si realizza mediante l’intervento attivo dello Stato in funzione di compensazione[8].
L’idea della giustizia distributiva come equità sociale presuppone, quindi, che lo Stato sia quel terzo sopra le parti che consente alle parti stesse di essere uguali di fronte alla legge e non di essere uguali come condizione originaria. La frase “la legge è uguale per tutti” e la frase “tutti sono uguali di fronte alla legge” non esprimono esattamente lo stesso concetto. La prima frase è più precisa della seconda. In quest’ultima dev’essere, infatti, specificato che l’uguaglianza degli individui si produce solo nel loro rapportarsi alla legge e quindi solo nella referenza terza che questa garantisce. Quest’idea salva la specificità individuale e definisce il criterio di uguaglianza nella legge.
Anche il termine pluralismo è di importanza fondamentale, in quanto implica che tutte le identità possono avere uno spazio di riconoscimento e di parola. Secondo Francesco Remotti ciò implica una politica della con-vivenza che vada oltre il co-esistere, cioè la mera presenza reciproca nello spazio politico[9]. Con-vivenza significa creazione di uno spazio relazionale che può esistere solo tramite il dialogo attivo, l’ascolto, il riconoscimento reciproco. Solo l’attitudine alla con-vivenza con le differenze può rendere effettivo il pluralismo e ciò può avere significative ricadute sulle dinamiche di mediazione del conflitto.
Alla luce di quanto detto, vorrei tornare alla tematica trasformativa del conflitto. Nella prima parte di questo contributo si sostiene che la principale cautela da mettere in atto per evitare che il conflitto si trasformi in violenza è il riconoscimento della sua dimensione trasformativa e generativa. Ciò è possibile solo se la con-vivenza è intesa come creazione di uno spazio germinativo, uno spazio complesso in cui l’io sappia anche essere noi e viceversa.
[1] Arielli E., Scotto G., Conflitti e mediazione. Introduzione a una teoria generale, Bruno Mondadori, Milano, 2003.
[2] Girard R., La violenza e il sacro, Adelphi, Milano, 1992.
[3] Girard R., Delle cose nascoste fin dalla fondazione del mondo, Adelphi, Milano, 1996.
[4] Hobbes T., Leviatano, o la materia, la forma e il potere di uno stato ecclesiastico e civile, Laterza, Roma-Bari, 2008.
[5] Corey D.D., Charles J. C. (a cura di), The Just War Traditionː An Introduction, Washington, Soc 51, 188–190 (2014), https://doi.org/10.1007/s12115-014-9761-6
[6] Remotti F., Somiglianze. Una via per la convivenza, Laterza, Roma-Bari, 2019
[7] Esposito R., Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino, 2020
[8] Bobbio N., L’età dei diritti, Einaudi, Torino, 2014
[9] Remotti F., Somiglianze. Una via per la convivenza, op. cit.