IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

A proposito di Gaetano Azzariti, Diritto o barbarie. Il costituzionalismo moderno al bivio

Il destino di un libro, il suo successo, la sua durata nel tempo dipendono da molte cose. Il libro di Gaetano Azzariti ha il pregio di possederle praticamente tutte, a partire dall’incipit, dal suo felice carattere tranchant.

[Relazione di Antonio Cantaro alla Presentazione del libro di Gaetano Azzariti, Diritto o barbarie. Il costituzionalismo moderno al bivio.

La registrazione dell’evento è disponibile al seguente link ZOOM]

1. Il destino di un libro, il suo successo, la sua durata nel tempo dipendono da molte cose. Il libro di Gaetano Azzariti ha il pregio di possederle praticamente tutte, a partire dall’incipit, dal suo felice carattere tranchant.

Gaetano, infatti, instaura da subito una connessione emotiva con quelli che elegge a suoi lettori privilegiati. “Questo libro, scrive nel Prologo, non parla alle anime chete, si rivolge a chi vuol cambiare il corso degli eventi, alle anime inquiete, a chi sente il disagio del tempo presente”.

È un libro che chiama immediatamente all’azione del pensiero, ad un pensiero agente. È, dunque, un’opera, assai più di un libro. E chi lo scrive è un autore prima ancora che uno specialista; anche se dello specialismo, dello specialismo giuridico, questa opera si nutre in lungo e in largo. Una sapienza accumulata in decenni che fa sì che Gaetano può essere considerato, senza tema di smentita, uno dei più eminenti e lucidi costituzionalisti italiani.

2. Ancor prima dell’incipit, l’opera di Gaetano inchioda e stupisce chi si accinge a leggerla per il suo ancor più tranchant ed evocativo, titolo. Diritto o barbarie.

Non è un titolo ad effetto, non è solo questo. Gaetano ci dirà. È, innanzitutto, almeno per come l’ho interpretato io, la rivendicazione discreta, ma inequivoca, di un immaginario potente e controverso che ha attraversato la storia del ‘900 europeo e a cui gli avvenimenti di questi anni e, ancor più, di questi drammatici mesi di guerra restituiscono pieno diritto di cittadinanza.

Un immaginario potente e controverso già all’interno del marxismo in cui esso ha a lungo circolato lungo nel secolo breve come una seconda pelle, come la certezza di un destino. Quel Socialismo o barbarie ‘ufficialmente’ usato per la prima volta in un pamphlet contro la guerra scritto in prigione nel 1915 da Rosa Luxemburg (La crisi della socialdemocrazia) e nel quale veniva perorata l’idea che l’umanità fosse posta di fronte alla scelta fra vittoria del socialismo e fine della civiltà.

La ‘profezia’ benché appartenente ad una corrente minoritaria ed eterodossa, circolava ben prima che fosse coniato dalla rivoluzionaria tedesca; e sicuramente essa è stata a lungo una profezia familiare e trasversale nel pur frammentato e dilaniato universo del socialismo occidentale. Per poi, nel secondo dopoguerra, essere assunta quale denominazione di una rivista politico-filosofica marxista libertaria francese fondata ed animata da Cornelius Castoriadis e Claude Lefort. Una rivista anti-leninista, ideologicamente assai prossima al comunismo consiliarista.

3. Posso essere smentito dall’autore. Ma non credo, francamente, che Gaetano si riproponga di riesumare una ‘cattedra’ di eterodossia marxista. I piedi dell’autore sono ben piantati nella storia di ieri e di oggi. La barbarie di cui parla è quella della nostra civiltà; io preferisco dire, della modernizzazione neoliberale. Il suo problema, come il mio, non è fare i conti con il capitalismo in sé ma quello assai più arduo e temerario di fare i conti con il capitalismo che è in noi.

