IDEATO E DIRETTO
DA ANTONIO CANTARO
E FEDERICO LOSURDO

IDEATO E DIRETTO DA ANTONIO CANTARO E FEDERICO LOSURDO

E oggi? C’è ancora domani

Questa non è una recensione. C’è ancora domani, il film di Paola Cortellesi, è un’opera politica nel senso più autentico e più nobile del termine. La vicenda narrata ha mosso nell’animo degli spettatori qualcosa di profondo e di vitale, un sentimento individuale e collettivo di libertà e di emancipazione.

Questa non è una recensione. È semmai il tentativo di svolgere una riflessione sulle ragioni che hanno fatto del film C’è ancora domani un caso non solo cinematografico, ma civile e politico. Non ci interessa e non ci compete un giudizio sull’opera in sé, ma ci sembra utile ragionare sui temi che affronta, sia per collocarli in prospettiva storica, sia per capire come essi sono vissuti nel presente.

Il personale è politico

È cosa nota che il film ha ottenuto un grande successo di pubblico: è stato il più visto del 2023 nelle sale cinematografiche e attualmente ha superato i cinque milioni di spettatori. Meno noto è il fatto che non poche persone, specialmente donne, abbiano assistito più volte alla sua proiezione, e quando sono tornate a farlo spesso abbiano portato con loro, figlie, amiche, madri, sorelle, compagne e compagni. Cosa significhi tutto ciò non è facile dirlo. Certo sta a indicare che la vicenda narrata ha mosso qualcosa di profondo e di vitale.

Se non ci illudiamo di dare una spiegazione esaustiva di questo fenomeno, possiamo azzardare però che tra le tante ragioni che lo spiegano ci sia anche il desiderio di condividere un’esperienza e costruire un legame sentimentale con una vicenda che si percepisce essere importante e “attuale”: un modo per decifrare la propria condizione umana e il proprio presente storico. Ed è abbastanza straordinario che ciò sia avvenuto nonostante il nostro sia un tempo, lo testimoniano tante indagini sociologiche, segnato dalla difficoltà di riconoscere condizioni di esistenza, esperienze e pratiche comuni a partire dalle quali costruire e sviluppare relazioni vitali, sia in ambito politico-sociale che nella sfera delle relazioni affettive. Insomma, a riconoscere il nesso esistente tra la dimensione personale dei problemi vitali e quella sociale.

Certamente tutto ciò, a sua volta, deriva da complessi fenomeni culturali e sociali, come il venir meno di molti luoghi della socializzazione secondaria, la crisi della famiglia, il prevalere di modelli di tipo aziendalistico, individualistico e competitivo anche in ambiti, come la scuola e l’università; e, last but not least, le conseguenze di un uso spesso dissennato dei social media. L’effetto d’insieme di queste dinamiche è duplice. Da una parte la privatizzazione di ogni soluzione: che si tratti della saluta mentale, del successo professionale o della violenza di genere sembra esistere una sola sfera nella quale è possibile trattare queste questioni: quella individuale. La sfera pubblica – per certi versi ormai indistinguibile da quella privata per linguaggi e procedure – è accessibile soltanto all’élite tecno-burocratica e politica, che ha il compito di definire gli incentivi positivi e negativi da applicare alle intraprese individuali. La seconda conseguenza potremmo definirla con Mark Fisher impotenza riflessiva, vale a dire quella condizione che  consiste nel sapere che una certa situazione è molto brutta, ma di sapere ancora di più che non ci si può fare niente. Escludere a priori ogni causa sociale sistemica pregiudica qualsiasi possibilità di politicizzazione, ma soprattutto è una profezia che si autoavvera.

C’è ancora domani propone invece un’altra prospettiva e in questo senso è  un’opera politica nel senso più autentico e più nobile del termine. E come tale recupera quella identificazione, tanto equivocata e denigrata, tra personale e politico  che rappresenta uno dei lasciti più famosi del femminismo degli anni Sessanta e Settanta. Anzi si potrebbe dire che il film è la rappresentazione della inestricabile correlazione della dimensione personale dei problemi e di quella politica. La protagonista, Delia, vivendo sulla propria pelle la violenza del dominio maschile ne comprende appieno l’inscalfibilità da un punto di vista individuale, ma non essendo rassegnata a perpetuarlo per sé e per la propria figlia, sceglie di agire “politicamente” perché ha intuito che sta avvenendo qualcosa che potrà segnare un cambiamento positivo nella sua condizione e in quella di tutte le donne. E che questo cambiamento richiede un’assunzione di responsabilità, una partecipazione attiva alla pratica democratica. In questo senso il film ci restituisce in modo autentico il sentimento di libertà e di potenza anche individuale che la conquista del diritto di voto ha rappresentato per le donne.

