(…) L’adattamento reciproco del paese reale e del regime fu per alcuni anni fattivo ed efficace, mentre per gli osservatori stranieri l’Italia rappresentava un caso di riuscita neutralizzazione della minaccia bolscevica. Il fascismo seppe insomma interpretare per alcuni anni le esigenze della classe dirigente italiana (liberale e cattolica), seppe attrarre l’interesse e le simpatie dell’opinione pubblica internazionale e riuscì anche a guadagnare un consenso di massa, presso i ceti popolari. Se collocate in questo quadro, le guerre di aggressione in Africa e in Spagna, le leggi razziali e infine l’entrata nella guerra mondiale rappresentano un progressivo scarto e infine una frattura.
Autorità, ordine e giustizia versus libertà, eguaglianza e fraternità
Con ciò non s’intende dire che vi sono stati due fascismi e due Mussolini (per quest’ultimo, semmai, sarebbe il caso di aumentare, e di molto, il numero delle “personalità”, dall’iniziale socialismo in avanti), ma che, come si espresse Enzo Santarelli, si possono isolare due decenni alquanto diversi», marcati, rispettivamente, dal tentativo di costruire uno Stato fascista e dalla progressiva rivelazione del suo fallimento
Entrambi questi periodi presentano motivi di interesse, conflitti interni e dinamiche politiche e ideologiche anche molto accese. È difficilmente contestabile, però, che l’espansività culturale vantata dal fascismo italiano nel corso degli anni venti venne successivamente a mancare. Proprio al termine di questo ciclo, nella primavera del 1932 Antonio Gramsci scrisse che dell’attuale
«guerra di posizione» il fascismo italiano era il «rappresentante, oltre che pratico (per l’Italia), ideologico, per l’Europa». Gramsci alludeva alla capacità, che il fascismo mostrò di avere, di propagandare la propria “soluzione” del conflitto di classe, raggiunta mediante la sua gestione pubblico-statale, sia con l’inclusione
delle parti sociali in una struttura burocratica comune sia con la creazione di enti capaci di farsi portatori delle varie stanze ed esigenze promananti dall’economia e dalla società. In quel decennio, insomma, il fascismo poté apparire come la forma di governo e di Stato che era riuscita a superare la “palude” del parlamentarismo – scivolato nel dopoguerra europeo in una situazione di progressiva paralisi e impotenza –, sostituendo «autorità ordine e giustizia» al trinomio giacobino di libertà, eguaglianza e fraternità.
Un sistema policentrico ma anche un legame diretto della massa con il duce
Non staremo qui a ripercorrere le tante manifestazioni di simpatia che il regime ricevette in quegli anni. Ci preme soltanto sottolineare che si tratta di testimonianze che, sebbene enfatizzate dagli organi di stampa italiani, poggiano sulla funzione, effettivamente svolta dal fascismo, di freno allo sviluppo sindacale e politico dei ceti popolari, non solo mediante la repressione e un capillare sistema di controllo, ma anche con l’accoglimento di una serie di rivendicazioni avanzate da tali ceti (dal 1923 in avanti Mussolini si vanta ripetutamente di avere introdotto in Italia una «legislazione sociale all’avanguardia»). A ciò si aggiunga che il fascismo fu tutt’altro che un organismo monocratico e assoluto. Si può anzi dire che fu un sistema policentrico, anche se ruotante attorno al ruolo indiscusso di Mussolini, e policratico, con la convivenza di sistemi di potere concorrenti e in parte incongruenti. Anche per saldare ideologicamente un tessuto non unitario dal punto di vista politico, l’intervento degli intellettuali e degli artisti fu richiesto e appoggiato. Ciò si tradusse in un grande attivismo della cultura e nella vivacità delle riviste fasciste, che finirono per rappresentare anche posizioni in contrasto reciproco. E naturalmente tutto ciò indusse anche uno sviluppo ipertrofico del simbolismo e dei rituali politici, funzionali a istituire un legame diretto e verticale della massa con i capi – e in particolare il duce – ma anche a unificare orizzontalmente una base sociale variegata.
Il fascismo e il suo capo, 1921-1932
La storiografia dell’ultimo cinquantennio ha, pur nella diversità di approcci, ampiamente riconosciuto e studiato tutti questi aspetti, da quello economico e sociale a quello politico e simbolico, volta a volta insistendo su uno o sull’altro. Ciò si è accompagnato a un analogo lavoro sulla figura di Mussolini: un lavoro
che sempre più si è sforzato di comprendere la sua personalità e di contestualizzare le sue prese di posizione. A fronte di quest’opera di assidua ricostruzione storiografica, si registra tuttora uno scarso interesse per i testi del principale promotore, artefice e, per molti aspetti, anche unico interprete autorizzato “in ultima istanza” del fascismo come movimento, partito, regime e forma peculiare di Stato. In effetti, le pubblicazioni di testi mussoliniani sono rimaste, dopo il 1945, quasi esclusivamente confinate nel raggio dell’eredità storica del fascismo (…).
