IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

“Anti-antifascismo”, per riscrivere il futuro

Il progetto delle destre continua a essere il passaggio dalla democrazia progressiva alla democrazia conservativa. Un disegno che si inquadra in un’interpretazione subalterna dell'atlantismo e in una declinazione miope dell’interesse nazionale

«Oggi abbiamo scritto la storia.» Così Giorgia Meloni all’indomani della vittoria del settembre scorso. Parole che si possono in parte spiegare con le esuberanze retoriche e adrenaliniche della campagna elettorale. Ma che corrispondono anche a un sentimento più autentico e profondo. Che trasforma quello che dovrebbe essere un episodio “ordinario” – l’avvicendamento alla guida del governo in un paese “democratico” – in un evento straordinario e periodizzante. Un sentimento che ha la sua ragion d’essere nella sempre ribadita continuità con i valori perenni della destra missina, di cui Fratelli d’Italia si sente erede e testimone. Una storia vissuta vittimisticamente come un’iniqua ghettizzazione. A cui nel tempo le varie incarnazioni del partito della Fiamma hanno cercato di sottrarsi attraverso un inserimento subalterno nel sistema (dalla “Grande Destra” di Michelini, alla “Destra Nazionale” di Almirante, all’”Alleanza Nazionale” di  Fini). E che però ora, grazie alla prepotente crescita elettorale ottenuta dal 2018 al 2022, gli eredi del MSI sono riusciti a portare a compimento, diventando il primo partito italiano e addirittura assumendo la guida del governo. Un risultato storico, dunque, per la memoria collettiva ed “esistenziale” di quella comunità. Ma tutt’altro che trascurabile anche per il paese, proprio per l’impatto che quella storia e quella identità si propongono e hanno la capacità di produrre sugli assetti politici, costituzionali e culturali. Un cambiamento da non sottovalutare e sul quale ragionare molto seriamente. Per comprenderne caratteri e prospettive. È ciò che ci proponiamo di fare, soffermandoci su due questioni in particolare: la cultura politica e la proiezione internazionale del partito che oggi esprime la Presidente del Consiglio e guida il governo del paese.

Ma prima di procedere nell’analisi di questi due temi è bene, preliminarmente, affrontare il problema della cosiddetta “affidabilità democratica” di Fd’I, alla luce del rapporto che lega questo partito, e quelli da cui deriva, alla storia e alla cultura politica del fascismo. Per alcuni osservatori il permanere tra i militanti e i dirigenti di Fd’I  di giudizi positivi e riferimenti simbolici e “ideali” all’esperienza fascista non impedirebbe di  riconoscerne la maturazione verso una posizione convintamente leale nei confronti delle istituzioni democratiche. Questo processo sarebbe un prodotto della democrazia, la quale è in grado di promuovere forme di “integrazione passiva” dei partiti antisistema (Chiarini  2023). Da questo punto di vista, quindi, la piattaforma programmatica di Fd’I sarebbe ora molto simile a quelle di tutti i “normali” partiti di destra (securitarismo, tradizionalismo, nazionalismo). Mentre sul piano economico-sociale vi sarebbe, grazie alla esperienza della confluenza nel PdL,  una positiva evoluzione verso la piena accettazione delle regole del liberismo, con l’abbandono dello statalismo economico missino. Secondo questa interpretazione, la resistenza a un’abiura esplicita del fascismo e un’esplicita dichiarazione di antifascismo da parte degli esponenti di Fd’I sarebbe comprensibile perché ciò intaccherebbe il sentimento identitario profondo della destra e il suo rapporto con la storia. Forse in queste valutazioni  si tende però un po’ troppo a sottovalutare l’importanza dei sentimenti identitari e, contemporaneamente, a sopravvalutare gli aggiornamenti programmatici e ideologici, soprattutto quando, come vedremo più avanti, questi sono più il frutto di accomodamenti a un contesto politico-elettorale in rapida evoluzione che non il risultato di una profonda revisione culturale.

