L’Europa sta invecchiando. E sta invecchiando male, come ci ricorda Paolo Rumiz nella sua ultima opera “Canto per Europa” di cui trovate qui la presentazione. Invecchiare è naturale, è un destino ineluttabile. Invecchiare male non lo è. Accade quando non ci si rassegna al mondo nuovo, non se ne comprendono le tendenze essenziali e le fondamentali leggi di movimento.
Questa è, invece, come sanno i nostri lettori, la temeraria impresa in cui è impegnata fuoricollana sin dal numero zero, edito poco più di un anno fa, dal provocatorio e preveggente titolo “Il virus atlantico”. Oggi, grazie anche ad un significativo irrobustimento del nostro, del vostro, web magazine (una redazione più larga, nuovi collaboratori, nuovi progetti editoriali e di formazione), ci proponiamo di alzare ulteriormente il tiro. Di cominciare a nominare quali sono alcune di queste essenziali e fondamentali tendenze. De-occidentalizzazione e Bi-globalizzazione. Al momento assumeremo che si tratti semplicemente di “fatti”. Se siano dei “fatti normativi” è questione che lasciamo aperta alla ricerca, all’approfondimento, al confronto, al dibattito. Quello che sappiamo – e che i diversi contributi pubblicati in questo numero in varia guisa supportano – è che la prospettiva di una de-occidentalizzazione del mondo non è più, come in passato, solo una brillante profezia letteraria.
La parola de-occidentalizzazione del mondo è adoperata al momento prevalentemente da cultori di discipline secondarie quali la “geopolitica delle religioni”. Per la seconda volta nella storia – si dice – il baricentro dell’economia e della politica mondiale si sta spostando, dopo quattro secoli di intervallo, di nuovo in Oriente. Niente di avveniristico, a parlare sono eventi la cui contestualità non può, non deve, essere sottovalutata. Cominciamo, sia pur disordinatamente, a metterli in fila.
La Cina, nonostante le sfide del Covid-19 e della recessione economica, continua a muoversi costantemente verso l’obiettivo dichiarato di diventare una moderna potenza socialista entro il 2050. In Brasile, la rielezione di Luiz Inacio Lula da Silva come presidente fa sì che l’80% dell’America Latina ha oggi governi di sinistra che sostengono la necessità di mantenere le distanze dagli Stati Uniti e di promuovere una maggiore indipendenza e integrazione dell’America Latina, come emerge già dal contributo di Marcos Aurelio da Silva. Nel Sud-Est asiatico, che ha ospitato di recente i vertici dell’Asean, del G20 e dell’Apec, l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico ha mantenuto con cura la stessa distanza dalla Cina e dagli Stati Uniti.
In Asia centrale, i leader di Kirghizistan, Kazakistan, Uzbekistan, Tagikistan e Turkmenistan hanno continuato a rafforzare il meccanismo di consultazione dei capi di Stato e hanno firmato un trattato di “amicizia, buon vicinato e cooperazione per lo sviluppo dell’Asia centrale nel XXI secolo” nel segno di una distanza equa dalla Russia, dagli Stati Uniti, dall’Europa e da altre potenze. In Medio Oriente i Paesi del mondo arabo sono sempre più concentrati sul loro sviluppo strategico e indipendente. La Visione 2030 saudita, la Visione 2030 nazionale del Qatar, la Visione 2035 del Nuovo Kuwait, la Visione 2040 dell’Oman e la Visione 2050 degli Emirati Arabi Uniti sono tutti piani di sviluppo a lungo termine. Anche le potenze regionali che nutrono sogni di grandezza si mantengono a distanza dall’Occidente. L’India ha resistito alle pressioni per unirsi alle sanzioni contro la Russia, mantenendo la sua politica di cooperazione con la Cina, mentre la quota dell’Europa nell’economia globale continua a diminuire e l’economia indiana è diventata più grande di quella della Gran Bretagna, il suo ex padrone coloniale.
Naturalmente è, su tutte, l’avanzata cinese il banco di prova più rilevante. Negli ultimi anni, la Cina ha superato molti Paesi occidentali nell’attrazione di capitali esteri. Nel 2022 è entrato in vigore il più grande accordo di libero scambio al mondo, il Partenariato economico globale regionale (RCEP) che è un chiaro riflesso della perdita del monopolio dell’Occidente sul libero scambio. Un’evoluzione peraltro obbligata, come sottolinea Alberto Gabriele, per le sorti dello sviluppo socioeconomico della Cina e per la sua lotta “esistenziale” per la sopravvivenza nel quadro di un’inedita guerra fredda.
Così come lo è la crescente de-dollarizzazione del commercio globale (e, in misura minore, la “de-americanizzazione” della tecnologia). Negli ultimi 20 anni, la quota del dollaro statunitense nelle riserve internazionali è scesa costantemente da oltre il 70% a meno del 60%. Un processo, lo rileva nel suo contributo Vincenzo Comito, che ha ricevuto una potente spinta dall’uso del dollaro come arma: il trattamento subito dalla Russia ha spaventato molti paesi che cominciano a concepire un’alternativa che assesterebbe un colpo decisivo allo status imperiale degli Stati Uniti.
