[…] Il concetto di fascismo è diventato una categoria storica universale la cui etichetta viene applicata a tutto ciò che è impregnato di reazione sociale. Nella famosa teoria immaginata dagli ortodossi del nuovo culto [cioè l’ortodossia del Komintern, NdR], questo appellativo è stato attribuito a tutti i gruppi e a tutte le ideologie politiche del sistema borghese, non soltanto nazionaliste, ma anche socialiste, riformiste, populiste. Una tale terminologia sembra molto comoda. La natura di ogni tendenza si definisce così facilmente: i social-democratici diventano l’ala sinistra del fascismo sotto il nome di social-fascisti, i populisti [cioè il partito degli agrari, NdR] diventano populisti-fascisti, ecc. In questo modo, la fascistizzazione terminologica precede la fascistizzazione vera della società borghese. È tuttavia utile mostrare che un simile trattamento fa scomparire i caratteri specifici del fenomeno chiamato fascismo e che la parola stessa diventa un luogo comune che perde ogni valore proprio.
[…] Se si trattava in questo modo sommario l’insieme delle tendenze e dei partiti borghesi, dalla destra alla sinistra, a maggior ragione i regimi dittatoriali non ponevano problemi. In realtà quelli che raggruppano sotto una stessa denominazione i regimi di Horthy, Alessandro di Iugoslavia del defunto Primo de Rivera assieme a quelli di Mussolini e di Hitler, soffrono di una inguaribile cecità. È al contrario indispensabile esaminare con maggior cura le componenti interne di tutti questi regimi reazionari.
Se si prende come punto di partenza una struttura politica come la dittatura di un individuo e la monopolizzazione del potere da parte di una certa cricca, escludendo tutti gli altri gruppi borghesi, occorre ancora distinguere degli elementi quali la tecnica dell’esercizio del potere, la questione dei quadri e la base sociale del movimento.
[…] I regimi di tipo bonapartista non sono andati più in là del monopolio del potere. Lo vediamo tanto per il bonapartismo del XIX secolo quanto per quello d’oggi. Essi sono giunti a centralizzare fortemente il potere, a eliminare i rappresentanti delle altre fazioni, a sottomettere l’attività di questi a un controllo severo e alla possibilità, in caso di necessità, di annientarli con gli strumenti repressivi. Ma non hanno potuto eliminarli completamente dalla scena politica. La vita politica è, per così dire, messa sotto una campana di vetro grazie al controllo della polizia, le sue manifestazioni sono più o meno indebolite e soffocate, l’opposizione è controllata o dominata dagli organi del potere, ma essa tuttavia esiste ed agisce. Gli elementi di una «società» legale esistono a fianco dello stato, cioè del gruppo che gode del monopolio dell’autorità e dell’amministrazione. Il gruppo suddetto, nonostante tutti i suoi sforzi, non può cambiare questo stato di cose perché non ne ha i mezzi. Il fascismo differisce dal bonapartismo prima di tutto in quanto possiede tali mezzi da far scomparire dal campo della legalità l’opposizione tra lo stato o l’amministrazione e la «società», e tali da realizzare l’ideale di un potere che non conosce più alcuna limitazione.
La forza che permette al regime fascista di raggiungere un pieno monopolio politico proviene dalla sua base politica nelle masse. È qui che noi troviamo le maggiori differenze tra i due tipi di regime.
L’esistenza di quadri numerosi, strettamente organizzati ed uniti, dà al fascismo la possibilità di penetrare molto più profondamente nella vita sociale. In un regime bonapartista classico, il centro di gravità del potere è nell’amministrazione; si lascia ai cittadini la libertà di stringere i pugni in tasca, consigliando loro di non aderire ad alcun partito e di obbedire al potere.
Nella dittatura fascista, il principio è diverso. Qui l’amministrazione dello stato diviene una succursale del partito. Attraverso le ramificazioni dell’amministrazione, questo penetra nella società fino ai nuclei più lontani e meno importanti. Non è la questione dell’autorità che fa la differenza. Coloro che sono ancora influenzati dai vecchi regimi reazionari sono inclini a notare gli aspetti proibitivi del regime, ma essi non sono nuovi e neanche essenziali. Ciò che vi è di nuovo è quella che si potrebbe chiamare l’irreggimentazione politica, per analogia con l’irreggimentazione militare. Si incorporano le masse dei cittadini nel servizio politico sottoponendole ad una disciplina molto severa, senza chiedere loro il parere così come non lo si domanda a chi è chiamato al servizio militare.
Si consideri, ad esempio, che ogni tedesco, ogni italiano, ecc., per il fatto stesso di essere nato tedesco, italiano o di altra nazionalità, deve dividere la fede politica dei suoi padroni così come la giovane recluta deve bruciare dal desiderio di una morte gloriosa sul campo dell’onore. Gli individui che non obbediscono sono oggetto di repressione. L’esistenza di un numero considerevole di agenti volontari dell’autorità ed il loro collocamento nelle più piccole cellule sociali, danno delle possibilità di controllo e di repressione preventiva molto maggiori che in qualunque altra forma di stato. […]
Un carattere distintivo del fascismo, spesso del resto sottolineato, è che esso è entrato in azione soltanto dopo la battaglia decisiva, dopo lo schiacciamento delle principali forze rivoluzionarie, come avvenne chiaramente in Italia. Nel 1919 il fascismo cerca di adattarsi all’ondata rivoluzionaria montante. Nel momento in cui gli operai occupavano le fabbriche, la giovane guardia del futuro dittatore non si batté affatto per difendere i proprietari, al contrario, essa fu chiamata a partecipare al movimento. Quando questo fu spezzato o piuttosto paralizzato, fu soltanto la rottura interna del movimento operaio che provocò un afflusso nelle file fasciste e dette impulso a queste ultime. Si trattava, prima di tutto, di una parte degli elementi piccolo-borghesi che erano pronti a raggiungere la rivoluzione operaia ma che si interessavano più ad un colpo di stato in sé che al suo programma.
Questi elementi ebbero influenza soprattutto in occasione del colpo di grazia assestato agli ultimi centri di resistenza della classe operaia, dispersi e disorientati. Fu soltanto allora che si organizzarono l’ideologia e la tattica di Mussolini, non più il leader del 1919, ma quello che doveva prendere il potere nel 1922.
Qui comincia il periodo di quel giuoco tattico su due fronti che costituisce l’essenziale della «rivoluzione nazionale». Pur fornendo ai grandi proprietari fondiari ed ai proprietari delle fabbriche delle squadre per portare, sul posto, il colpo di grazia al movimento rivoluzionario, si formula nello stesso tempo un programma di riforme ampie ed audaci, calcolato per conquistare gli elementi sociali più svariati, riforme propagandate senza risultato fino ad allora dal partito della rivoluzione.
Questo lavoro sulle forme della rivoluzione dislocata costituisce giustamente un carattere nuovo ed essenziale. Se è possibile fare un tale paragone, il fascismo si inserisce sui fili che forniscono l’energia alla rivoluzione ed utilizza per i propri motori questa energia rubata. Liquidando a proprio vantaggio il processo rivoluzionario, si sforza di dare alla rivoluzione un epilogo «organico», secondo la propria concezione. […] Questo fatto di vivere parassiticamente sulla rivoluzione abortita e di farla deviare su altre vie, costituisce un tratto caratteristico che differenzia il fascismo da ogni altra forma di controrivoluzione. [André Stawar, Bonapartismo e fascismo (1934), in Id., Liberi saggi marxisti, Firenze, La Nuova Italia, 1973].