IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Contro la frantumazione dei diritti e la deriva autoritaria

Giovedì 1° giugno ad Ancona presso la Sala d'Antona, Via I Maggio 142/A (dalle ore 15.30) si terrà l'incontro organizzato dalla CGIL-Marche sul tema dell'autonomia differenziata e del presidenzialismo. Dopo i saluti del segretario regionale CGIL, Roberto Santarelli, sono previsti gli interventi dei professori Massimo Villone, costituzionalista, Fabio Fiorillo, economista, e Federico Losurdo, costituzionalista.

A questo link la diretta (e la registrazione) audio e video dell’evento

Qui di seguito un breve stralcio dell’intervento programmato di Federico Losurdo.

Più autonomia meno differenziazione

L’autonomia territoriale, insieme ai partiti politici di massa, dovevano essere nell’ottica del Costituente i motori principali della legittimazione democratica del neonato Stato. L’autonomia territoriale costituisce un principio supremo dell’ordinamento costituzionale. Una delle manifestazioni più alte dell’autonomismo in senso virtuoso è l’istituzione del S.S.N.

L’unità economica, politica e giuridica della Repubblica doveva essere preservata dalla garanzia di adeguati meccanismi di perequazione fiscale (con la redistribuzione di risorse da territori con maggiore capacità fiscale verso quelli con minore capacità fiscale) e infrastrutturale (con la possibilità di destinazione di risorse ulteriori specie nei confronti del Mezzogiorno). Il Costituente era ben cosciente che la differenziazione normativa, amministrativa e, soprattutto, quella finanziaria, non potevano spingersi oltre un certo limite, superato il quale sarebbe stata messa a repentaglio l’unitarietà della Repubblica.

Dalla prima lettura del disegno di legge c.d. “Calderoli”), ora in discussione alle Camere, emergono due grandi criticità: una concernente le ricadute di tale riforma sul ruolo e sulle funzioni delle autonomie locali; l’altra attinente alla stessa unità politica, giuridica ed economica della Repubblica.

Rispetto alla prima criticità, si delineano gli effetti “paradossali” di un inedito centralismo su base regionale. Il riconoscimento ad alcune Regioni ordinarie di nuove importanti competenze legislative “esclusive” in materie, quali istruzione e formazione professionale, politiche attive del lavoro, organizzazione sanitaria, tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, può riverberarsi in un sacrificio delle potestà amministrative dei Comuni di tali Regioni e, di riflesso, in una corrispondente riduzione delle risorse finanziarie a loro disposizione. Con il risultato di un vero e proprio ribaltamento della logica sottesa al principio costituzionale di sussidiarietà verticale (art. 118, comma 1) che muove dall’idea di affidare le funzioni amministrative ai livelli di governo più prossimi ai cittadini e, solo laddove questi non siano in grado di eseguire tali funzioni, l’intervento sostitutivo dei livelli di governo superiori.

Rispetto alla seconda criticità, l’attuazione del regionalismo differenziato con un indebolimento dei meccanismi di perequazione delle risorse fiscali e delle dotazioni infrastrutturali è destinata ad accrescere enormemente i divari territoriali, mettendo a repentaglio l’uniformità dei diritti di cittadinanza su tutto il territorio nazionale.

Il ddl. Calderoli si limita a stabilire che l’attribuzione di nuove funzioni alle Regioni è consentita subordinatamente alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) da parte della Cabina di regia istituita dalla legge di bilancio 2023, con la cooperazione di una commissione di “saggi” (presieduta da Sabino Cassese). I LEP dovrebbero essere fissati con DPCM (acronimo divenuto celebre durante l’emergenza pandemica), atti non sindacabili dalla Corte costituzionale, deliberati in tutta scioltezza dal Consiglio dei Ministri, in violazione della riserva di legge prevista nell’art. 117.2 lett. m, con un procedimento preparatorio affidato alla suddetta“Cabina di regia” che prenderà come punto di partenza la “spesa storica” dell’ultimo triennio, prevedendo poi un parere parlamentare, senza il quale dopo 45 giorni si potrà comunque procedere.

Il concetto di livelli essenziali richiama la mera eguaglianza in senso formale, rischiando di tradursi in una cristallizzazione dei divari esistenti. Mentre l’uniformità dei diritti fondamentali di cittadinanza evoca l’eguaglianza in senso sostanziale, come principio trasformatore dello status quo che impegna la Repubblica non solo a compensare gli effetti negativi dei meccanismi di mercato, ma anche a redistribuire parte della ricchezza prodotta secondo una ratio di giustizia sociale.

Più parlamentarismo, meno presidenzialismo

Il discorso sul presidenzialismo si lega strettamente al discorso sulla “governabilità” a tutti i costi. La governabilità è di per sé cosa buona e giusta, come raggiungerla senza sacrificare la rappresentatività è questione assai più complessa.

Già sul finire della “prima Repubblica”, l’idea della governabilità e della rapidità delle decisioni prende il sopravvento sull’istanza della rappresentatività. Si pensi al fatto che negli anni Novanta si introduce l’elezione diretta dei Sindaci dei comuni e dei Presidenti di Provincia e poi l’elezione diretta dei cosiddetti “Governatori” delle Regioni. Nel 1993, in seguito ad una martellante campagna mediatica contro gli asseriti vizi del sistema elettorale proporzionale, viene approvato con un’amplissima maggioranza il Referendum “Segni” che confluisce nella legge elettorale prevalentemente di stampo maggioritario “Mattarellum”.

Lo spirito presidenzialista è poi stato incarnato dalle Presidenze Napolitano e Mattarella che hanno nominato governi “tecnici”, Monti e più recentemente Draghi, appoggiati da maggioranze bipartisan per garantire prima di tutto il rispetto del vincolo atlantico ed europeo.

Non è da sottovalutare la potenziale deriva autoritaria sottesa alla riforma in senso semipresidenziale. Negli ultimi anni si è cercato di conseguire l’obiettivo della governabilità, non rafforzando il ruolo del Parlamento – cosa che in linea ipotetica (non in questa fase storica) si potrebbe ottenere con il monocameralismo (proposto in Assemblea Costituente dal Partito comunista) – ma attraverso vari escamotage di dubbia legittimità costituzionale: abuso del decreto legge e del decreto legislativo, abuso della questione di fiducia (che azzera il dibattito parlamentare, conducendo immediatamente al voto finale), uso strumentale dei regolamenti per restringere drasticamente il tempo di parola delle opposizioni. Con il risultato di trasformare il parlamento in un organo di ratifica di scelte già assunte in sostanza dal Governo.

È proprio la mancanza e il costante indebolimento di forti contropoteri – compresa l’assenza di forti soggetti collettivi capaci di mediare il conflitto – che rende “pericolosa” una scelta presidenzialista in Italia. Sotto la formula del rispetto del voto espresso dai cittadini, si cela l’opzione per una democrazia dell’investitura. La riduzione delle procedure della democrazia all’investitura del capo politico che, essendo eletto direttamente dai cittadini ha il diritto/dovere di governare, senza subire condizionamenti di sorta dal Parlamento o dagli organi di garanzia, costituisce la vera concezione istituzionale di questa destra.

Stampa o salva l’articolo in Pdf

Newsletter

Privacy *

Ultimi articoli pubblicati