In una corrente di limpida verità

Scrisse anni dopo Alba De Cespedes: «Con quel segno in croce sulla scheda mi pareva di aver disegnato uno di quei fregi che sostituiscono la parola fine. Uscii, poi, libera e giovane, come quando ci si sente i capelli ben ravviati sulla fronte».  E Maria Bellonci aggiunge a sua volta ricordando il suo primo voto: “Mi parve di essere solo in quel momento immessa in una corrente limpida di verità, e il gesto che stavo per fare e che avrebbe avuto conseguenze dirette, mi sgomentava”. Il valore politico ed esistenziale di quel diritto appena conquistato non era peraltro percepito solo dalle intellettuali: “Ammettere che la propria moglie o le figliole, o la donna che fa le faccende in casa – si legge in un documento del 1945 dell’UDI – andassero anch’esse a votare, cioè che si riconoscesse che potevano e dovevano avere una loro opinione politica ed essere in grado di esprimerla, era cosa che il ‘capofamiglia’ e, in generale , il maschio in Italia, non poteva concepire se non per scherzo. Il voto della donna si presentava dunque, di per sé, come un atto sovversivo (…) era un secolare costume reazionario, fondato non soltanto sulla asserita inferiorità della donna,  ma sulla pratica privazione dei diritti e soggezione, di fatto, in tutti gli atti dell’esistenza, che la concessione del voto alle donne colpiva”. (Patrizia Gabrielli, Il 1946, le donne, la Repubblica)

Da questo punto di vista, dunque, il film fotografa una verità storica: il carattere liberatorio sul piano esistenziale e simbolico della pratica democratica. Le molte difficoltà successive e anche le sconfitte, non possono cancellare l’importanza di quel passaggio, che con tutte le difficoltà ha contribuito ad aprire una strada che tante giovani e meno giovani donne stanno ancora percorrendo.   Si tratta con tutta evidenza di un approccio strutturalmente opposto al paradigma neoliberale secondo cui esistono solo soluzioni private ai problemi sistemici. La forza del paradigma neoliberale è tutt’altro che compromessa dalle sue crisi e dai suoi fallimenti; e più volte anche su Fuoricollana ci siamo interrogati sulle ragioni di questa tenuta. Sta di fatto che la condizione umana nella società contemporanea continua a essere connotata dalla tendenza verso  forme di esistenza individualizzate, “che costringono le persone – al fine della loro stessa sopravvivenza fisica – a trasformarsi nel centro della loro stessa pianificazione e condotta di vita” (U. Beck, La società del rischio). Da ciò deriva un’individualizzazione delle opzioni sociali (e quindi del dibattito pubblico): rischi e contraddizioni sono prodotti a livello sociale ma le loro soluzioni  diventano un problema solo individuale: “soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche”.  Contemporaneamente però, nonostante la scomparsa della fabbrica fordista, o proprio in virtù di ciò, si conserva un altro stato d’animo: la percezione di essere sempre più ingabbiati all’interno di “un potente ordinamento economico che governa le vite e le irrigidisce entro funzioni sempre più impersonali”.

Ma, si dirà, il film non tratta di tutto questo. Si e no, ci sembra sia la risposta giusta. Perché se il tema del film è il dominio maschile e la violenza –  nelle sue molteplici manifestazioni , fisica, verbale, psicologica, simbolica,  –   come sua componente sistemica, tale dominio costituisce a sua volte un pilastro essenziale dell’insieme di dispositivi di potere che strutturano le relazioni umane. E anzi uno dei più potenti e pervasivi, grazie alle distinzioni che tende a naturalizzare. La più importante delle quali è quella tra maschile e femminile, generatrice della costellazione semantica della forza, della razionalità e dell’autocontrollo per il primo termine e, correlativamente,  della fragilità, emotività, imprevedibilità per il secondo. I due elementi si costituiscono reciprocamente e si implicano dialetticamente. Così come la distinzione tra sfera familiare “come luogo della cura è essenziale alla definizione della sfera pubblica come luogo del potere” (Angela Groppi, Il dilemma della cittadinanza). Che a sua volta rimanda a quella distinzione, segnalata dalla Arendt per la polis, tra la sfera della vita familiare, nella quale domina l’ineguaglianza e l’assenza di libertà, e l’ambito della vita politica, fondato sull’uguaglianza (tra pari) e sulla libertà: “il capofamiglia era considerato libero solo in quanto aveva il potere di lasciare la casa e accedere all’ambito politico”. (H. Arendt, Vita activa).

La protagonista di C’è ancora domani è infatti totalmente rinchiusa nei suoi ruoli familiari di moglie e madre che definiscono totalmente il suo orizzonte esistenziale di subordinazione e umiliazione. Ruoli accettati e introiettati fino a quando non le viene proposto uno strumento di liberazione che non passa appunto per le pratiche individuali, ma implica l’attivazione di una soggettività collettiva.