Un nuovo paradigma costituzionale: la democrazia conservativa

Ma, ed è ciò che più conta dal nostro punto di vista, impostare in questo modo la valutazione del rapporto di Fd’I con la democrazia  non consente di vedere il progetto “costituente” che è sotteso alle sue scelte politiche e che è comune a tutte le destre italiane, dalla fine della prima Repubblica a oggi. Quel progetto che in un primo tempo si è cercato di attuare  addirittura attraverso la soluzione di continuità  simbolica di un’Assemblea costituente. Un progetto a cui potremmo dare il nome di nuovo “paradigma costituzionale”,  consistente nel passaggio dalla democrazia progressiva  alla democrazia conservativa; cioè a un ordinamento posto a protezione delle gerarchie sociali, delle diseguaglianze e delle discriminazioni culturali prodotte dal meccanismo economico e dagli assetti di potere. E fondato sulla passivizzazione politica.  Per ottenere questo risultato non è sufficiente, seppur necessario,  modificare in senso verticistico e decisionistico gli assetti istituzionali (minori poteri alle assemblee elettive, rafforzamento degli esecutivi, presidenzialismo). È  indispensabile anche un’operazione culturale e simbolica: la sostituzione del principio antifascista, su cui si basa la Carta costituzionale, con il principio anticomunista (che pur essendo presente nella pratica della “prima Repubblica” non poteva operare integralmente per ovvie ragioni). Lo strumento che più di ogni altro si presta a questa sostituzione è  “l’anti-antifascismo”. Che consiste nel rifiutare una limpida dichiarazione di condanna nei confronti del fascismo e del neofascismo e, contemporaneamente, esasperare gli aspetti problematici – reali o inventati – dell’antifascismo, identificato strumentalmente con il comunismo. Allo scopo non solo, come si dice un po’ superficialmente, di “riscrivere la storia” ma, più essenzialmente, di “riscrivere il futuro”. È in questa chiave che vanno visti i recenti pronunciamenti  della stessa Presidente del Consiglio e di La Russa a proposito di via Rasella e delle Fosse Ardeatine. Dichiarazioni che si inquadrano in una più vasta operazione di revisione della memoria pubblica, che va dalla equiparazione delle foibe alla Shoa fino alla vittimizzazione del neofascismo repubblicano. Un’operazione di revisione della memoria pubblica che marcia parallela alla manomissione degli strumenti essenziali per una politica ispirata alla giustizia e alla emancipazione sociale. A cominciare dalla surrettizia abolizione della progressività dell’imposizione fiscale. E che investe anche il terreno dei diritti delle persone, in nome della difesa dei valori della tradizione. Uno degli strumenti lessicali di questa operazione è la categoria di “interesse nazionale”, con la quale si tendono a identificare sostanzialmente gli interessi particolari e settoriali del mondo delle imprese e della rendita. Salvo pretendere di esserne gli interpreti veri ed esclusivi, gli unici in grado di rappresentarlo autenticamente. Come conferma il vero e proprio riflesso condizionato che li spinge a considerare le critiche rivolte alle loro attività di governo come altrettanti attacchi alla “nazione” e alla “Patria”, con le quali esigono di identificarsi.

Si dirà, e con piena ragione, che questo modus operandi ha in realtà caratterizzato anche  Forza Italia e Lega; quest’ultima soprattutto nella versione salviniana. Ciò però dimostra soltanto che vi è una sostanziale omogeneità culturale e programmatica tra le tre forze principali della destra italiana prodotte dalla fine della Repubblica dei partiti. E che ciò che le unisce è molto più che un insieme di interessi. Alla base della loro alleanza trentennale vi è in realtà quello che potremmo chiamare un “sistema di valori”. Con il quale esse hanno cercato, riuscendoci in larga parte, di intercettare “l’intreccio complesso di interessi economici, di spinte emotive e di elementi psicologici che strutturano il senso comune” (Barcellona 1994). Si dirà, inoltre, che questi obiettivi non sono di per sé “fascisti”, e che la loro realizzazione, purché perseguita nel rispetto delle regole della democrazia liberale, non coincide con un sistema autoritario. E anche in questo caso si finisce solo con il dimostrare che –  come illustrano molti esempi storici, anche attuali –, un sistema istituzionale in grado di assicurare il pacifico avvicendamento delle élite al potere è perfettamente compatibile con un assetto sociale e politico che ostacola e impedisce il pieno sviluppo della persona umana. Quella emancipazione umana e civile che, all’interno del quadro costituzionale, è  stata nel periodo repubblicano il prodotto dei conflitti sociali e del protagonismo politico attivati dalle classi subalterne. L’obliterazione di quel modello isterilisce la nozione di democrazia, riducendola a un insieme di procedure e garanzie formali, svuotate però di quella carica di cambiamento in senso egualitario e partecipativo che costituisce il tratto distintivo della Carta del 1947. Con gli inevitabili rischi che il distacco tra le aspirazioni all’emancipazione – economica, di genere e di etnia –  e le istituzioni determinano in prospettiva anche per queste ultime.

