In questo numero ci sforziamo di rovesciare il punto di osservazione: anziché guardare prioritariamente all’Occidente, alla sua pericolosa crisi di egemonia, proviamo a pensare prima di tutto al «the Rest», alla sua vitalità economica e alla sua crescita tecnologica. Per capire, in primo luogo, se da quella parte venga davvero solo una minaccia, ovvero se nella sfida per il riequilibrio dei rapporti di forza globali non ci sia anche un’opportunità. Già, perché se c’è un dato che emerge in modo difficilmente contestabile dall’esperienza degli ultimi anni è l’insuccesso dei tentativi finora compiuti da questa parte del mondo per uscire dalle contraddizioni che lo stesso sviluppo improntato al neoliberalismo ha prodotto. Contraddizioni che non investono soltanto la sfera economico-sociale – con il mix di prolungata stagnazione produttiva, crescita delle diseguaglianze e disgregazione dei legami sociali che la caratterizzano – ma finiscono per manifestarsi anche sul piano politico ed istituzionale. Le élites occidentali tendono a dare delle loro difficoltà e dei loro insuccessi un’interpretazione autoassolutoria basata sull’accusa ai paesi emergenti di voler minare “l’ordine internazionale basato sulle regole”, distruggere la democrazia e imporre il dominio dei loro regimi autocratici. L’Occidente non ce la fa, a dispetto dei numerosi tentativi. E incolpa di ciò coloro che dalla globalizzazione occidentale stanno traendo vantaggi inattesi. Talmente rilevanti da far preconizzare, con la fine della “Grande divergenza” e il declino dell’Impero americano, il definitivo eclissarsi dell’occidentalizzazione del mondo.
Le cause di questa dinamica sono assai complesse, ma non vi è dubbio che un ruolo decisivo nel determinarle sia stato svolto dalla crisi del processo di accumulazione verificatasi all’inizio degli anni Settanta. È da lì che ha avuto origine la spinta allo spostamento del capitale dalle attività produttive alla finanza e alla speculazione; la stessa dinamica, divenuta impetuosa nel corso degli anni Ottanta, ha consentito agli Stati Uniti di avere ragione dell’URSS e di concentrare nelle proprie mani una potenza politica e militare pressoché assoluta a livello globale (sulla “rinascita” della Federazione russa v. le lucide osservazioni contenute nell’intervista a Fédorovski che pubblichiamo per concessione del LAB Politiche e Culture). Sennonché quelle stesse dinamiche di finanziarizzazione hanno creato le condizioni per l’ascesa “dell’Asia orientale come centro di accumulazione su scala mondiale” (a questo proposito v. le osservazioni analitiche di Vincenzo Comito). Contestualmente ciò ha prodotto il deterioramento delle condizioni di benessere e di sicurezza delle classi lavoratrici in Occidente. E la crisi della democrazia. Le dinamiche anche geopolitiche di questo processo, che spinge sempre più lontano i paesi emergenti dal Washington Consensus, sono dettagliatamente analizzate nel contributo di Alberto Bradanini.
Dunque, non è esatto dire che “qualcosa è andato storto”. Più correttamente dovremmo dire che le cose sono andate per il loro verso, come dimostra il fatto che molti attori politici e molti studiosi avevano previsto questa evoluzione. Da questa parte del mondo si fatica insomma ad accettare una simile evoluzione. Si continua a rifiutarla. Magari interpretandola come un fenomeno di tipo esclusivamente quantitativo che non fuoriesce dal modello della civiltà occidentale, che gli “altri” si sarebbero banalmente limitati a sfruttare “scaricando” e utilizzando le «applicazioni killer» inventate dall’Occidente (Niall Ferguson, ma anche Aldo Schiavone). Oppure stigmatizzando come “barbariche” quelle istituzioni e quelle strutture culturali che non corrispondono agli standard universalizzanti ma non universali prodotti in Europa negli ultimi tre secoli. Ciò non significa, ovviamente, disprezzare le conquiste rappresentate dalle libertà civili e dal costituzionalismo democratico. Si tratta, semmai, di riconoscere che ciò che le minaccia non sono potenze straniere ma le concentrazioni di potere finanziario, tecnico-scientifico e mediatico che si sono sviluppate al loro interno in uno stretto rapporto con gli apparati burocratici e le élites politiche (in proposito v. il contributo di Alessandro Volpi che evidenzia la “collateralità” con il partito democratico e con quello di Trump dei gruppi finanziari in conflitto tra loro).
Che questi pericoli non siano le “campagne denigratorie della democrazia e dell’Occidente”, che spesso vengono denunciate da alcune firme del Corriere della Sera, ma qualcosa di ben più tangibile e serio ce lo confermano le parole con le quali Joe Biden ha dato il suo commiato al Paese dallo studio ovale: «Una oligarchia sta oggi prendendo forma, forte di una estrema ricchezza, di potere e di influenza, che minaccia letteralmente l’intera democrazia, i nostri diritti, le libertà fondamentali e la possibilità di tutti di avere eque opportunità». Esagerazioni polemiche di un uomo esasperato dalla sconfitta? Forse, anche perché durante il suo mandato quella stessa oligarchia ha guadagnato 1,5 trilioni di patrimonio netto. Ma forse anche qualcos’altro, visto l’esteso mondo di capitalisti tecnologici e investitori, non solo Musk, che ha deciso di sostenere Trump in quella che è stata definita anticipatory obedience, obbedienza preventiva, nei confronti del vincitore. A ciò si aggiunga la rete internazionale dei partiti di destra, che ha presenziato in massa all’Inauguration Day (tra cui Giorgia Meloni, Javier Milei, Nigel Farage, Mateusz Morawiecki, Éric Zemmour) e la morte cerebrale del partito Democratico americano, devastato oltre che dalla sconfitta politica dal fuoco di Los Angeles, e si avrà quella “accelerazione reazionaria”, di cui ha parlato Lorenzo Castellani, «in grado di tenere insieme sia il futurismo richiesto dai tecnologi e dai loro finanzieri che puntano allo sviluppo industriale, alla deregulation e alla sburocratizzazione sia la reazione del popolo di stretta osservanza trumpiana che richiede protezione dalla globalizzazione e dall’immigrazione e rifiuta la pedagogia progressista».
