È solo nel 2019 che l’UE, in un documento ufficiale, prova a definire i suoi rapporti con la Cina. I termini, formulati alla vigilia della conclusione dell’ambizioso accordo tra UE e Cina sugli investimenti esteri, non possono che rispecchiare l’identità plurale dell’UE, assieme alla natura ibrida della “sua” politica estera. Per l’UE, la Cina sarebbe un «cooperation partner», un «negotiator partner», un «economic competitor», ma anche un «systemic rival promoting alternative models of governance» [EU-China – A strategic outlook, 12 marzo 2019]. Da parte cinese si è provato a smussare gli angoli, ribattendo che Cina e UE sono «comprehensive strategic partners, not systemic rivals» [Wang Yi]. Pur considerando questa increspatura, la postura dell’UE è apparsa assai diversa da quella degli USA, non solo quelli di Trump, ma anche quelli di Biden, per il quale la «Cina autocratica» costituisce, assieme alla crisi climatica, una delle «grandi sfide del nostro tempo» (Tooze, p. 312). Ciò, almeno fino allo scontro tra Europa e Cina sulle sanzioni e contro-sanzioni individuali adottate in merito alle vicende di Hong Kong e degli Uiguri dello Xinjiang e al riallineamento atlantico dell’UE dettato dalla guerra in Ucraina.
Fino al menzionato trattato sugli investimenti diretti (Comprehensive Agreement on Investment – CAI), gli Stati europei hanno proceduto singolarmente nei loro rapporti commerciali e strategie di investimento con la Cina, esponendosi alla debolezza delle loro divisioni.
Il disavanzo commerciale verso la Cina degli Stati UE era, prima della pandemia, di oltre 175 miliardi (di cui 20 miliardi annui relativi all’Italia). Il fatto che la Germania sia stato a lungo l’unico grande Paese europeo in surplus verso Pechino (per oltre 18,5 miliardi), ha fatto dire a un profondo conoscitore italiano della Cina che l’inerzia dell’UE su tale questione si spiega proprio con l’egemonia tedesca sulla Commissione (Bradanini). A partire dalla pandemia, tuttavia, il deficit commerciale è peggiorato non solo per l’UE ma, per la prima volta, per la stessa Germania.
Le Relazioni Cina-UE e la logica del divide et impera
Come noto, la Cina ha portato avanti la sua politica di investimenti diretti in Europa attraverso il progetto della “nuova via della seta” (Belt and Road Initiative-BRI), che ha l’ha vista siglare una serie di “Memorandum of Understanding” con singoli Stati, con una logica da “divide et impera”. In cima alla lista degli Stati europei che accolgono il maggior numero di investimenti cinesi, invero, si trovano anche i maggiori Paesi europei che non hanno siglato tali MoU (Regno Unito, Germania, Francia). Ma è solo quando l’Italia del governo Conte uno, nel 2019, ha voluto teatralizzare il suo MoU con la Cina che è scattata la reazione della Commissione a stigmatizzare i rischi di simili partnership col gigante asiatico, probabilmente più per l’antagonismo con il governo euroscettico giallo-verde di allora che per convinta presa di distanza dalla BRI cinese. Si è trattato anche di un allineamento simbolico alla netta avversione espressa dagli USA di Trump a tale accordo Italia-Cina, fra l’altro privo di effetti giuridici vincolanti. È solo la natura di soft law di tali accordi, del resto, che li mettono al riparo dalla violazione delle competenze dell’UE nelle materie da questi toccate, quali, in particolare: coordinamento delle politiche, connettività e infrastrutture, libero scambio, integrazione finanziaria e scambi culturali [Calamita].
In ogni caso, a fronte degli esiti meramente simbolici del MoU siglato dal governo italiano nel 2019, nel 2021 il ben più allineato governo Draghi ha bloccato significativi investimenti cinesi nel campo dei semiconduttori e della robotica, con ben 5 ricorsi al golden power in due anni per inibire incursioni della Cina nell’industria italiana giudicata strategica dal governo Draghi (senza tuttavia giungere a bandire i colossi cinesi del 5G dalle infrastrutture italiane, per non compromettere eccessivamente i rapporti con la Repubblica popolare). Ma va detto che le relazioni Italia-Cina si erano già raffreddate, per impulso degli USA, prima dell’insediamento del governo Draghi.
Da rilevare il dato per cui la BRI cinese è finanziata da una Banca creata da Pechino (l’Asian Infrastructure Investment Bank – Aiib, operativa dal 2016), cui partecipano anche singoli Stati dell’UE (con il 25 % di capitale versato), mentre l’UE ha espressamente rigettato l’opzione di aderirvi.