A fronte di questo scarso interesse per Mussolini come autore si registra invece un interesse più vivo e sistematico per altri protagonisti del ventennio fascista, come (…) Giuseppe Bottai (…) o Giovanni Gentile (…). Non è necessario osservare che Mussolini, come “scrittore” e come “autore”, non è all’altezza di Volpe, Gentile, Rocco e Bottai (…) Ma la sua “parola” ha sempre un peso straordinario nell’indirizzare, moderare, suscitare, modulare le spinte anche contrastanti che sorgono dall’interno del movimento, del partito e poi del regime. I suoi interventi pubblici – dichiarazioni, interviste, discorsi (subito riprodotti o riassunti dal «Popolo d’Italia» e ripubblicati in altre riviste e bollettini), articoli e saggi – sono per questa ragione di straordinaria importanza, e giustamente sono
stati valorizzati nelle molte pagine storiche scritte sul fascismo e sul suo “capo” (…). Certo, il ruolo di Mussolini fu importante nel mondo socialista, come direttore dell’«Avanti!» e come agitatore, giornalista e tribuno. Ed è anche vero che tutto il periodo successivo, dal 1914 al 1920, è un autentico crogiuolo in cui, nel fuoco della lotta politica, vengono “inventati” motivi ideologici in parte o del tutto inediti, mescolando arditamente tradizioni ideali assai diverse. Rimane però fermo che solamente lo studio dei suoi interventi del periodo che va dal 1921 al 1932 aiuta a intendere la peculiare conformazione del fascismo italiano. È in questo giro di anni, infatti, che Mussolini si confronta con la politica nel ruolo di dirigente, parlamentare e infine uomo di governo, “traducendo” quotidianamente i termini della disputa politica in indicazioni di carattere generale, che a loro volta diventano gradualmente i capisaldi di una costruzione nuova. Le fattezze dello Stato fascista, dello Stato nuovo che i fascisti intesero edificare, si rendono visibili in questo costante travaglio, che va esaminato con la pazienza necessaria, affinché gli elementi costanti possano emergere ed essere distinti da quelli che trascorrono rapidamente, in quanto legati alle contese del momento e pertanto solo strumentali. Nel 1932, con il decennale, quest’opera è compiuta e il fascismo imbocca una strada in parte nuova, di crisi e disgregazione progressiva dei suoi presupposti (…).
Uno Stato che «prevede» e «provvede»
(…) il profilo di Mussolini come uomo politico e allo stesso tempo pensatore e ideologo risulta, a parere di chi scrive, con forte evidenza. Il suo grande “tatticismo”, che è l’efficace chiave di lettura proposta da De Felice nel suo dettagliato lavoro biografico, cessa di essere l’unico Leitmotiv se, a fianco della necessità di prendere posizione sui vari “tavoli” per poter conquistare o mantenere il potere, si tiene conto di altre due dimensioni. Anzitutto, l’obiettivo unitario, pur nelle continue deviazioni e rettifiche, della costruzione di uno Stato che fosse realmente nuovo rispetto a quello liberale-moderno. In secondo luogo, il catalogo di temi, argomenti e “miti” a cui Mussolini ricorre per rendere pensabile e quindi attuabile tale obiettivo. Se puntiamo il faro dell’attenzione su questi due piani, una traiettoria diventa leggibile, nelle sue stesse incoerenze e aporie di fondo: una traiettoria che dal corpo a corpo con il liberalismo conduce verso l’idea di uno Stato che «prevede» e «provvede», uno Stato “totale” nel cui ambito i concetti di libertà e di individuo acquisiscono un nuovo significato, uno
Stato la cui missione è la produzione di un essere umano nuovo, inedito. Questo Stato, tuttavia, tiene (o dovrebbe tenere) fuori di sé un partito che nel discorso di Torino del 23 ottobre 1932 viene non casualmente definito «un Ordine». Esso, cioè, sollecita (o vorrebbe sollecitare) energie capaci di scuoterlo e stimolarlo, energie sempre fresche che colpiscano da dentro, ma insieme da fuori, la macchina della “burocrazia” ampliatasi a dismisura. Negli anni che esaminiamo c’è insomma il riconoscimento almeno implicito della difficoltà di mantenere aperto il progetto di una grande politica, quando esso si deve tradurre nei linguaggi delle tecnologie della società, del corpo e della cura, per poter avere la
“presa” totalitaria presupposta dalla sua stessa magnitudine. C’è, in definitiva, una riflessione sul posto della politica in un mondo che sempre più tende a diventare “amministrazione”.
(Estratto dalla Premessa al volume di Fabio Frosini, La costruzione dello Stato nuovo. Scritti e discorsi di Benito Mussolini 1921-1932, Venezia, Marsilio, 2022).