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cultura politica e costituzionale

IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

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IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Anticipazione/Cinema, diritto, Costituzione

L'ultimo libro di Claudio de Fiores. Il cinema come questione costituzionale, spazio di critica del potere e di rivendicazione dei diritti. E perciò, sin dalle origini, sorvegliato, controllato, censurato. Oggi, la censura, anziché sparire rischia di accentrarsi nelle mani delle grandi corporations

D’altra parte, sono gli stessi produttori e distributori cinematografici – sotto il controllo dell’esecutivo – a classificare oggi i film, assecondando e incalzando le dinamiche del mercato. Il bel volume di Claudio De Fiores (Cinema e Costituzione. Profili storici e giuridici della libertà di espressione cinematografica, Mimesis, 2024) ripercorre la storia del cinema alla luce dei mutamenti che, nel corso del tempo, hanno investito il diritto e le sue trasfigurazioni. Ne emerge uno spaccato sorprendente delle tante e complesse “questioni costituzionali” che hanno attraversato la storia del cinema italiano: dal debutto della censura cinematografica nell’Italia liberale alle leggi “fascistissime” sul cinema; dalla libertà dell’arte sancita nella Carta del’48 alle condotte repressive contro la libertà di espressione cinematografica rese possibili, anche nell’Italia repubblicana, dall’avversione manifestata dalle componenti più retrive della società verso la Costituzione e la sua attuazione. Un’approfondita analisi giuridica della riforma che ha recentemente abolito la censura cinematografica. Una legge attesa da tempo, che chiude i conti con il passato, ma non con il presente. E, segnatamente, con le nuove e sempre più minacciose forme di censura oggi esercitate dal mercato. L’anticipazione che segue è un estratto dell’incipit del volume.

 

Fenomeno da baraccone. Sorvegliato, controllato, censurato. 

 «Il cinematografo nasce come fenomeno da baraccone. Alle proiezioni veniva solitamente assegnato un proprio spazio, sebbene condiviso con tutte le altre strutture mobili – appositamente allestite nelle piazze di paesi e città – durante il carnevale, le fiere, le feste patronali. E come fenomeno da baraccone il cinema venne anche disciplinato dalla legge. E segnatamente dalle norme di Pubblica Sicurezza. Il cinema nasceva quindi, agli occhi del diritto, quale sorvegliato speciale, al pari di zingari, circensi e girovaghi. Le sue attività – non ancora considerate arte – vennero istantaneamente sottoposte a un’articolata e penetrante serie di controlli, vincoli, divieti. Gli stessi già previsti, dalla legge del 1889, per le “feste da ballo” e per tutti gli altri “spettacoli e trattenimenti pubblici”. Come questi anche il cinematografo venne tempestivamente sottoposto a un oneroso sistema di licenze. A rilasciarle avrebbe provveduto l’autorità locale di pubblica sicurezza, alla quale la legge attribuiva altresì il compito di “assistere per mezzo dei suoi funzionari od agenti ad ogni rappresentazione, dal principio alla fine, per vigilare nell’interesse dell’ordine e della sicurezza pubblica”. Ma all’autorità locale di pubblica sicurezza spettava anche il potere di “sospendere la rappresentazione o declamazione già incominciata di qualunque produzione, che per circostanze locali [avrebbe potuto dare] luogo a disordini”. L’art. 40 riconosceva, infine, al prefetto il potere di “proibire la rappresentazione o la declamazione per ragioni di morale o di ordine pubblico”. Le conseguenze innescate dalla progressiva estensione di queste misure repressive non si sarebbero fatte attendere. A Torino, il 2 luglio 1908, il Prefetto Vittorelli adottava un apposito Regolamento per l’esercizio di spettacoli cinematografici nella provincia. E nella stessa direzione avrebbe, a stretto giro, operato anche la Prefettura di Milano. L’autorizzazione per la proiezione, venendo concessa a livello territoriale, presentava però non pochi inconvenienti di ordine pratico. Primo fra tutti: la distribuzione dell’opera cinematografica “a macchia di leopardo”. Una soluzione fortemente criticata

dall’industria cinematografica, che vedeva la propria produzione sottoposta a un’irragionevole disparità di trattamento, a seconda del luogo in cui sarebbero dovute avvenire le proiezioni.

Dimensione sociale e “vocazione democratica” del cinema

Il cinema, da molti inizialmente considerato un passeggero fenomeno d’intrattenimento, destinato tutt’al più a resistere solo in poche e periferiche arene circensi, nel giro di qualche anno venne inopinatamente trasformandosi in un’industria “culturale” di straordinarie dimensioni.

Tra il 1903 e il 1910 in Italia nacquero innumerevoli case di produzione. Fra queste: Cines, Milano Film, Itala Film, Partenope Film, Caesar Film, Ambrosio Film, Firenze Film. E contestualmente ad esse iniziarono a sorgere i primi luoghi appositamente dedicati alla proiezione delle pellicole: le sale cinematografiche. Nel corso del decennio 1905-1915, il cinema italiano avrebbe vissuto il suo periodo aureo. Solo nel 1912 vennero prodotti ben 569 film a Torino e 420 a Roma. Centinaia di pellicole iniziarono ad essere esportate (soprattutto negli Usa). E, nello stesso periodo, sarebbe stato per la prima volta sperimentato con successo anche il lungometraggio.