Non c’è furbizia e ambiguità nell’alternativa rappresentata nel titolo del libro. Gaetano crede autenticamente che la risposta all’incombente barbarie del nostro modo di vita e del nostro modo di pensare vada ricercata nel diritto, in quella straordinaria messa in forma del conflitto sociale che a lungo è stato il diritto euro-occidentale.
Gaetano, tuttavia, sa bene che appellarsi genericamente alle ragioni del diritto serve a poco se non si è capaci di indicare un orizzonte, un orizzonte di senso che dica a chiare lettere quali sono i contenuti, i principi, i valori del diritto che si intende riabilitare. E qui sovviene l’inequivoco sottotitolo dell’opera, Il costituzionalismo moderno. Il costituzionalismo democratico moderno, come altrettanto inequivocabilmente è precisato prima nel Prologo e poi ampiamente e analiticamente motivato nella prima e nella seconda parte del lavoro.

4. Gaetano è esigente, non ha una visione retorica, irenica, direbbe Massimo Luciani, della scienza costituzionalistica contemporanea. E qui sovviene l’allarme contenuto nella parte finale del sottotitolo. Il costituzionalismo moderno al bivio. Perché al bivio? Perché l’eclissi della Costituzione, di cui parla in un recentissimo libro Tommaso Montanari, non è imputabile al “destino cinico e baro”.

Tutt’altro. L’attuale eclissi della capacità ordinante del futuro da parte della costituzione formale è l’esito dell’azione concreta, quotidiana, molecolare di poteri privati (selvaggi li chiama Gaetano) della finanza, dell’economia, dei media che frantumano i diritti e disperdono le soggettività. A partire da quel fondamento di legittimazione politica della sovranità moderna che è il popolo e da quel fondamento di legittimazione sociale che è il lavoro. E, con esso, delle formazioni intermedie che hanno nella seconda parte del ventesimo secolo alimentato e messo in forma il legame comunitario. Partiti, sindacati, movimenti, autonomie territoriali, scuola pubblica, Università.

L’immagina letteraria dei Naufraghi che dà il titolo alla prima parte dell’opera di Gaetano Azzariti è quanto mai azzeccata. Nel naufragio, un ordinamento costituzionale materiale divorzia dall’ordinamento costituzionale formale, la dignità della persona al centro della modernità europea – libertè, egalitè fraternitè – vacilla. Dubitiamo di noi stessi, delle rappresentazioni illuministiche di uomini continuamente tesi a progredire, a incivilirsi, ad acculturarsi.

I nudi bisogni materiali hanno la meglio sul desiderio di sviluppare le nostre plurali umane capacità. La rooseveltiana, sacrosanta, libertà dal bisogno si separa dalle libertà politiche, dalla gramsciana libertà come autorealizzazione. Resta una scarnificata libertà come autodeterminazione anarchico-solipsitica dell’individuo con la quale flirta – non so se qui Gaetano concorda – anche una variegata giurisprudenza costituzionale. Alla barbarie dei sensi fa da pendant una barbarie della riflessione. Della cultura, della scienza, anche di quella giuridica, continuamente oscillante tra un funzionalismo descrittivo gradito ai poteri forti e un nichilismo volgare che schiaccia l’occhio all’antropologia neoliberale di massa divenuta senso comune. Al we can di un progressismo che con sciagurata disinvoltura un giorno, ieri, tesse le lodi dell’homo oeconomicus a tutto campo (globalismo) e un altro giorno, oggi, le lodi del guerriero muscolare a presidio dei sacri confini dell’occidente (atlantismo).

5. Fermati Europa, ha scritto pochi giorni fa un autorevolissimo intellettuale italiano, lo storico conservatore Franco Cardini. E qui sovviene la seconda parte dell’opera di Gaetano, Europa politica o barbarie. Europa politica come bussola per uscire vivi – l’immagine in queste settimane non ha, ahimè, solo un significato metaforico – dall’interessato naufragio a cui scelleratamente ci hanno condotto l’amico americano e l’amico Putin. Da una parte, un impero che non riesce a metabolizzare il suo declino nel mondo globalizzato; dall’altra un impero che non riesce ad elaborare una spiegazione plausibile, intellettualmente e storicamente onesta, della sua marginalità nella geopolitica mondiale. Un imperialismo l’un contro l’altro armato. A spese degli europei, a nostre spese. Oltre – non è da escludere – l’attuale, moralmente insopportabile, guerra per procura condotta dall’incolpevole gente ucraina.