Un’intuizione che, come abbiamo visto, è stata vissuta storicamente da tante donne che negli anni difficili ma pieni di speranza del dopoguerra, hanno compreso che una vera democrazia (che quindi innanzitutto non sia fondata sulla esclusione delle donne) e una Costituzione come progetto di emancipazione di pieno sviluppo della personalità di tutte e di tutti, rappresentavano potenzialità reali di cambiamento. Immergersi “in quella corrente di limpida verità”, ha significato per Delia soprattutto agire politicamente per contestare e disattivare il dispositivo che opprimeva la propria vita e il futuro di sua figlia. Di cui la violenza è una componente essenziale.

Pedagogia della violenza

Il tema del film è, infatti, la violenza come componente essenziale del dominio maschile. Il colloquio tra padre e figlio è in questo senso rivelatore: si tratta di un chiaro esempio di pedagogia della violenza, nel duplice senso di spiegazione del suo uso appropriato e trasmissione di un paradigma etico. Perché, innanzitutto, in esso la violenza viene teorizzata come parte funzionale del dispositivo di dominio: il suo esercizio sarà più efficace se sarà nascosto e limitato a fare fronte alle sole situazioni eccezionali, quelle in cui il normale esito di subordinazione prodotto dalle pratiche pubbliche e private del potere maschile non funziona del tutto. (Non la poi menà sempre, sennò se abitua. Una volta ogni tanto, ma un fracco de legnate. Così capisce). Si tratta in ultima analisi di un esempio di potere come combinazione di dominio ed egemonia, esposto con linguaggio volgare ma tutt’altro che ingenuo. La figura del padre è paradigmatica anche perché in lui il mondo affettivo che si sforza di trasmettere al figlio è totalmente piegato alla soddisfazione dei bisogni del maschio (non me fa sentì che piagne, me fa pena. E poi c’avrò il diritto de famme ‘na pennica in santa pace?): per lui essere emotivamente compromesso dalla sofferenza di un essere umano è un problema solo in quanto mette in crisi il proprio benessere.

Inoltre, il colloquio mostra la pericolosità/mostruosità del femminile (l’emotività, l’imprevedibilità) su cui si struttura il maschile viene evocata nel momento in cui il padre raccomanda il matrimonio tra cugini che garantisce molto di più il conseguimento degli scopi di controllo sociale e riproduzione che sono il fine vero del rapporto: ubbidienza, servizio, accudimento, sessualità controllata, discendenza garantita.

E oggi?

Quanto è lontano dal nostro tempo questo tipo di relazione e questo modo di intendere e praticare la violenza? Anche qui la risposta è complessa. Certo, molto è cambiato e situazioni analoghe a quelle rappresentate dal film non sono più vissute come “normali”, anche se certamente persistono in determinati contesti. Riprendendo una tesi di Giuliano Pontara, potremmo dire che la lunga pratica democratica e l’affermarsi – grazie all’azione di alcuni movimenti politici e all’impianto normativo e culturale della Costituzione, di visioni e istituzioni antiautoritarie ed egualitarie – ha progressivamente indotto la diminuzione della pratica della violenza. (Giuliano Pontara, Quale pace? Sei saggi su pace e guerra, violenza e nonviolenza, giustizia economica e benessere sociale)

Che tuttavia è tutt’altro che scomparsa, anche nel rapporto uomo-donna.

Al contrario, sostiene Rita Segato, l’umanità cammina in direzione opposta, e i casi di violenza sulle donne sono in aumento. La guerra alle donne è il portato delle violente trasformazioni che la società sta subendo. Non sarebbe perciò l’emancipazione delle donne la ragione delle reazioni violente di uomini divenuti fragili, bensì la precarizzazione economica ed esistenziale dovuta alla mancanza di lavoro, allo smantellamento del welfare, e all’indebolimento dei legami familiari. Il femminicidio dunque come sintomo. Sintomo di una società che ha bisogno di una pedagogia della crudeltà per distruggere e annullare la compassione, l’empatia, i legami e i vincoli locali e comunitari.

Forse però le due prospettive non sono del tutto incompatibili. Segnalano semmai un prima e un dopo, che corrisponde ai cambiamenti avvenuti a partire dalla fine degli anni Settanta. D’altra parte lo stesso Pontara dice chiaramente che è in atto un processo di degrado della democrazia, con la perdita di controllo democratico di componenti essenziali della vita sociale a favore di poteri impersonali – il mercato – e il conseguente aumento delle ingiustizie e quindi delle violenze.

Tuttavia non si può escludere del tutto che la violenza nei confronti delle donne sia generata anche dalla sensazione di perdita di controllo che un determinato modello di maschio prova di fronte alla rivendicazione della propria indipendenza da parte della sua compagna, madre, sorella. Questo tipo di dinamica mostra in realtà una fragilità costitutiva del modello patriarcale, che giustifica il potere maschile sulla presupposta inferiorità naturale della donna.

Forse è proprio questo riproporre un tratto ancora attuale del rapporto maschile-femminile, rifiutando ogni spiegazione di tipo patologico e privatistico, che ha reso, come osservavamo all’inizio,  la storia narrata dal film di Paola Cortellesi un’esperienza così importante e utile per capire cosa sta succedendo.

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