Un’accelerazione che avrà necessariamente un carattere imperiale, di cui vittima designata sarà l’Europa; già colpita duramente, a cominciare dalla Germania, dalle conseguenze della guerra per procura in Ucraina, dalla concorrenza sui capitali condotta a suon di rialzi dei tassi di interesse statunitensi e dai provvedimenti neomercantilisti varati dall’amministrazione Biden (Chips act e IRA), il Vecchio Continente è destinato a pagare un prezzo sempre più salato. Ma non solo l’Europa. Come è stato giustamente osservato da più parti, il disegno trumpiano di riprendere il controllo sui nodi fondamentali del potere politico, infrastrutturale e tecnologico, prefigura una sorta di “dottrina Monroe 4.0” (sulla quale v. La Lama di Antonio Cantaro) che si sostanzia nella signoria completa sull’emisfero occidentale e che ha nel suo paniere la Groenlandia, il Canada, l’Artico, il Golfo di “America” (sebbene, a detta di autorevoli osservatori, l’America del Sud sembri ormai persa dagli Usa a favore della Cina). E con essi il petrolio, il gas, le terre rare. Tutti ingredienti di un programma, che è stato lo stesso perseguito dall’ultimo presidente democratico, di far pagare al mondo il prezzo del debito americano e della disperata volontà di scongiurare la crescita dei paesi emergenti e con essa il declino dell’impero americano.
Sarebbe davvero sciocco, soprattutto alla luce dei numerosi e crescenti conflitti che si sono verificati negli ultimi venticinque anni, illudersi che questa colossale ridefinizione dei rapporti di forza possa avvenire in modo del tutto pacifico. Come pure è illusorio pensare, come dimostra plasticamente la clamorosa capitolazione del regime siriano e la severa sconfitta geopolitica subita dall’Iran e dalla Russia (v. in proposito l’analisi accurata di Marco Carnelos) che la crescita economica e tecnologica dei paesi emergenti e la concomitante crisi dell’egemonia americana siano il segnale dell’imminente avvento di un assetto multipolare. Nonostante tutto gli Stati Uniti dispongono ancora di enormi risorse e di condizioni di vantaggio, a cominciare dalla posizione di privilegio del dollaro come unica (o quasi) moneta internazionale di riserva, rispetto a tutti gli altri competitori. E la pur importante esperienza dei Brics non è tale da poter rappresentare, anche nella prospettiva a medio termine, un’aggregazione politica alternativa, anche se continuerà a svolgere un importante ruolo nella ridefinizione dell’ordine economico, come giustamente osservano nei loro contributi Marcos Aurélio da Silva e Vincenzo Comito.
Dall’insieme dei fenomeni fin qui osservabili, e in particolare dal trattamento riservato dagli USA a un’Europa acquiescente (v. ancora il contributo di A. Volpi), ci pare che risulti confermata la previsione a suo tempo formulata da Arrighi e Silver, secondo cui in assenza di potenze aggressive in grado di provocare il crollo del sistema mondiale imperniato sugli Stati Uniti e in presenza della concomitante capacità degli stessi Stati Uniti di trasformare la loro potenza egemonica in una dominazione sfruttatrice si moltiplicheranno i rischi di una transizione catastrofica. La quale potrebbe essere invece scongiurata da due condizioni essenziali: la capacità di adattamento e di conciliazione da parte degli Stati Uniti e l’emergere di una leadership globale dall’Asia orientale capace di fornire una risposta ai problemi di sistema lasciati in eredità dall’egemone in declino. Sulla seconda di queste condizioni non è possibile ancora esprimersi in modo definitivo, anche perché queste capacità non si creano in un vuoto pneumatico, ma in un contesto sempre più conflittuale. Sulla prima delle due condizioni prefigurate, invece, molti sono i dubbi. A meno che non si voglia prestare credito, senza alcuna garanzia, alla presidenza Trump che, invero, fin dai primi passi sembra ricalcare quel mix di isolazionismo ed interventismo che caratterizza la storia statunitense.
Eppure, il mondo ha bisogno di risposte davvero innovative alle contraddizioni sistemiche del modo di produrre, consumare e vivere che abbiamo inventato. Ad esempio, per ciò che riguarda la valorizzazione della cooperazione sociale all’interno di un sistema altrimenti ispirato alla sola logica dello sfruttamento e della competizione. Un sistema che non è in grado di colmare l’abisso «tra le possibilità di vita di una piccola minoranza della popolazione mondiale … e quelle della grande maggioranza» (Arrighi & Silver 2024).
Affrontare questi problemi non è un mero esercizio teorico, perché ne va della possibilità di stabilire ponti, contrastare la deriva d’odio (orientata sia verso l’esterno che verso l’interno) prodotta dal disturbo paranoico che affligge la nostra società e in definitiva operare contro la guerra come destino.