IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Crisi politica dell’Europa e “deoccidentalizzazione”

La guerra sta svelando il volto di un’Unione europea con l’elmetto della Nato, una presenza senza voce, emarginata e subalterna. Un’Europa che si appresta a inaugurare una politica di austerità militare per conto degli Stati Uniti.

È risaputo che le guerre con il loro carico di atrocità disvelano la consistenza politica dei singoli attori coinvolti. Intervistato da Il Riformista, nel marzo scorso, Mario Tronti così si esprime sul conto dell’Europa: «questa guerra ci sta mostrando un animale impolitico di strane sembianze: un’Unione economica europea con l’elmetto della Nato. Più che una grande assenza quella dell’Europa ufficiale di oggi è una piccola minuscola presenza senza voce, emarginata e subalterna». In effetti, la pandemia, prima, e la guerra in Ucraina, poi, sono servite a mostrare il vero volto dell’Europa: un sistema istituzionale sovraordinato ai singoli Stati a forte vocazione amministrativa, concepito per assecondare le presunte sorti magnifiche e progressive del mercato, come ripetuto anche di recente da Angela Merkel. Ebbene, la tesi che si proverà ad argomentare è che l’attuale quadro di fragilità politica dell’Europa, a fronte di uno scenario internazionale in rapido deterioramento, non è l’accadimento di un destino cinico e baro piuttosto il frutto avvelenato di precise scelte fatte che molto probabilmente, quello scenario, hanno contribuito ad alimentarlo.

La “seconda” globalizzazione occidentale

Ora, un’analisi critica che ambisce a rendere ragione di quello statuto eminentemente amministrativo che caratterizza l’Europa ufficiale, come appellata da Tronti, non potrà non concentrarsi su quel paradigma economico che ha fatto da cornice a quella costruzione e l’ha resa in qualche modo possibile. L’Unione Economica Europea si colloca, infatti, in quella particolare temperie epocale che in rapida sequenza ha visto il crollo, per implosione, dell’Urss, la celebrazione delle economie di mercato e degli annessi sistemi istituzionali informati al credo liberal-democratico, suggellata dalla fine della storia proclamata da Francis Fukujama. Da qui il varo da parte del blocco occidentale della seconda globalizzazione, dopo quella tentata e finita nel sangue di fine Ottocento, di cui stiamo registrando nel presente gli esiti fallimentari. Si comprende agevolmente come in un contesto culturale e ideologico siffatto, l’Europa è stata intesa dai suoi “architetti” semplicemente come infrastruttura a carattere amministrativo che rispondesse alle esigenze di un mercato sempre più ampio ed integrato e tendenzialmente globalizzato

La lotta di classe dall’alto

Ebbene, una soluzione di questo genere sarebbe stata impensabile nel “glorioso” trentennio (1945-1975) keynesiano imperniato sugli Stati, sostenuti da partiti e sindacati, che avevano tutti per obiettivo la piena occupazione e il controllo politico del movimento dei capitali. Non a caso nei primi anni Settanta il capitalismo occidentale segna la sua crisi più drammatica, che corrisponde ad un crollo verticale del saggio di profitto e una fase economica di prolungata stagnazione nella crescita e simultanea esplosione incontrollata dei prezzi – quel fenomeno che nei manuali di storia è riportato con l’espressione «stagflazione». Tra i fattori scatenanti va annoverata la sciagurata e infinita guerra in Vietnam con tutto il suo strascico di squilibri finanziari, dovuti agli incontrollati quantitativi di dollari stampati e immessi nel sistema valutario per fare fronte alle necessità militari. Circostanza che il mainstream si guardò bene dal denunciare in quanto era funzionale al nuovo corso che si intendeva avviare e che Gallino ha racchiuso opportunamente nella formula della «lotta di classe dopo la lotta di classe».  Il nuovo modello economico che prende forma e che orienta sin dall’inizio il progetto europeo è impostato non più sull’obiettivo strategico della massima occupazione, ma il nemico diventa l’inflazione, esplosa effettivamente a seguito della grave crisi petrolifera del ’73; lo scopo diventa quello di ricostituire ed ampliare il «tasso naturale» di disoccupazione, di cui abbiamo traccia evidente ancora nel relativamente recente Trattato di Lisbona (2007).

Old economy e new economy

Lo sviluppo economico, in base a questo nuovo paradigma via via dilagante, prima nell’anglosfera e poi in Europa, è inteso come una oggettività, matematicamente misurabile e dimostrabile – tanto che in luogo della parola economia nei vari dipartimenti di economia e cancellerie di Stato si preferisce quella di econometria (per segnalare la stretta parentela con la matematica e la statistica, più che con la politica), con una sua propria logica interna di equilibrio nella formazione dei prezzi e allocazione di merci e capitali, liberi questi ultimi di muoversi per ottimizzare i profitti e «delocalizzare» ovunque. Con le quattro sacre libertà scolpite nei vari Trattati europei, a partire da quello programmatico di Roma del ’57, della «libera circolazione di capitali, servizi, merci e persone» si ponevano le basi per un progressivo disimpegno dall’industria manifatturiera, la Old Economy, a favore della New Economy, tanto decantata non a caso a quei tempi dal laburista inglese Tony Blair. Mentre la prima, infatti, assicurava occupazione stabile e redditi dignitosi, la seconda creava colossi tecnologici che svettavano, per redditività, nei listini di Borsa. Non è dunque frutto del caso che nel 2019, a consuntivo di una stagione economica sciagurata, mentre in Germania la quota della manifattura era del 20% del PIL, in Cina aveva raggiunto il 28%. In Italia era scesa al 15%, in Francia al 10% e in Gran Bretagna addirittura al 9%. Ma per un paradigma economico deflattivo e dove soprattutto la disoccupazione non era più un problema, la Old Economy rappresentava, con i suoi bassi profitti oltretutto su tempi lunghi, per la nuova oligarchia finanziaria nel frattempo egemone, solo un vecchio arnese da accantonare. Le Big Tech e soprattutto la finanza hanno contribuito a concentrare al massimo i capitali, perché i profitti sono elevati e istantanei (il tempo di un click), mentre tutta la struttura intermedia costituita da centinaia di migliaia di professionisti tende a sparire risucchiata dagli sviluppi informatici.  Il che ha creato in neppure troppo tempo un diffuso disagio sociale che ben presto si è trasformato in protesta politica di segno per lo più regressivo. In un contesto di individualismo spinto ed assenza di soggetti collettivi organizzati, nel frattempo rasi al suolo, non poteva essere altrimenti.