Una cultura politica “d’occasione”

Commentando il risultato delle elezioni del 1994 che avevano sancito il successo di Silvio Berlusconi e l’ingresso nel governo del Msi, Pasquale Serra scriveva che ciò non deve stupire più di tanto. “Né stupisce come esso vi arrivi: non avendo mai intrapreso una rimeditazione della sua identità e della sua storia, vi arriva senza una cultura politica di una qualche originalità, che non sia quella di un generico conservatorismo o della rivincita”. In effetti, a ben guardare, il partito allora guidato da Gianfranco Fini arrivò a quello “storico” risultato senza l’elaborazione di una nuova strategia e senza aver contribuito a determinare il processo di dissoluzione del sistema dei partiti di cui si giovò per uscire finalmente dall’isolamento e superare, prima ancora che lo potessero fare gli eredi del Pci, la “conventio ad excludendum” che aveva colpito entrambi per tutto il periodo repubblicano. Come sospinto dalla forza dello “Zeitgeist” –  che pretendeva un radicale cambiamento di fronte al completo disfacimento del sistema dei partiti, travolti dalle inchieste di mani pulite e dagli effetti dell’offensiva terroristico-mafiosa – , il Msi riuscì a diventare un protagonista di primo piano della vita politica. Lo stanno a testimoniare l’impetuosa crescita elettorale e l’incremento della sua forza organizzata. Risultati tutt’altro che scontati per una formazione che poco prima aveva conosciuto una grave crisi interna e un tracollo di consensi con la fallimentare esperienza della segreteria Rauti. E che nelle elezioni del 1992 aveva subito un ulteriore, seppure limitato, arretramento, attestandosi su un misero 5,30% dei voti. La “svolta” di Fiuggi arriverà solo dopo la legittimazione come forza di governo.  Proprio la sua emarginazione politica aveva in precedenza di fatto “esonerato” il Msi dal proporre un aggiornato progetto politico. Le vecchie parole d’ordine (il corporativismo, la critica al parlamentarismo, ecc.), servivano sia a rinsaldare l’identità sia a esonerare il partito dal ricercare un rinnovamento autonomo che ne mettesse alla prova la capacità di interpretare i bisogni e le contraddizioni che nel frattempo emergevano dalla società italiana. Ogni volta che questo confronto gli venne imposto dai tornanti della storia nazionale (referendum sul divorzio e sull’aborto), il Msi si dimostrò drammaticamente “out” rispetto all’evoluzione della società italiana. Sono semmai i momenti di crisi degli equilibri politici che offrono al Msi le occasioni per tentare un inserimento nel “sistema”, rispetto al quale, peraltro, continua a dichiararsi alternativo.  Così accade dopo la fine dei governi della coalizione antifascista. O, successivamente, nella fase di passaggio dal centrismo al centrosinistra. Questa situazione tende a favorire quella che potremmo chiamare l’“ambiguità” missina. Cioè il perdurare nel partito di una doppiezza di fondo sul piano ideologico e pratico, simboleggiata dalla presenza di due anime: quella conservatrice e borghese, e quella “eversiva”; quest’ultima caratterizzata da un rapporto se non di opposizione certamente problematico con la modernità.

Faccia feroce e doppio petto

Furio Jesi, nel sottolineare l’esistenza  sia di un’ideologia neofascista da “faccia feroce” che una da “doppio petto”, rileva come questi due ingredienti ideologici non si presentano allo stato puro, ma frequentemente “mescolati tra loro”: «Non è vero dunque che lo stile di comportamento da faccia feroce sia solo prerogativa dei neofascisti “sacri” per orientamento ideologico, né che lo stile da doppio petto sia solo prerogativa dei neofascisti “profani”. Gli uni e gli altri usano sia l’uno che l’altro stile di comportamento» (Jesi, 2019).

