Nel 1964 Gilles Deleuze invocava maestri che sapessero “trovare i modi di pensare corrispondenti alla nostra modernità”. Di maestri così ne avremmo a maggior ragione bisogno oggi, costretti come siamo a fare i conti con un tempo segnato dall’irrompere del catastrofico su scala globale come costante della condizione umana: dopo la crisi finanziaria ed economico-sociale, dopo la pandemia e durante la crisi climatica, è arrivata una guerra capace di sconvolgere gli assetti geopolitici e di provocare, mentre è ancora territorialmente confinata, catastrofi sociali globali e potenziali nuovi conflitti.
La difficoltà a immaginare come porre un freno a questo flagello e l’inabissarsi di ogni prospettiva di negoziato dopo le tremende notizie di stragi di civili, la dicono lunga sulla sua tendenza a diventare “infinita”.
A un mese e mezzo dal suo inizio, forse è venuto il tempo di smettere di analizzarne genesi e responsabilità per iniziare, invece, a farci insegnare da lei, come fosse il maestro che ci manca, i modi con i quali dobbiamo pensare il mondo nel quale abbiamo vissuto e viviamo. Un mondo che ci siamo illusi, ci hanno illuso, che fosse il trionfo delle forze benefiche del mercato (dispensatore di razionalità, efficienza e benessere), della scienza, della tecnologia e dei diritti universali. Mentre in realtà, come peraltro ammonivano i molti conflitti spaventosi che intanto si consumavano intorno a noi, le disuguaglianze crescenti e la diffusa infelicità, era una lotta spietata, che produceva ovunque vincitori e sconfitti, sommersi e salvati, dominati e dominatori.
E allora interroghiamo davvero questa guerra per capire come sarà il futuro del mondo e dell’Europa se e quando verrà rimossa – come sembra essere negli obiettivi degli USA – l’”eccezione russa” e con essa il suo eccezionalismo.
Perché la Russia si è sempre autorappresentata come portatrice di un compito
metastorico, speculare a quello americano. Questa autorappresentazione è presente sia come ostilità e rifiuto dei costumi occidentali, percepiti come una pericolosa forza disgregativa dell’anima russa e della sua identità etico-religiosa, sia come forma peculiare, russa appunto, di attuazione di fasi di modernizzazione, pensate cioè sempre a partire dalla singolare natura dell’identità russa, una sorta di “modernizzazione selettiva”. Ciò è individuabile sia negli esperimenti di modernizzazione autoritaria, sia in alcune teorizzazioni progressiste ( si pensi, ad esempio, al modo con il quale il populismo di Herzen immagina la transizione alla società socialista a partire dall’eccezionalità morale della obsčina). La percezione di sé come soggetto metastorico, portatore di una missione universale, si è manifestata soprattutto come sostegno ideologico ai progetti di egemonia imperiale. All’interno dei quali, però, si è inevitabilmente prodotta una contraddizione tra l’esigenza di assimilare le strutture culturali, tecnologiche, economiche e militari dell’Occidente, necessarie per competere con le altre potenze, e il rischio che questa assimilazione aprisse le porte all’avanzata delle forze del male e della dissoluzione della spiritualità russa.
Visto in questa prospettiva storica il “putinismo” è stato il tentativo di attuare un programma neo-imperiale che strappasse la Russia al pericolo di finire tra i perdenti della globalizzazione – culturalmente assimilati all’universalismo dell’Occidente e politicamente irrilevanti nella gerarchia mondiale del potere –, mettendo a frutto gli effetti della fase di stabilizzazione interna successiva al collasso del periodo eltsiniano e la precaria modernizzazione economica descritta nei testi di Thomas Piketty. Ma questo “vasto programma” finiva per mostrare la sua impotenza sia per le fragilità intrinseche al paese, sia per l’acuirsi dei conflitti globali e il permanere, nell’immaginario delle classi dirigenti USA, ma anche nella realtà dei rapporti internazionali, della Russia nel campo dei “competitori ostili. Di qui l’esigenza ideologica di recuperare l’eccezionalismo russo e i suoi simboli per motivare e sostenere un protagonismo imperiale che riscattasse le umiliazioni del recente passato e scongiurasse il destino di assimilazione subalterna all’impero vincente (oggi quello americano, domani quello cinese). Ecco quindi che le memorie dello zarismo, i miti della “terza Roma” e la fobia per il cambiamento dei costumi tradizionali vengono uniti alla celebrazione della guerra contro il nazi-fascismo, per consolidare un sentimento patriottico transtorico, dal quale però vengono espunti, come elementi estranei e ostili, quei momenti che conseguono da dottrine giudicate incompatibili con la logica di Potenza Imperiale, come il riconoscimento dei diritti dei popoli all’autodeterminazione presente nella struttura costituzionale Sovietica, o l’egualitarismo, che deve lasciare il posto a una struttura gerarchica (vedi Piketty).
