Ricorrendo a procedure accelerate e grazie al voto determinante di popolari e conservatori, una maggioranza che prefigura scenari inediti in vista delle prossime elezioni europee, il 20 luglio è entrato definitivamente in vigore l’Act in Support of Ammunition Production (“ASAP”), letteralmente “Atto in sostegno della produzione di munizioni”. Un regolamento proposto dalla Commissione nel mese di maggio che, come è esplicitato già nel primo considerando, mira alla conversione del complessivo sistema economico-industriale europeo alle prioritarie esigenze della guerra russo-ucraina (non a caso la base giuridica prescelta è l’art. 173 TFUE).
Il mercato della guerra
Secondo autorevoli voci questa mossa dell’Unione profilerebbe niente meno che un rilancio dell’Europa della difesa, prima tappa di una più forte integrazione politica. La riscoperta di un’identità comune fondata su valori condivisi tra gli Stati membri, sebbene alcuni di essi (la Polonia è l’Ungheria) siano ancora sotto procedura d’infrazione per il mancato rispetto di questi stessi valori (Guazzarotti, 2023). Si confermerebbe l’assunto, caro alla geopolitica, per cui l’eterna inimicizia con la Russia è l’autentico fattore federativo sovranazionale, dalla guerra fredda fino all’odierna guerra ai confini orientali. Chi scrive è, invece, propenso a ritenere che il regolamento in parola non sia altro che figlio del funzionalismo bellico, una declinazione pragmatica del funzionalismo comunitario, del paradigma dell’integrazione attraverso il diritto (dei mercati).
Innanzitutto, è bene precisare che il regolamento in oggetto, approvato in meno di due mesi di tempo, si aggiunge al c.d. European Peace Facility (EPF), un fondo ad hoc, collocato al di fuori del bilancio comunitario, diretto a finanziare le spese delle missioni militari comuni e il sostegno a Stati terzi, come nel caso dell’Ucraina a cui sono stati già erogati circa tre miliardi e mezzo di euro in armamenti ed equipaggi, compresi missili a corto e medio raggio.
Il paradigma mercatista è al centro del regolamento. Nel linguaggio “edulcorato” della Commissione, l’obiettivo è, infatti, garantire il buon funzionamento del mercato interno dei “prodotti della difesa” (defence products), munizioni d’artiglieria e missili, in una situazione internazionale contraddistinta da un aumento esponenziale della domanda. Per superare i “colli di bottiglia” (bottlenecks) in questo settore, la Commissione prevede l’istituzione di un nuovo fondo, denominato “Ramp-up Fund”, per incentivare la capacità produttiva degli Stati membri, la modernizzazione delle dotazioni militari, il training e l’aggiornamento continuo del “personale” (si suppone in vista di un loro impiego futuro sul terreno di battaglia?).
Neppure in questa circostanza la Commissione si discosta dal granitico paradigma della governance basata sui risultati. In base al regolamento, gli Stati membri presentano progetti di investimento in competizione tra loro, la Commissione eroga i fondi ai progetti più meritevoli e valuta successivamente il rispetto dei target e milestones prefissati. Il fondo “Ramp-up” dovrebbe operare in sinergia con i programmi di finanziamento già esistenti. In particolare, si riconosce agli Stati membri la possibilità di richiedere alla Commissione una modifica dei rispettivi Piani nazionali di ripresa e resilienza per riallocare parte delle risorse dedicate alla transizione ecologica e digitale e alla ripresa economica post-pandemia. Insomma, il sostegno al complesso militare industriale europeo per garantire incessanti rifornimenti bellici all’Ucraina vale pure qualche sacrificio delle pressanti istanze sociali dei cittadini. Sono contraddizioni fin ora sopite ma destinate prima o poi a terremotare la stabilità politica dei governi degli Stati membri: Francia docet. Ma anche in altri paesi europei covano segnali di radicali sommovimenti sociali: dalla Germania in cui il partito di stampo neonazista Alternative fuer Deutschland, unico apertamente schierato contro l’invio delle armi all’Ucraina, è quotato dai sondaggi al venti per cento al nostro paese in cui i divari territoriali sempre più incolmabili tra Nord e mezzogiorno alimentano tensioni sociali potenzialmente esplosive.