Da questo punto di vista è possibile rintracciare degli elementi di continuità con l’esperienza di Fd’I. Sia per ciò che riguarda la tendenza ad adattare “disinvoltamente” le proprie posizioni politiche e programmatiche al variare delle condizioni e delle opportunità. Sia per ciò che riguarda la capacità di ricondurre queste acrobazie ideologiche e politiche a una continuità ideale e identitaria con i valori “perenni” della destra neofascista e post-fascista, saltando la “parentesi” di Alleanza Nazionale e ripudiando il “tradimento” di Fini. Come ben documentato da Salvatore Vassallo e Rinaldo Vignati, nel periodo della sua massima radicalizzazione, cioè dal congresso di Trieste del 2017 fino al 2019, il partito di Giorgia Meloni ha preso a prestito da partiti di altri Paesi, posizioni e parole d’ordine che gli hanno permesso di  caratterizzarsi come forza di alternativa al sistema nel panorama italiano. Ecco così le campagne contro la lobby Lgbt e l’ideologia gender, di derivazione polacco-ungherese. E le teorie sul complotto per una sostituzione etnica del continente europeo suggerite dalla destra trumpiana a sua volta istruita da Steve Bannon. Oppure la polemica contro la cancel culture, presa dai conservatori americani. Ma soprattutto la chiara intonazione populista e antieuropea, accompagnata dall’ammirazione per la capacità del regime di Putin di contrastare gli effetti distruttivi della modernizzazione occidentale e rilanciare il ruolo della Russia sul piano economico e geopolitico (si veda in proposito la commossa e ammirata biografia che l’attuale ministro della cultura ha dedicato a Putin). Queste posizioni hanno consentito a Fd’I di assumere una fisionomia molto caratterizzata, che si è trasformata in un’occasione di affermazione nel momento in cui la crisi verticale della credibilità della Lega di Salvini ha spinto una parte determinante dell’elettorato di destra a ricercare un’alternativa al vuoto che si era venuto a creare per la concomitante crisi delle leadership di Berlusconi e Salvini, accentuata dal sostegno offerto da entrambi al Governo Draghi.  Da quando si è delineata la possibilità di assumere posizioni di rilievo nel governo, i dirigenti di Fd’I hanno cambiato di nuovo registro, eliminando le posizioni antieuropee più radicali. Ciò che resta costante, però, è lo sfondo, su cui questi adattamenti si inseriscono: l’intento di ridefinire l’identità costituzionale del paese, cassando il paradigma della “democrazia progressiva”, che assume la disuguaglianza sociale come un ostacolo da rimuovere in vista di un progetto di sviluppo integrale della persona umana.  Da questo punto di vista il “frullatore politico” entro il quale le varie formazioni della destra eredi del Msi sono passate negli anni Novanta e nel primo decennio del nuovo secolo ha prodotto un risultato probabilmente definitivo: l’emarginazione della componente sociale e statalista e la piena assunzione del paradigma neoliberale. Il che, naturalmente, ha contribuito ad accreditare le ambizioni di  inserire Fd’I nel variegato filone dei partiti nazional-conservatori. Infatti, da questo punto di vista, le politiche promosse dalle destre italiane e da ultimo da Fd’I si inseriscono pienamente nel processo di “ricostituzionalizzazione” promosso dalla “Trilateral Commission”, e declinato istituzionalmente nel modello della “democrazia disciplinare”.

Atlantismo e “interesse nazionale”