L’Europa è sull’orlo di un precipizio, scrive Gaetano e lo scrive ben prima dell’invasione russa dell’Ucraina. Della natura e morfologia di questo precipizio parlerà, presumo, con la consueta lucidità e nettezza di giudizio Alessandro Somma. A me preme sottolineare il giudizio di fondo sull’ordine di Maastricht come rivoluzione passiva, una chiave di lettura che, come Gaetano sa, è al centro anche del mio volumetto Postpandemia.

Io penso, a differenza di quanto mi pare ritiene Alessandra Algostino, che il paradigma della rivoluzione passiva evochi sul piano strettamente costituzionale una cesura profonda nel processo di integrazione europea, l’affermarsi di una diversa idea di civiltà rispetto ai “trenta gloriosi” caratterizzati da un grande compromesso storico tra le ragioni dell’economa e le ragioni della politica, tra le ragioni della crescita e le ragioni della solidarietà sociale e territoriale. Maastricht, al contrario, incarna il progetto di una rivoluzione da parte dei poteri costituiti, di una rivoluzione passiva nella misura in cui postula di fare a meno dei fondamenti classici di legittimazione della sovranità. E cioè, della nazione, del popolo, dello Stato, come emblematicamente si evince dallo statuto giuridico-istituzionale dell’euro e della Bce, nonché dalla forma di governo tecnocratica della cosiddetta governance economica nel suo complesso.

E qui, secondo me, pesano anche le responsabilità della contemporanea scienza costituzionalista, di quel costituzionalismo giusnaturalista che avendo postulato l’idea di un esaurimento del potere costituente, ha contribuito ad aprire la strada all’idea della legittimità di un mutamento dall’alto per mano dei poteri costituiti e dal basso per mano del diritto giurisprudenziale, per mano del cosiddetto diritto vivente. Ora a me pare che Gaetano nell’opera che oggi discutiamo ponga quantomeno le premesse per prendere le distanze da questa deriva impolitica della scienza giuridica.

6. Lo fa, innanzitutto, nell’orizzonte scolpito con nettezza nel titolo di questa seconda parte della sua opera. L’orizzonte di una Europa politica che rompa con l’ideologia funzionalista e tecnocratica di Maastricht e rinomini, dunque, il tema rimosso del conflitto sociale. Perché senza soggetti tra loro in conflitto, dice Azzariti, non si cambia la storia e qualsivoglia mutamento istituzionale e della lettera dei Trattati finisce per risolversi in un aggiustamento degli equilibri interni tra i poteri costituiti.

Il conflitto al quale pensa Azzariti è un conflitto sociale in senso alto, densamente politico culturale, antropologico, un conflitto sul modello di civiltà, sul modello di occidente, al quale ancorare il presente e il futuro dell’Europa. Continuare sulla strada neoliberale di una crescita lineare, quantitativa e senza progresso civile, oppure tornare all’utopia concreta delle costituzioni democratico-sociali di un proficuo compromesso tra crescita e progresso che abbia al suo centro la dignità della persona?

Gaetano opta chiaramente per questa strada, ma è ben consapevole che restituire attualità a questa idea di diritto e di costituzione comporta – l’espressione è mia – una rivoluzione attiva. Una riabilitazione da parte degli stessi governati dell’orizzonte del conflitto come il proprio orizzonte, del conflitto come il terreno più proficuo nel quale far valere la propria eguale dignità. Ed è qui che si apre il discorso più denso metodologicamente e teoreticamente. Quella terza parte dell’opera che già nel titolo indica un percorso di riflessione e ricerca ben più impegnativo di quello di chi si rifugia in un mero costituzionalismo critico, ma è invece alla ricerca delle leggi di mutamento della storia e le rintraccia in una originale rivisitazione della concezione materialistica.