Economia di guerra
Con una misura classica dell’economia di guerra, il regolamento conferisce alla Commissione europea il potere straordinario di ordinare alle imprese (con il consenso dello Stato membro di stabilimento) di dare priorità (“priority rated orders”) a determinati “prodotti difensivi”, anche al costo di un sacrificio “proporzionato” della libertà d’impresa e del diritto di proprietà (art. 16 e 17 CDFUE, considerando 33). L’impresa interessata ha la facoltà di proporre le sue obiezioni alla Commissione, ma è obbligata a rispettare le decisioni di quest’ultima, essendo in caso contrario assoggettata a sanzioni pecuniarie gravose.
L’imperativo dell’economia di guerra (Losurdo, 2023) è talmente cogente da giustificare numerose deroghe al diritto positivo dell’Unione europea: a) deroghe alla normativa sugli appalti pubblici con la possibilità di adottare procedure semplificate di aggiudicazione delle commesse; b) deroghe alla direttiva 2003/88/CE sul tempo massimo di lavoro, consentendo alle aziende di aumentare i turni di lavoro per garantire la continuità produttiva; c) deroghe alla normativa a tutela dell’ambiente e della salute (a titolo di esempio, viene citata la direttiva “Seveso”, considerando 40).
Ritorno dell’Unione europea o della NATO?
Nel momento in cui l’economia europea sembrava intravedere timidi segnali di ripresa, dopo la fine della fase più acuta della pandemia e l’avvio dei grandi investimenti infrastrutturali legati alla transizione ecologica e digitale, è deflagrata come sappiamo la guerra in Ucraina: una guerra “per procura” che si protrae per inerzia ormai da più di un anno e mezzo senza che le parti in causa abbiano più obiettivi realistici; una guerra alla quale l’Unione europea prende parte più per ossequio al vincolo atlantico che per una valutazione ponderata del proprio interesse strategico di lungo periodo. l’Unione europea, attraversata negli ultimi anni da fratture crescenti tra gli Stati membri, da quello tra Europa continentale e Regno Unito a quello tra Europa occidentale e Europa orientale, sembra riscoprire una propria “identità”, proprio nel momento in cui la guerra in Ucraina sembra avvitarsi su sé stessa senza vie di uscita.
L’unionismo retorico intravede nella guerra russo-ucraina e, più in generale, nella ri-militarizzazione del mondo l’occasione storica per un inedito protagonismo dell’Europa come potenza geopolitica (Olaf Scholz, discorso del 9 maggio 2023 al Parlamento europeo e Mario Draghi, discorso al MIT di Boston del 7 giugno 2023). In realtà, è la NATO dal punto di vista organizzativo e istituzionale che sta tornando in vita, con gli Usa alla sua guida (cfr. i contributi in Azzariti, 2022). La declamata autonomia strategica europea è un pio desiderio, se i Paesi dell’UE non preservano un potere di valutazione autonoma e accettano di diventare i subappaltatori dell’industria della difesa americana, come del resto è già in parte accaduto in occasione dell’emergenza pandemica con il piano di acquisto congiunto dei vaccini.
In definitiva, l’attuale conflitto russo-ucraino, sull’orlo del baratro della guerra ibrida e totale (anche oltre in continente europeo) è l’apice di una “seconda guerra freddo/calda” che tenta di mettere fuorigioco il progetto di un’occidente europeo alleato, ma distinto dall’occidente atlantico (Cantaro, 2023).
E tutto ciò accade in un momento storico in cui (come si evince dalla lezione d’autore dedicata al vertice di Vilnius dell’11 luglio) la NATO si presenta sempre più come un’organizzazione con una proiezione globale che si è definitivamente “emancipata” dalle sue radici nord-atlantiche, come attesta la presenza al vertice Nato di Giappone, Australia, Nuova Zelanda e Sud Corea, i membri del c.d. QUAD (Quadrilateral Security Dialogue). Una Nato che si presenta sempre più come un organismo sovranazionale preposto al riordino dell’intero mondo globalizzato che rifiuta ogni disegno multipolare e che inquadra la Cina come il nemico strategico del prossimo futuro.