L’interesse cinese per le infrastrutture portuali nel Mediterraneo è noto da tempo: la Cina controlla dal 2016, tramite la Chine Ocean Shipping Company, il porto del Pireo, con 700 milioni di investimenti. Il tentativo di spingersi a controllare anche l’Adriatico non è, per ora, riuscito: il porto di Trieste è finito sotto il controllo dell’operatore di Amburgo (Hafen und Logistik – Hhla), nonostante l’offerta del colosso cinese China Merchants fosse più alta. Al veto statunitense contro l’espansione cinese si sono aggiunte le mire tedesche, ponendo Trieste al centro del triangolo Washington-Pechino-Berlino [Limes]. Resta ancora vivo l’interesse cinese per Taranto, ove recentemente il gruppo Ferretti, controllato all’85% da un’impresa di stato cinese, ha ottenuto in concessione un’area per realizzare un cantiere e un centro di ricerca. Ma il potenziamento della marina militare italiana e delle Forze Nato a Taranto dovrebbero frenare tali ambizioni cinesi [ibidem]. Oltre a ciò, la Cina ha, nel programma di investimenti per la BRI, acquisito il 5% di Autostrade per l’Italia e il 49.9% del Porto di Vado Ligure.
Nell’ultimo decennio, la Cina ha realizzato l’ingresso nell’azionariato di aziende strategiche italiane, quali Fca, Telecom Italia, Enel, Generali, Ansaldo Energia e Cdp Reti, fino all’acquisizione, nel 2015, della Pirelli da parte di China National Chemical [Ispi]. È di questi giorni la notizia dell’acquisizione da parte della cinese COSCO del 25% di un terminal del porto di Amburgo, assai contestata dal partito tedesco dei Verdi, alleati di governo.
La Cina ha, dunque, per lungo tempo preferito trattare bilateralmente con gli Stati dell’UE, anziché con le istituzioni europee, per la gestione della BRI e dei suoi investimenti diretti, in generale.
Dal punto di vista giuridico, gli Stati membri sono tuttora vincolati ai singoli Bilateral Investment Treaties (BITs) a suo tempo conclusi con Pechino, almeno finché non entrerà in vigore il Comprehensive Agreement on Investment (CAI), di cui si dirà a breve e nonostante il recente Regolamento che istituisce un quadro per controllo degli investimenti diretti esteri nell’Unione (Reg. UE 2019/452). Per l’Italia, si tratta del BIT Italia-Cina siglato a Roma nel 1985 e in vigore dal 1987 [Calamita].
Sebbene le istituzioni europee abbiano fin qui criticato i protagonismi degli Stati membri nei rapporti economico-commerciali con la Repubblica Popolare, per l’indebolimento degli sforzi dell’UE di presentarsi come attore unico sulla scena internazionale, non è chiaro quanto ciò rappresenti una postura “di facciata”, stante l’atteggiamento di Paesi-guida come Francia e Germania e dello stesso Lussemburgo dell’ex Presidente della Commissione Junker.
Il Comprehensive Agreement on Investment tra Cina ed Unione europea
UE e Cina, dopo l’illusorio tentativo di una Strategic Partnership nel 2003, hanno concluso il 30 dicembre 2020 il Comprehensive Agreement on Investments, in esito a un negoziato durato 7 anni, con ben 35 cicli di trattative (l’accordo UE-Messico è stato concluso in soli 7 cicli). Si tratta di un accordo mirante a realizzare plurimi obiettivi, tra cui spiccano quello, cruciale per l’UE, di garantire l’accesso senza discriminazioni agli investimenti stranieri, nonché quello di uno sviluppo sostenibile in termini di rispetto dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori. Oltre a ciò, l’accordo mira a introdurre elementi di trasparenza rispetto agli aiuti di stato per le imprese in mano pubblica: diversamente da altri accordi sugli investimenti diretti, l’enfasi è meno sulla tutela degli investimenti già in essere, quanto sulla garanzia del c.d. «level playing field». L’UE ha da tempo aperto il suo mercato unico agli investimenti stranieri, senza discriminazioni, cosa che la Cina si è fin qui rifiutata di fare, imponendo condizioni e restrizioni notevoli alla penetrazione di imprese straniere nel suo enorme mercato, specie nel settore dei servizi. Lo testimonia l’aumento degli investimenti cinesi in Europa e il calo di quelli europei in Cina degli ultimi anni.