Quello della definizione del  profilo identitario e programmatico di Fd’I è stato dunque un “cantiere aperto”, ancora una volta declinato su un doppio registro: la rivendicazione della continuità con i valori perenni della destra italiana e l’opportunismo degli adattamenti dettato dal contesto e dagli interlocutori. Al momento dell’assunzione della responsabilità di governo l’esigenza di un adeguamento delle posizioni si è posto soprattutto per ciò che riguarda il rapporto con l’Europa. Mentre per ciò che riguarda l’atteggiamento nei confronti dell’Alleanza atlantica non è stato necessario un mutamento significativo, tranne, ovviamente, l’abbandono di qualsiasi simpatia per Putin.  Coloro che avevano ipotizzato, sulla base delle posizioni assunte in passato nei confronti del leader russo da Fratelli d’Italia e Lega,  un possibile allontanamento dalla linea atlantista in favore di una sorta di “equidistanza” tra USA e Russia, sono stati smentiti dalla netta posizione di Fd’I a favore della Nato e dell’Occidente. Accompagnata dalla prosecuzione della linea del governo Draghi di attivo supporto militare all’Ucraina e conseguente accantonamento delle pur generiche velleità di “sostegno a ogni iniziativa diplomatica volta alla soluzione del conflitto”  contenute nel programma elettorale della coalizione delle destre. Alcuni osservatori ritengono che questo allineamento sia il prodotto di un realistico e saggio adattamento alle  condizioni dell’attuale contesto internazionale. Germano Dottori, ad esempio sostiene che esso corrisponde a uno stato di necessità derivante dal «“vincolo esterno” che comprime la sovranità del nostro paese quando siano in questione delle scelte di campo di particolare importanza.» Tale vincolo sarebbe determinato dalla fragilità finanziaria dello Stato italiano, esposto al ricatto dei mercati finanziari per il peso del suo debito pubblico.  Non sarebbe quindi il servilismo ad appiattire la posizione estera dell’Italia, ma la stringente necessità di identificare l’interesse nazionale in modo non divergente rispetto alle potenze finanziarie e mediatiche con le quali siamo alleati (Dottori, Limes 2023). Altri (Gabriele Natalizia 2022)  ricorrono alla strutturale “tendenza alla continuità” nella linee di fondo della politica estera, spiegabile sia con fattori interni che con le condizioni strutturali del contesto internazionale. Nel caso del Governo Meloni, giocherebbe un ruolo importante  l’attuale congiuntura internazionale, che «restringe il campo d’azione di Palazzo Chigi, ancorandolo per ragioni di necessità a quel trinomio “atlantismo, europeismo e Mediterraneo allargato” ricordato da Mario Draghi nel suo discorso di insediamento. Le aperture possibili in passato con Russia e Cina per via di un contesto politico-strategico almeno apparentemente più stabile» sono ormai escluse. Queste osservazioni contengono indiscutibilmente delle verità. Tuttavia, vanno inquadrate storicamente in quel vero e proprio paradigma strategico che si è venuto componendo in Occidente all’indomani del crollo dell’Urss. È in quella fase, infatti, con la ridefinizione degli obiettivi della Nato prefigurati ancora una volta dai convegni di Lisbona, Washington e Tokio della “Trilateral”, viene ridisegnato, ancora sulla base della coppia amico-nemico, il rapporto tra «l’Occidente e l’Altro: The West and The Rest» (Mortellaro 1994).  Gli esiti attuali sono il risultato di quel riallineamento, dopo la fase in cui la fine dell’Unione Sovietica aveva indotto alcuni a pensare che si fosse alla vigilia di un’epoca aperta al protagonismo di un’Europa autonoma e unita, libera dal peso della rigida gabbia bipolare. Le malcerte geometrie istituzionali europee nel campo della politica estera e di sicurezza comune stanno a indicare la remissione di qualsiasi  velleità in questo senso, con la riaffermazione degli “USA come potenza europea”. Tutt’al più alcuni stati europei (l’esempio più importante è quello tedesco) hanno cercato di accompagnare il modello del “trading state” con un’iniziativa diplomatica in parte autonoma, sempre scontando però la dipendenza dalla Nato per la sicurezza. Per l’Italia, invece, il nuovo contesto internazionale ha significato fin da subito una diminuzione della capacità di svolgere, come era avvenuto parzialmente in passato, un ruolo di mediazione e di ponte . L’intensificazione del disordine nelle relazioni internazionali e il ruolo crescente della forza militare nella definizione dei rapporti interstatali hanno ristretto i margini di iniziativa diplomatica e di influenza politica del nostro Paese, come dimostra plasticamente il caso libico. In questo contesto l’interesse nazionale, sia dei governi sostenuti da coalizioni di destra o di centrosinistra, sia di quelli appoggiati da schieramenti compositi,  finisce inevitabilmente per identificarsi con l’esecuzione di compiti gregari all’interno delle linee strategiche fissate dal Paese egemone. Questo spiega molto meglio del ricorso a ragioni di tipo psicologico l’indeterminatezza della definizione degli obiettivi concreti in cui si sostanzierebbe l’interesse nazionale, ad esempio per ciò che riguarda il cosiddetto “Mediterraneo allargato”. Dove il protagonismo italiano ed europeo avrebbe una possibilità di svolgersi “autonomamente” perché ciò rientrerebbe nei desiderata degli Stati Uniti, «che avendo scelto il Pacifico come teatro strategico principale», hanno bisogno di qualcuno che si occupi del Mediterraneo (Minniti, 2023).  Si tratta in sostanza di presidiare la “quarta sponda”, dando esecuzione al «“mandato” affidatoci da Donald Trump e ribadito da Joe Biden» (Massara 2021). Il tutto in chiave securitaria, soprattutto per ciò che riguarda il blocco dei flussi migratori. Cosa ciò possa produrre si può misurare dall’accelerazione in corso della crisi tunisina, dove il nostro paese interviene per fornire attrezzature per esternalizzare le frontiere (sul modello libico) e la Presidente Meloni assicura il proprio appoggio presso le istituzioni finanziarie internazionali. Cioè presso quel Fondo Monetario Internazionale con cui la Tunisia sta negoziando da tempo un prestito da 1,9 miliardi. Però a un elevato costo sociale per il paese nordafricano, a cui viene richiesto, oltre alle consuete privatizzazioni, di diminuire la spesa per le retribuzioni dei funzionari pubblici ed eliminare i sussidi sulla benzina e la semola, che è un bene alimentare primario per i più poveri e che gode ancora di un prezzo politico che lo mette al riparo dagli effetti dell’inflazione galoppante. La conseguenza di tutto ciò è la destabilizzazione interna e l’intensificarsi della campagna governativa contro gli immigrati dell’Africa sub-sahariana, indicati come i responsabili della crisi sociale in cui versa il paese e  dell’invasione che ne minaccerebbe la demografia, nonché l’identità “araba e musulmana” (Poletti 2023).  Si tratta con tutta evidenza di un modo di declinare l’interesse nazionale che più egoistico e al tempo stesso miope non potrebbe essere. E che purtroppo è stato comune a numerosi governi italiani di diversa matrice politica. Il governo guidato da Fratelli d’Italia non fa che proseguire questo indirizzo.