Dunque dobbiamo interpretare Putin e la sua criminale guerra all’Ucraina come la conseguenza di questa cultura anti occidentale e anti illuminista? O non è piuttosto vero che essa non è altro che la costruzione ideologica su cui si regge il tentativo di sfuggire al destino di finire tra gli sconfitti della globalizzazione – nella zona dei paesi subalterni all’interno della divisione internazionale del lavoro e della catena globale del valore –, attraverso la riedificazione della grandezza imperiale perduta? Per una esauriente ricostruzione della elaborazione teorica di questa dottrina, anche nella sua articolazione economico-finanziaria, si può leggere l’articolo di Orietta Moscatelli sull’ultimo numero di Limes.
Alcune delle simpatie occidentali verso Putin – visto come l’antagonista del neoliberismo anglosassone e del suo arido materialismo affaristico, inevitabilmente destinati al collasso etico –, si basano su questa autorappresentazione ideologica, che supporta l’obiettivo di stare nella competizione senza essere omologati, a dispetto della propria arretratezza tecnologica e approfittando del declino dell’impero americano e del conflitto che si va profilando con la Cina; e, soprattutto, sfruttando il vantaggio strategico offerto dall’arsenale nucleare ereditato dall’Unione Sovietica. Se da una parte, infatti, le ambizioni imperiali di Putin possono far venire in mente il velleitarismo mussoliniano, dall’altra però esse possono contare pur sempre sulla potenza nucleare; è questa miscela di forza e debolezza, arroganza e disperazione a rendere estremamente pericolosa la guerra in corso. Anche perché dall’altra parte c’è un impero, quello americano, anch’esso in crisi per la guerra civile strisciante che lo dilania e per la crescente difficoltà di conservare l’egemonia globale minacciata non solo dalla Cina e dagli insuccessi militari accumulati, ma anche dalla difficoltà di continuare a esercitare l’egemonia sui paesi alleati/vassalli, che sempre meno riconoscono la legittimità dell’egemone che non riesce più a impersonare interessi comuni.
Ciò non dipende però, solo, dalla mancanza di lungimiranza delle classi dirigenti USA ma soprattutto dal carattere intrinseco della globalizzazione capitalistica, della sua metafisica – questa volta sì! – natura conflittuale. Lo stanno a testimoniare le crescenti ostilità tra le diverse aree (Unione Europea contro USA, Cina contro USA) e all’interno di esse (Germania e paesi Nord Europea contro Europa meridionale; Gran Bretagna contro Europa continentale, ecc.) Tutto ciò non fa che accentuare i rischi, perché oggettivamente può spingere – in effetti sta spingendo – gli USA a cercare di usare la guerra russa in Ucraina per regolare una volta per tutti i conti con i russi, anche allo scopo di acquisire un vantaggio strategico nel conflitto decisivo che probabilmente dominerà quel che resta del XXI secolo; che non sarà il secolo cinese, ma il secolo dello scontro esistenziale tra USA e Cina.
Che cosa implicherà la fine dell’eccezione russa, ammesso che sia conseguibile? Difficile indovinarlo. Più facile è prevedere, come fa Alexey Sakhinin , che “una sconfitta mal camuffata e una «pace vergognosa» porteranno sicuramente a un inasprimento delle viti del controllo dittatoriale, per timore che esploda la rabbia dei patrioti. Ma anche la continuazione della guerra farà sì che il governo dimostri una crudeltà senza precedenti e brutale verso tutte le voci dissenzienti, in modo che la depressione e la paura di oggi non si trasformino nella rivolta di domani.”
In conclusione, il tema di fondo di cui ci parla questa guerra è quello della insostenibilità di un ordinamento internazionale fondato sulla competizione mercantilistica, sul il ricorso al ricatto economico e alla minaccia militare come strumenti di regolazione dei conflitti interstatali e sull’imperialismo ideologico. Soprattutto quest’ultimo elemento rischia di trasformare la competizione internazionale in una guerra di tipo ideologico. Si impone, dunque, anche una revisione filosofica e antropologica, senza la quale non si riuscirà a sfuggire al destino di un mondo sempre più violento e ingiusto. Ciò che serve è quindi un modello di universalismo pluralista, capace di vedere nelle differenze di tradizioni, di culture, di morali – e quindi anche nei conflitti che ne derivano – non degli assoluti inconciliabili, ma dei dati di cui prendere atto realisticamente; e capace, conseguentemente, di rinunciare alla pretesa di considerare come naturale il proprio sistema di valori. Perché altrimenti, come ha scritto Cvetan Todorov, “la paura dei barbari rischia di trasformare noi stessi in barbari.” E questo non vale solo per Putin.