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cultura politica e costituzionale

IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

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IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

Dopo il secolo globale

La coerenza del mondo bipolare ha lasciato il posto a un sistema internazionale nel quale le diverse aree, sebbene in contatto grazie alla globalizzazione, abbracciano interessi, conflitti e linguaggi sempre più diversi. Alessandro Colombo delinea quattro scenari possibili.

La grande trasformazione geopolitica dell’ultimo ventennio non spiega soltanto la crisi degli ordini regionali e l’inceppamento dei meccanismi anche istituzionali di controllo. Per la stessa ragione, essa suggerisce anche che cosa sarà in gioco nella politica internazionale del prossimo futuro: una riorganizzazione dello spazio politico internazionale, destinata a succedere alla globalità diplomatica, strategica e ideologica del Novecento.

La riorganizzazione dello spazio globale potrà assumere almeno quattro fome, che ripercorreremo brevemente lungo una scala discendente dal massimo al minimo di conservazione della globalità. Sebbene destinale, nella realtà, a combinarsi variamente tra di loro, queste quattro forme possono essere immaginate come altrettanti scenari per il futuro: poiché è presumibile che qualcuna finirà per avere più peso di qualcun’altra; e poiché, nel frattempo, esse designano modelli alternativi di riorganizzazione, promossi da certi attori in competizione (anche decisa) con altri attori.

Uno spazio gerarchico e cosmopolitico

Il primo scenario e, quindi, il primo possibile esito del riflusso della globalità novecentesca, è la sua sostituzione con un nuovo tessuto globale, diverso dal precedente per principi ispiratori e qualità istituzionale ma persino più ambizioso di quello sia quanto a pervasività sia quanto a estensione: uno spazio politicamente, economicamente e giuridicamente globale, ordinato e disciplinato non attraverso il dominio di una o più grandi potenze egemoniche, bensì attraverso forme sempre più sviluppate di governance comune (se non di vero e proprio governo) tendenzialmente indifferenti alle distinzioni moderne o “westfaliane” tra ambito interno e ambito internazionale, interno ed esterno, pubblico e privato.

[…]

Il modello cosmopolitico della governance globale sembrerebbe raccogliere ampi favori tra i governi, le opinioni pubbliche e le stesse organizzazioni non governative occidentali, ma non ne raccoglie altrettanti tra i governi e le opinioni pubbliche delle altre regioni. L’annullamento della prerogativa propria dei singoli stati di perimetrare uno spazio di relativa autonomia (politica, economica e culturale) per i propri cittadini viene temuto come una ricaduta nell’abisso della vulnerabilità secondo un’attitudine che potrebbe facilmente estendersi (e, in parte, lo sta già facendo) anche ai paesi occidentali, qualora i costi politici, economici e culturali della globalizzazione dovessero apparire in ulteriore crescita. A maggior ragione perché la mancanza di chiare demarcazioni verso l’esterno richiama inevitabilmente

il tipo di globalizzazione che i paesi e i popoli non occidentali hanno già sperimentato e subito tra Ottocento e Novecento, e dal quale si sono emancipati solo attraverso l’armamentario westfaliano della sovranità e della non ingerenza.

[…]

Uno spazio gerarchico ed egemonico

Rispetto al precedente, questo scenario sembra disporre di notevoli vantaggi. Intanto, esso è perfettamente coerente con la distribuzione del potere scaturita dall’esito della guerra fredda, cioè con lo strapotere degli Stati Uniti e dei loro alleati. Anche la sua vocazione globale riflette un’attitudine propria di tutti i dopoguerra delle grandi guerre egemoniche: un’attitudine che, proprio come all’epoca della Restaurazione, affida ai garanti del nuovo ordine internazionale il diritto di vigilare anche sull’ordine politico dei singoli stati, sulla base della convinzione (comune, non a caso, a tutte le amministrazioni americane del dopoguerra fredda) che certi regimi (i rogue states, l’asse del male ecc.) e certi attori politici (estremisti, fondamentalisti ecc.) costituiscano di per sé una minaccia all’ordine internazionale e, pertanto, meritino di essere isolati, contenuti o addirittura abbattuti in anticipo   cioè prima che la loro irresistibile tendenza al Male si manifesti nella storia.

[…]

Ma tutto ciò non basta a risparmiare anche questo secondo scenario da importanti fattori di vulnerabilità, tanto sul versante della legittimità quanto su quello del potere. Il primo riguarda il suo stesso grado di inclusività e, quindi, di globalità. La discriminazione a favore delle democrazie non allarga, ma restringe lo spazio della società e del diritto internazionale, attraverso strumenti dichiarati di esclusione quali il boicottaggio diplomatico e l’embargo. Persino qualora l’obiettivo di un nuovo ordine internazionale democratico non dovesse più essere un ordinamento universale, nel senso di comprensivo di qualunque tipo di attori, bensì un ordinamento più esigente (e, inutile dirlo, più avanzato) di sole democrazie, resterebbe il problema di quale natura conferire ai rapporti con gli esclusi. Tali rapporti manterrebbero ancora, e in che misura, una natura giuridica? E quale, visto che le soluzioni del vecchio e agnostico diritto internazionale diventerebbero, a quel punto, impraticabili? Oppure le relazioni tra la “comunità internazionale democratica” e le “canaglie” non ammesse (i rogue states, appunto) sarebbero destinate a piegare verso una sorta di stato di guerra permanente? E, in questo caso, che cosa dovrebbe indurre i soggetti non ammessi a sottoporsi e rispettare i principi, le norme e le regole del diritto internazionale, considerato che queste norme li escludono dichiaratamente dal godimento dei diritti spettanti a tutti gli altri?