In conclusione potremmo dire che, sia in politica interna che in politica estera, il governo Meloni non fa che riproporre lo schema, che per molti versi è stato quello dei governi di centrosinistra, dell’integrazione italiana nel processo della globalizzazione occidentale. Quando, però, quel ciclo si è ormai esaurito e siamo entrati in una nuova fase, con nuove contraddizioni e nuovi protagonisti. Anche l’ostinato proposito di puntare – in nome di un’ortodossia neoliberale, peraltro in crisi –  sugli spiriti di mercato e sul consenso del ceto imprenditoriale – accreditato di capacità di innovazione e dinamismo, mentre molto spesso è ampiamente dipendente da un regime di bassi salari, di inefficienza della Pubblica Amministrazione e di assistenza fiscale, finanziaria e normativa dello Stato –  può risultare vantaggioso in termini elettorali, ma rischia di entrare in conflitto con la sfide che si profilano: da quella della coesione sociale (che difficilmente potrà essere surrogata dall’incerta retorica patriottarda), a quella demografica,a quella ambientale.

Per conservare il proprio potere la destra potrà, però, contare sulla sfiducia prodotta dalla più che decennale crisi democratica in cui è precipitato il Paese. Ma non è una buona notizia.

Testi di riferimento

Roberto Chiarini, Piero Ignazi e Salvatore Vassallo, Giorgia e i suoi fratelli. La terza destra, “Corriere della Sera”, 26 marzo 2023

Pietro Barcellona, Il vento di destra e le ragioni della sinistra, “Democrazia e Diritto”, n. 1 1994

Furio Jesi, Cultura di destra. Con tre inediti e un’intervista, Nottetempo2011

Germano Dottori, Italiani, allineati e coperti, “Limes”, n 1 2023

Marco Minniti, Il mio piano per l’Africa, “Limes”, n. 1 2023

Arianna Poletti, Nella Tunisia di Kais Saïed, la repressione in nome del controllo delle frontiere, Orient XXI, https://orientxxi.info/magazine/articles-en-italien/nella-tunisia-di-kais-saied-la-repressione-in-nome-del-controllo-delle,6281

Gaetano Massara, L’Italia e il Mediterraneo allargato, Aspenia.it, https://aspeniaonline.it/litalia-e-il-mediterraneo-allargato/

Isidoro Davide Mortellaro, Neopopulismo di fine secolo: il caso italiano , Democrazia e Diritto, n. 1 1994

Gabriele Natalizia, Governo Meloni e politica estera. Cosa aspettarsi?, Geopolitica.info, https://www.geopolitica.info/governo-meloni-politica-estera/

Salvatore Vassallo, Rinaldo Vignati, Fratelli di Giorgia, Il Mulino 2023

 

 

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