In quegli stessi anni, il cinematografo avrebbe, altresì, iniziato a penetrare anche nella provincia italiana, conquistando strati sempre più vasti della popolazione, fino a divenire “lo spettacolo popolare per eccellenza, un bene di prima necessità, uno spazio di culto laico”. Sterminate masse di popolo, fatte di uomini, donne, bambini, che non avevano mai messo piede in un teatro e alle quali lo Stato liberale aveva negato finanche il diritto all’istruzione entravano ora in contatto, nelle arene di piccole e grandi città, con le celebri opere “della tragedia classica, della commedia, della farsa”. Grazie

al cinematografo, la cultura avrebbe finalmente incontrato “le masse che non avevano finora mai potuto nutrire il proprio intelletto alle fonti del pensiero universale, ostacolate in ciò dai prezzi d’entrata nei teatri di prosa e in quelli di musica non adatti a tutte le borse”.

La straordinaria espansione della produzione cinematografica, impostasi sin dalle origini del cinema muto, era lì a dimostrarlo. A essere rappresentate, in quegli anni, furono le grandi opere letterarie: Otello (1909); Gerusalemme liberata (1910); Odissea (1911); Pinocchio (1911); Quo vadis? (1912); Dagli Appennini alle Ande (1912); Amleto (1914). Ma anche le grandi personalità del passato: Garibaldi (1907); Nerone (1909); Giuseppe Verdi nella vita e nella gloria (1913); Napoleone (1914); Giulio Cesare (1914). E alcune leggendarie vicende della storia: La presa di Roma (1905); La caduta di Troia (1911); Gli ultimi giorni di Pompei (1913).

Gli entusiasmi suscitati, in quegli anni, dalla nascita del cinematografo erano incontenibili. Per la cultura democratica e socialista l’avvento della pellicola era la grande occasione “per dirozzare le menti e istruire le masse inconsapevoli”. Convinzione che avrebbe indotto lo stesso Arturo Labriola a immaginare un “cinema al servizio della cultura”. E altri ad esaltare il cinematografo come il più “prezioso strumento di cultura popolare”, il solo in grado di recidere “davvero le radici dell’ignoranza italiana”. E, in ragione di ciò, essenziale “supporto” del sistema scolastico.

In un articolo apparso sulla Rivista cinematografica, Aurelio De Marco, sull’onda delle speranze alimentate dal biennio rosso, così scriveva:

“A giudicare dalle pellicole che si sono offerte in proiezione si dovrebbe dire che la vita si svolge, se non fra principi e duchi tutt’al più tra conti a baroni […] eppure io credo che il popolo e specialmente la classe operaia, offra al cinema il contingente più importante […] questo pubblico di lavoratori deve trovare ormai sullo schermo la rappresentazione della sua vita […] sono infiniti i temi che può offrire l’esistenza degli umili, l’esistenza che ferve nelle officine, nei campi, negli uffici, nelle scuole”.

Tutto ciò spiazzava le case di produzione, espressione anch’esse del capitalismo industriale, che non avevano però alcuna intenzione di apparire e agire quali passivi vettori della coscienza di classe e della sovversione sociale. Di qui l’ingente impegno

finanziario profuso dalla “borghesia del cinema” a sostegno di opere nelle quali il mondo popolare veniva sì rappresentato, ma nello scrupoloso rispetto dei canoni del romanzo popolare ottocentesco e quindi depurato da ogni visione di classe. Ci si riferisce al fervente proliferare di pellicole permeate da “tematiche religiose, drammi familiari, malattie incurabili, orfani e bambini abbandonati”. Vere e proprie trame “strappa lacrime” accuratamente mescolate con “tematiche nazionaliste e antioperaie”.

Era la nascita del melodramma. Un genere popolare nuovo, sensibile al sociale, dove “i padroni alla fine sono sempre comprensivi, i sacerdoti predicano la pace sociale e gli operai sono delle teste calde”.

Avrebbe scritto Gian Piero Brunetta nella sua monografia dedicata al Cinema muto italiano: in questi film,

“non c’è intonazione conoscitiva o accostamento partecipe ai problemi sociali, non c’è soprattutto assunzione del punto di vista e della cultura dei personaggi popolari. Il mondo popolare, di preferenza urbano, appare in maniera massiccia secondo stereotipi che derivano sia dall’illustrazione popolare che da quella catechistica”.

Il filone melodrammatico destinato a riscuotere maggiore successo in Italia fu quello di ambientazione napoletana. Un merito che va, pressoché, integralmente ascritto all’opera della prima regista donna del cinema italiano: Elvira Notari. Notari diresse numerose pellicole in gran parte tratte dal teatro popolare partenopeo o ispirate a fatti di cronaca. A essere ritratta nei suoi film era la realtà dei bassi napoletani e la vita degli “scugnizzi”. Un mondo “rassegnato” alla povertà e all’ingiustizia, dove però il sentimento di fraternità fra gli uomini, l’intervento divino, l’amore per la patria, alla fine, avrebbero sempre trionfa to. Tra le numerose pellicole della regista campana ricordiamo: Carmela la pazza (1912); Tricolore (1913); Sempre avanti, Savoia (1915); Gabriele il lampionaio (1919); Il miracolo della Madonna di Pompei (1922).

All’interno di questo genere cinematografico merita però di essere, innanzitutto, menzionata – per la sua valenza paradigmatica – la pellicola Una giornata di sciopero (1911). Opera nella quale la morte di un bambino è “causata” dal padre che, capo degli scioperanti, durante un picchettaggio, impedisce al dottore di spostarsi per andare a curare i suoi pazienti, tra i quali vi era anche il figlio malato: la morale conservatrice del tempo era salva. E così, anche, lo sguardo patetico verso i bambini, la centralità della famiglia, la condanna della lotta di classe».

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