[…]

Uno spazio multicentrico e competitivo

Proprio questa eventualità è alla radice dei nostri due ultimi scenari. Mentre i precedenti condividevano almeno la medesima struttura gerarchica tanto che si potrebbe dire che, in essi, la gerarchia continuava a costituire come in passato il midollo spinale della globalità – a partire dal terzo questa simbiosi si spezza. Tale rottura, tuttavia, non ha un esito scontato. Il collasso dell’intermediazione globale degli Stati Uniti potrebbe non bastare a lacerare i rapporti tra i diversi complessi regionali ma, appunto, li costringerebbe a cercare una forma di connessione alternativa. Il suo fondamento sarebbe una rivoluzione spaziale a tutti gli effetti epocale. Mentre, dalla prima espansione cinquecentesca a oggi, la globalizzazione è sempre stata promossa e vantata da soggetti (l’Europa prima, l’America poi) collocati in uno spazio sottratto alle condizioni di esistenza (e vulnerabilità) di tutti gli altri, da questo momento in poi tutti gli spazi sarebbero immersi nella medesima condizione. La capacità di penetrare gli spazi altrui e di resistere alla loro penetrazione, che era la prerogativa degli spazi centrali del passato, finirebbe ridistribuita più o meno diffusamente fra tutte le aree regionali. A questo stadio, non più soltanto l’Europa, ma l’Occidente nel suo complesso, si troverebbe in una posizione che, in termini storici, sarebbe nuova e unica; l’Occidente non dominerebbe né sarebbe dominato, non sarebbe isolato né in grado di controllare il mondo. Per la prima volta nella storia, sia Europa che America sarebbero regioni qualunque di un sistema internazionale globale. Con il presumibile risultato di diffondere anche al loro interno la percezione della globalizzazione come sorgente di vulnerabilità, insieme alla tentazione di riordinare in chiave difensiva i rapporti tra il proprio spazio regionale e quello globale.

[…]

Uno spazio a-centrato e caotico

Nel quarto e ultimo scenario, anche questo residuo di organizzazione globale finirebbe travolto. Come il precedente, anche questo scenario non comprenderebbe alcuna forma (cosmopolitica o egemonica) di governance comune: l’egemonia degli Stati Uniti e dei loro alleati sarebbe già venuta meno; nessun’altra potenza sarebbe stata in grado di prendere il loro posto su scala globale: l’alto grado di competitività proprio di uno scenario di tale incertezza indebolirebbe anche prospettive e funzionalità delle istituzioni comuni.

Ma, a differenza del precedente, l’inceppamento della governance globale non sarebbe compensata dall’emergere di forme efficaci di organizzazione politica, economica e giuridica a livello regionale. Al posto dei grandi spazi organizzati, qui avremmo dinamiche regionali (di pace e di guerra) sempre più autonome le une dalle altre, ma non altrettanto capaci di frenare le rispettive competizioni grazie a gerarchie riconosciute di potere e prestigio e, eventualmente, alle loro traduzioni istituzionali.

In questa eventualità, il minimo della gerarchia conviverebbe con il minimo della continuità tra i complessi regionali. I loro residui rapporti prenderebbero la forma, che abbiamo già incontrato nella nostra rassegna dei modelli di connessione, della contaminazione. Ciascuna regione (o, almeno, ciascuna delle regioni più forti) avrebbe la possibilità di coinvolgere le altre nelle proprie dinamiche di sicurezza e, reciprocamente, nessuna regione sarebbe del tutto al riparo dal rischio di guerra nelle altre. Il grado di continuità tra i complessi regionali risulterebbe con ogni probabilità bassissimo, poiché attori in gioco, conflitti, allineamenti e linguaggi continuerebbero a divergere da un complesso all’altro. Ma, in assenza di chiare gerarchie, attori appartenenti a diversi complessi regionali potrebbero decidere di “scambiarsi” il proprio sostegno (diplomatico e militare) nei rispettivi conflitti (interni o internazionali), col risultato di espandere in un senso e nell’altro le loro dinamiche di sicurezza.

A questo stadio, la globalità sopravviverebbe soltanto in forma di disordine. Al posto della struttura gerarchica e accentrata dei primi due scenari, ma diversamente anche dalla struttura multipolare e multicentrica del terzo, quella che emergerebbe

sarebbe una struttura caotica e a-centrata, nella quale alla mancanza di una chiara gerarchia globale si aggiungerebbe la mancanza di gerarchie altrettanto chiare su scala regionale. Anche il rapporto tra penetrabilità e impenetrabilità sarebbe rovesciato rispetto al passato. Nessuna area regionale sarebbe più in grado di penetrare stabilmente le altre, ma ciascuna resterebbe vulnerabile al disordine proveniente dall’esterno (l’atto terroristico, la catastrofe ambientale, la rappresaglia economica, fino all’estremo della penetrazione diplomatica e militare).

[A. Colombo, La disunità del mondo. Dopo il secolo globale, Feltrinelli, 2010]

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