Gli annali della NATO-OTAN ci dicono che all’alba degli anni Cinquanta si lavorò molto per trovare un emblema confacente alla nascente organizzazione. Stalin già a fine 1949 aveva fatto deflagrare la prima atomica sovietica, sorprendendo gli americani che avevano pensato di avere un vantaggio strategico di almeno 10 anni nella corsa al nucleare.
Sorpresi dallo sbocciare del fungo mortale e dal quasi contemporaneo scoppio della guerra in Corea, sulle due coste dell’Atlantico ci si affrettò perciò per dar corpo e sostanza militari a quel Trattato del Nord Atlantico firmato a marzo 1949, sotto l’urto del blocco di Berlino e del successivo ponte aereo. Ci volle però un bel po’ per trovare un simbolo adatto. Una idea originaria di Eisenhower si affaticò su un insieme di stellette. Si scontrò con l’obiezione, invero fondata, di variazioni successive nel caso augurabile di un allargamento della platea di nazioni aderenti. E così, dopo varie ricerche e proposte, solo nell’ottobre del 1953 si giunse alla soluzione. Fu Lord Ismay, primo segretario dell’organizzazione a suggerire l’immagine stilizzata di una rosa dei venti o bussola: l’ideale per orizzontarsi nella ricerca della pace. Tutto racchiuso entro un cerchio utile a garantire l’unità dei vari firmatari del patto.
Insomma, fin dagli inizi un emblema, uno strumento progettato per epoche assai tempestose. Allora come oggi necessario per mantenere la rotta tra marosi e burrasche. Un marchingegno di cui si sente un gran bisogno oggi, in altro secolo e millennio, mentre infuria una guerra in cui si fa ormai giornaliero ricorso alla minaccia dell’atomica o d’altre armi assai micidiali.
La decisione di Putin di muover guerra all’Ucraina è stata condita fin dall’inizio dal ricorso a misure ultime: «chiunque tenti di ostacolarci, e ancor di più di creare minacce per il nostro Paese, per il nostro popolo, deve sapere che la risposta della Russia arriverà immediatamente e porterà a conseguenze che non avete mai visto nella storia». Così nell’annuncio fatale del 24 febbraio. Da allora titoli e resoconti di giornali e social-network, così come i lanci di TG e talk show, sono zeppi di ricorsi a scenari catastrofici. Da tempo vediamo moltiplicarsi sugli schermi di computer e TV nubi o funghi malefici. Così come siamo angosciati dal vedere che altrove, in trasmissioni televisive, la minaccia del ricorso alla soluzione finale può divenire materia diretta per l’intrattenimento televisivo: «I Polacchi debbono sapere che in trenta secondi non resterebbe più nulla di Varsavia», si è gridato nel corso di una diretta di «Rossyia 1».