Il declino italiano è il tema apparentemente inattuale di questo numero quattro di fuoricollana.it. Da qualche tempo non se ne occupa più (quasi) nessuno. Un’ottima ragione, dunque, per parlarne. Non tanto per andare in direzione ostinatamente contraria al dilagante sentimento collettivo (questo, lo sanno bene i nostri lettori, è nel nostro Dna), quanto per capire le ragioni di questa sciagurata rimozione. La principale delle quali porta oggi il nome di un anestetico, draghismo, neologismo entrato a pieno diritto nei dizionari della lingua italiana. Già nel 2021, l’Enciclopedia Treccani gli dedicava una voce, magnificandone «la natura terzista, la sua tendenza a muoversi in uno spazio centrale tra i due schieramenti» e a incarnare i valori della buona borghesia (europeismo illuminato, acritica fede nelle virtù delle competenze, del merito, dell’innovazione; e naturalmente del mercato). Ma il Governo Draghi, nato ufficialmente per far uscire il “bel Paese” dall’emergenza pandemica ed economica (con risultati che si stanno rivelando assai modesti su entrambi i fronti), sta diventando qualcosa di più inquietante. L’icona, al di là di quello che sarà il destino personale dell’attuale Premier, di un “partito trasversale” senza radicamento sociale nelle classi popolari e senza progetto etico-politico, se non quello inquietante dell’“io speriamo che me la cavo”. Da Draghi al draghismo, un moltiplicatore del declino della nazione, a dispetto dell’applauso all’unisono riservato al “Salvatore della Patria” dai media e dalla politica già da prima che il Presidente della Repubblica imponesse al Parlamento, con un ardito gioco di prestigio costituzionale, la nomina del supertecnico a premier.
La storia di Draghi si presta bene a questo progetto. Supermario, come ha ricordato il giornalista inglese Ben Judah in un lungo, gustoso e corrosivo articolo di qualche tempo fa, si è fatto a Roma. Non la città da vecchi che è oggi, ma quella del miracolo economico, delle agitazioni del mondo del lavoro, dell’ascesa del partito comunista e delle gioie della gioventù. Ma mentre la sua generazione era ribelle, Draghi era mansueto e gravato dalle responsabilità, un outsider nel maggio del ’68. E impara presto la prima lezione della politica italiana: trovare sempre il mentore giusto. Il suo è il keynesiano Federico Caffè che lo presenta a Franco Modigliani, l’economista italiano del MIT che lo accetta come studente. Ma doveva ancora completare la sua tesi. Era sulla moneta unica e conclusi che la moneta unica era una follia, ha detto Draghi, in un evento in onore del suo mentore. Tuttavia, a differenza dei suoi mentori, l’economia di Draghi non si è mai fissata in una teoria. A 40 anni era ormai un direttore della Banca Mondiale. E nel febbraio 1992, è a Maastricht quando nasce l’euro, consigliere chiave di Giulio Andreotti. Gli italiani partono con condizioni così dure che sorprendono persino i tedeschi. La decisione di firmare è sua, uno dei due italiani con l’autorità finale sulla valutazione dei termini. Aveva consigliato al primo ministro di procedere con quella che nella sua tesi considerava una “follia”, un’unione monetaria senza un’unione politica ed economica. Perché? Perché la sua visione neoliberale e “depoliticizzante” contemplava la possibilità di una decadenza della nazione, della sua autonomia, della sua democrazia.