7. L’originale concezione materialistica della storia alla quale Gaetano si rifà è quella della Scienza Nuova di Giambattista Vico, una interpretazione lontana dall’interpretazione di Croce che aveva a suo tempo ridotto il pensiero vichiano all’idealismo. Una concezione nota, ma poco frequentata tanto dal marxismo quanto dai giuristi, pur lo studioso napoletano avendo sviluppato la propria opera a partire da una solida base di conoscenze storico-giuridiche. Questa terza parte del lavoro di Gaetano meriterebbe un seminario di presentazione a parte e presupporrebbe competenze che non ho. Mi limiterò, pertanto, a richiamare solo quei profili che contribuiscono a illuminare ulteriormente il discorso di Gaetano.

È, del resto, lo stesso denso Prologo a fornirci le ragioni del suo rapporto, direi anche emotivo, con l’umanesimo di Vico. “Con la sua principale, se non unica certezza”: che “è l’uomo che fa integralmente la sua storia” e che una delle condizioni essenziali dei cambiamenti è la fantasia, “una spinta utopica che dia forma ad un orizzonte di trasformazione in grado di staccarci dal triste realismo cui ci ha condannato l’idea smorta dello sviluppo”. Una fantasia che trae il suo nutrimento dallo studio delle origini, “un metodo non solo per scrutare il futuro” ma anche per prescrivere e trarre le conseguenze dalle analisi dell’uomo storico, al di fuori di ogni pretesa di falsa neutralità, descrittivismo, formalismo.

Azzariti, con Vico, è alla ricerca delle “leggi della storia” che spieghino le forme di governo e individua la forza motrice della loro evoluzione, sin dalle origini, nella centralità della lotta per l’eguaglianza e per i diritti di chi ne è privo, nel conflitto tra le classi, nei ceti sociali per i quali si governa. Dunque per Vico, come per Marx, è il conflitto che spiega tutto il corso della storia, il conflitto fra dominio ed emancipazione, tra disuguaglianza e uguaglianza. E gli esiti di questi conflitti sono lungi dall’essere predeterminati ma indicano semplicemente un percorso possibile, aperto ad esiti progressivi ma anche regressivi. Ma dal punto di vista del metodo e teoretico poco importa: è, comunque, il conflitto tra le condizioni economiche e giuridiche tra gli uomini la chiave fondamentale per comprendere la storia e per provare a indirizzarla in un senso o nell’altro.

Sorge spontanea una domanda, una curiosità, che giro direttamente all’autore. Perché non rivolgersi direttamente a Marx e ai marxismi che nell’immaginario usuale del lettore incarnano emblematicamente e compiutamente una interpretazione materialistica della storia? Anche perché il marxismo ortodosso ed eterodosso è ripetutamente presente nel libro e persino l’ultima nota contenuta nell’ultima pagina del libro riprende l’esortazione formulata da Karl Marx a guardare con rigore alla realtà del presente se si vuole riuscire a cambiare lo stato delle cose.

Avanzo, infine, conclusivamente, qualche riserva in qualche modo collegata alla precedente domanda e curiosità. Azzariti attingendo alla concezione messianica della storia Vico si sottrae felicemente, dal mio punto di vista, al rischio del messianismo dell’attesa presente in tanti marxismi di ieri e di oggi. È sicuro che nei suoi lettori meno avvertiti questo rischio cacciato via dalla porta principale non rientri dalla finestra con l’evocazione contenuta nel Prologo del principio speranza di Ernst Bloch? Ma questo è l’oggetto di un ancora ulteriore seminario con cui speriamo di avere ancora con noi Gaetano. Con cui mi scuso per le omissioni maldestre del suo ricco, articolato, stimolante, pensiero.

 

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