Un quadro largamente inedito sino alla prima crisi finanziaria d’inizio secolo e che l’attuale crisi bellica sta ulteriormente alimentando, con il rischio però di sbocchi catastrofici. Una guerra, quella in Ucraina, che ha reso più clamorosa l’ipocrisia della legalità internazionale post-guerra fredda e amplificato la subalternità dell’Unione Europea, come mostrano nei loro contributi Ilenia Massa Pinto e Salvatore Bianco. Resta il fatto che la globalizzazione non ha più il suo epicentro esclusivo a Washington e tanto meno a Bruxelles. E questo ci introduce alla seconda e connessa parola chiave del nostro discorso, bi-globalizzazione. Parola certamente poco in voga, se non inedita. Ma sono proprio gli eventi richiamati – già oggi carichi di rilevanti sviluppi politici, istituzionali, normativi – a farcela preferire a quelle, più alla moda, quali de-globalizzazione, neo-globalizzazione, globalizzazione regionale. Queste “parole” evocano l’orizzonte geopolitico e geoeconomico di un occidente atlantico da una parte e del resto del mondo dall’altra, una sorta di asfittica riedizione della divisione del mondo dell’epoca della prima guerra fredda. Bi-globalizzazione evoca, invece, l’orizzonte di un progressivo aumento di scambi e flussi bilaterali (commerciali, finanziari, tecnologici), di collegamenti infrastrutturali e culturali, non antitetici alla internazionalizzazione dello sviluppo, tra i paesi del “mondo non occidentale”.
Oggi, questo mondo, assai più di quello occidentale, punta sulla globalizzazione. Quello che sta provando a fare concretamente e quotidianamente è scrollarsi di dosso il controllo atlantico-statunitense, mettendo sempre più al centro i propri interessi nazionali, gli interessi dei propri popoli. L’ordine internazionale che verrà ha già in campo nuovi possibili poteri costituenti che, come tutti i poteri costituenti, procedono a istituire ordini parziali e limitati, ma già carichi di un inequivocabile significato generale. Il nuovo ordine economico e politico mondiale che verrà, se verrà come noi auspichiamo, sarà multipolare. L’Universo, smentendo le apocalittiche predizioni del globalismo fondamentalista degli scorsi decenni, sarà sempre più un pluriverso. Il quasi contemporaneo svolgimento del vertice del G7 a Hiroshima e del primo vertice del Presidente cinese Xi Jinping con i leader delle cinque ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale – Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan e Turkmenistan (da non trascurare l’assenza di Putin in un contesto storicamente sotto l’influenza russa) -, sta ad indicare l’esigenza sempre più diffusa di moltiplicare raggruppamenti e piattaforme di cooperazione in una fase di radicale mutamento dei rapporti di forza a livello globale.
Etica e politica del riconoscimento. Tutti invitati al ballo della globalizzazione, ognuno reclama il diritto a ballare al proprio ritmo e secondo le proprie vocazioni. Cresce la convinzione e la consapevolezza – checché ne pensi Aldo Schiavone – che l’attuale civiltà planetaria è inciviltà planetaria se da essa non origina quello sviluppo umano integrale al centro, da diversi anni, dei rapporti delle Nazioni Unite e della bergogliana enciclica Fratelli Tutti. E che ciò che oggi è di ostacolo a questo orizzonte di autentico progresso e di pace, di piena ed eguale dignità, non è la mancanza di un’unica leadership globale, ma l’assenza di una condivisione globale della leadership, capace di mettere sotto controllo, come suggerisce Mortellaro, l’immenso potere distruttivo celato nei meandri della nostra civiltà e i pericoli insiti nella sinuante lusinga dell’AI.
Premessa indispensabile per questa condivisione globale della leadership in ogni campo (energetico, ambientale, tecnologico) è il rispetto e la valorizzazione delle specifiche vie nazionali e regionali alla globalizzazione. Anche di quella ottava parte della popolazione mondiale che oggi è l’occidente atlantico. Il nostro auspicio è che questa bi-globalizzazione che è già confusamente, non senza contraddizioni, un fatto si elevi al rango di nomos del nuovo mondo. Crescere armonicamente e velocemente a chi, dopo secoli di umiliazione coloniale e sottosviluppo, tocca crescere. Sottraendosi al destino di insicurezza importata, che denuncia nel suo contributo Stefano Bellucci. Invecchiare bene, senza infantilismi senili, a chi tocca invecchiare. Chi non ha divorziato dal principio di realtà sa bene che non è il resto del mondo a voler dividersi dall’Occidente, ma il contrario. Fermati Europa! è, ancora una volta, il nostro appello.