L’accordo punta a rendere più verificabili ed eventualmente effettivi alcuni vincoli teoricamente già contemplati dal WTO, i quali però non sono mai stati davvero rispettati da parte cinese, così come a impegnare la Repubblica popolare a siglare le convenzioni OIL contro il lavoro forzato e il diritto di associazione dei lavoratori.
Le fasi decisive del negoziato dell’accordo Cina-UE sono coincise con la Presidenza Trump e la guerra commerciale di questo contro la Cina, mentre la tempistica della conclusione del CAI ha coinciso con l’insediamento della Presidenza Biden. Proprio per la mancata attesa delle possibili interlocuzioni tra la nuova Presidenza USA con l’UE sull’accordo, il Governo e parte della stampa USA hanno manifestato tutta la loro irritazione per la vittoria strategica concessa alla Cina da un’UE ‘auto-interessata’ e responsabile di dividere il ‘fronte occidentale’ nella lotta contro l’autocrazia cinese.
In effetti, se per entrambe le parti si è trattato di lanciare un segnale di contrasto alle tendenze di de-globalizzazione in atto, per la Cina il CAI rappresenta un’importante occasione per confermare la sua asserita visione pluralista delle relazioni internazionali, contro l’unilateralismo statunitense, che tradotto in termini più prosaici corrisponde all’obiettivo di separare l’UE dagli USA (Telò). Mentre l’UE ha avuto gioco facile a ribattere all’amico americano che non è stata certo concordata la guerra commerciale di Trump così come il ben più risalente boicottaggio degli USA al multilateralismo del WTO (il CAI è stato negoziato negli anni di paralisi del Development Doha Round del WTO). In effetti, le clausole del CAI sembrano concepite non solo per tutelare gli interessi strategici di UE e Cina, ma anche per rafforzare gli accordi del WTO, le Convenzioni OIL e gli impegni ambientali della COP 21.
Per l’UE si è trattato, inoltre, di mettere in pratica quello che il Trattato di Lisbona metteva sulla carta, ossia la possibilità di agire, in materia di investimenti esteri, come un unico soggetto, contrastando la strategia divisiva attuata dalla Cina nei confronti degli Stati europei.
Considerando il diverso grado di apertura agli investimenti esteri degli ordinamenti degli Stati membri dell’UE, il CAI ha comportato vincitori e vinti, con le imprese tedesche collocate sicuramente tra i vincitori (Telò). Tale asimmetria non ha però impedito alla Commissione di ottenere l’unanimità dei 27 governi rappresentati nel Consiglio. Sulla carta, invero, il CAI rappresenta un ribilanciamento delle posizioni in favore dell’UE, oltre a una mossa strategica per contrastare il nascere di una nuova guerra fredda contro la Cina che danneggerebbe gli interessi europei.
L’affossamento dell’accordo UE-Cina sugli investimenti: un successo per il Parlamento europeo e i diritti umani?
Il Trattato di Lisbona ha inserito, nella politica commerciale comune, anche gli investimenti esteri diretti (art. 207.1 TFUE), con ciò producendo ripercussioni sia nei rapporti tra UE e Stati membri (legati da numerosi accordi in materia con Paesi terzi e con la Cina, in particolare), sia nei rapporti tra istituzioni della stessa UE.
Dal punto di vista dell’equilibrio istituzionale, il PE ha pienamente utilizzato i nuovi poteri concessi a suo favore dal Trattato di Lisbona nella politica commerciale comune (art. 207.2 TFUE), mentre in precedenza il suo ruolo non era neppure contemplato. Tale nuovo ruolo offre al PE importanti poteri anche nella negoziazione degli accordi internazionali relativi a tale politica, dovendo la Commissione riferire periodicamente sull’avanzamento dei negoziati non solo al vecchio “comitato 133” (composto dai direttori del commercio estero dei relativi ministeri degli Stati membri), bensì anche al PE (artt. 207.3 e 218.10 TFUE), al quale spetta il potere di approvare la ratifica dell’accordo da parte del Consiglio (art. 218.6 TFUE). Il PE ha fatto uso dei poteri d’influenza derivanti da tale nuovo status costituzionale, pretendendo e ottenendo (nel 2017) che il CAI contenesse un capitolo sullo “sviluppo sostenibile” incentrato sulla tutela internazionale dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori (Telò).
Ed è lo stesso parlamento il protagonista, per così dire, delle vicende terminali del CAI, che hanno condotto alla sospensione delle procedure di ratifica a seguito dello scontro a colpi di sanzioni individuali tra Stati europei e UE, da un lato, e Repubblica popolare, dall’altro, sul tema del rispetto dei diritti umani e della repressione nel Xinjiang e a Hong Kong.