Le nuove oligarchie del denaro

Ora, delle classi dirigenti, politiche ed imprenditoriali, consapevoli del loro ruolo, avrebbero avviato una profonda autocritica ed una correzione di rotta; non così le nuove “oligarchie del denaro” nel frattempo consolidatesi in un contesto globale i cui processi di soggettivazione sono perlopiù improntati, nella migliore delle ipotesi, a codici e statuti tecnocratici, nella peggiore si auto-rappresentano ed agiscono da meri gruppi di interesse senza scrupoli. Così la crisi si è avvitata su sé stessa. Si è passati da un sistema turbo-capitalistico arrembante, analizzato con dovizia di particolari da Luciano Gallino, ad una fase di ripiegamento tecno-capitalistico, dove l’utilizzo massivo dell’elettronica si è sdoppiato: oltre a garantire alti profitti è servito ad intensificare nei Paesi dell’Unione, sia pure in forme diversificate, la sorveglianza ed i controlli dentro e fuori i luoghi di lavoro. Il meccanismo di accumulazione basato per lo più su bolle finanziarie non si è fermato, con i relativi e immancabili scoppi quale si è avuto modo di constatare anche in tempi recenti. L’ideologia meritocratica mirante a congelare i rapporti di forza e il sistema di valutazione onnipervasivo hanno completato il quadro. La situazione è così grave che, come ha sottolineato in un bel saggio Giulio Azzolini, non è più «il tempo di generici appelli agli Stati Uniti d’Europa». Anche la diatriba che ha visto contrapposti due giganti Wolfgang Streeck e Jürgen Habermas, tra disintegrazione e più integrazione, appare «un’alternativa di retroguardia» rispetto alle urgenze attuali. La crisi è profonda perché attiene alle modalità concrete della convivenza tra popoli e culture differenti, con prospettive economiche che restano inconciliabili, e che ogni ulteriore ingegnosa messa a punto solo istituzionale rischia di aggravare. Insomma, il nodo non è istituzionale ma politicocostituzionale. Pare che in questi giorni si sia consumata l’ennesima fuga in avanti con l’annuncio, da parte della Commissione europea, di un piano da un miliardo di euro per aumentare le produzioni di munizioni nel vuoto assoluto, ancora una volta, della politica. Il discorso di Scholz al Parlamento europeo annuncia questo nuovo corso di «austerità militare», con la Germania a fare da locomotiva per conto degli Stati Uniti «nell’organizzare e, soprattutto, finanziarie il contributo europeo alla guerra» (W. Streeck).

La “permacrisi” dell’Europa e il “dovere” di resilienza

L’Europa con la sua intima vocazione tecnocratica pare esposta più di altri ai nuovi assetti a-democratici che il “capitalismo bellico” ha in serbo per le varie comunità umane. L’emergenzialismo o «permacrisi», secondo l’eloquente neologismo evocato nell’aprile scorso da Christine Lagard, potrebbe avere lo scopo di fare introiettare ai subalterni che all’Ordine, per sua natura inemendabile, è connaturato il negativo senza possibilità alcuna di poterlo dialetticamente superare. Ne consegue, nei vari ambiti, la promozione di codici di comportamento all’insegna della resilienza che punti sulle risorse adattive in luogo dell’immaginazione trasformativa. Paradossalmente in una prospettiva di trasformazione dello stato di cose esistente si dovrebbe riguadagnare la genuina nozione di crisi, che rimanda invece alla critica e dunque alla concreta possibilità di poterla governare. Non così, viceversa, l’emergenzialismo che nel tendere a normalizzare la crisi, ne farà assumere i caratteri irreversibili di una malattia cronica da cui non si guarisce, al massimo non si muore. Un vasto programma che convocherebbe una sinistra, sociale e politica, da ripensare e, forse, da rifondare. A noi toccherà coltivare senza posa la fiammella del pensiero critico ed il senso del collettivo, senza i quali non si dà politica ma solo ribellioni senza avvenire.

Testi citati nell’articolo

Il Riformista, 21 marzo 2023.

Azzolini, Dopo le classi dirigenti, Bari, Laterza, 2017.

Boarelli, Contro l’ideologia del merito, Bari, Laterza, 2019.

Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Torino, Utet, 2020.

Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Bari, Laterza, 2012.

Habermas-W.Streeck, Oltre l’austerità. Disputa sull’Europa, Castelvecchi, 2020.

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