Dopo l’approvazione della decisione del Consiglio sul regime delle sanzioni contro le violazioni dei diritti umani del 7 dicembre 2020 (di poco anteriore alla firma del CAI, del 30 dicembre 2020), l’UE si era dotata di uno strumento per colpire singole persone fisiche o giuridiche (divieto di viaggiare, congelamento di beni, divieto di finanziamenti) che di lì a poco sarebbe stato utilizzato per colpire quattro funzionari cinesi di fresca nomina responsabili delle violazioni dei diritti degli Uiguri nello Xinjiang.
La dura reazione di Xi Jinping non si è fatta attendere: la Cina ha colpito alcune entità e individui europei, tra cui alcuni membri dei maggiori gruppi politici al Parlamento europeo e la sottocommissione per i diritti umani di quest’ultimo. Non si sa bene se tale reazione cinese sia stata calcolata o meno, con riguardo alle possibili conseguenze negative sulla “ratifica” del CAI, sul quale doveva pronunciarsi ancora lo stesso Parlamento europeo. Quest’ultimo, già animato da forti dubbi sull’effettività degli impegni siglati dalla Cina in materia di “sviluppo sostenibile”, ha sospeso (con voto quasi unanime) la “ratifica” del CAI, con ciò congelando a tempo indefinito l’accordo Cina-UE.
La vicenda della (provvisoria?) fine del CAI è emblematica per entrambe le parti.
La Cina ha dimostrato il suo prioritario interesse per la tutela della propria sovranità contro ogni ingerenza interna, anche a costo di vanificare anni di trattative con l’UE per un accordo in grado di affermare il suo ruolo di paladina del multipolarismo e di dividere il fronte occidentale (ma c’è il dubbio che il ripensamento fosse calcolato, viste le importanti concessioni in favore dell’UE e il riallineamento degli Stati europei agli imperativi della sicurezza invocati dagli USA, specie nel 5G). Se l’atteggiamento di Pechino è sembrato di difficile interpretazione, esso ha comunque fornito la riprova che «qualsiasi idea di convergenza con le norme liberali un tempo propagandata dalla teoria della modernizzazione occidentale era chiaramente obsoleta» (Tooze, p. 314).
L’UE, dal canto suo, ha dimostrato il paradosso del suo conflitto identitario interno: da un lato, l’esigenza di esercitare, attraverso la contestata chiusura del CAI, la propria “autonomia strategica” rispetto agli USA e il suo sostegno al multilateralismo; da un altro lato, l’esigenza di tener fede ai propri valori “non negoziabili” (la tutela dei diritti umani), come fatti valere dalla società civile e dal protagonismo del Parlamento europeo nella politica commerciale estera che proprio il Trattato di Lisbona ha reso possibile.
L’attualità sembra rafforzare l’esito divisivo delle vicende appena illustrate: nel suo discorso tenuto in occasione del XX Congresso del Partito comunista cinese del 16 ottobre scorso, Xi Jinping ha affermato l’irrinunciabilità del «diritto di usare la forza per la riunificazione di Taiwan», in netta risposta alla Casa Bianca. Per ciò che riguarda la gerarchia dei valori, Xi sembra chiaramente porre la sicurezza, tanto interna che esterna, al di sopra dell’economia.
La reazione dei 27 ministri degli esteri dell’UE nell’incontro del 17 ottobre del Lussemburgo è stata critica, affermandosi l’esigenza di non ripetere gli errori già commessi con la Russia di Putin ed «evitare di ricreare delle dipendenze»; l’allineamento alla strategia degli USA di contenimento della Cina sembra chiaro e la definizione di “rivale sistemico” campeggia ormai nel discorso europeo; resta comunque aperto uno spiraglio per la cooperazione, specie sul clima, posto che, secondo le parole dell’Alto rappresentante Borrell, senza Pechino «i problemi del mondo non si risolvono».
Ma il messaggio più interessante è quello interno: occorre opporsi al divide et impera della Cina. Così i 27 ministri degli esteri, probabilmente preoccupati della (solita) corsa solitaria della Germania verso la cura dei suoi interessi in Cina. Dopo la rielezione di Xi, il Cancelliere Scholz è stato, infatti, il primo leader europeo a recarsi a Pechino per congratularsi, assieme a una delegazione di imprenditori tedeschi. Vedremo se le preoccupazioni di questi ultimi saranno più eloquenti dei richiami all’ordine della debole politica estera dell’UE e se la lettura ‘europeista’ data dallo stesso Scholz a tale visita (sarebbe interesse dell’intera UE non tagliare i rapporti con la Cina) troverà conferma.