Morti di fame. Espressione spregiativa con la quale vengono identificati da sempre accattoni, barboni, mendicanti, miserabili, pezzenti, poveracci, spiantati, straccioni. Per i media fa più audience occuparsi dei morti di lavoro (se ne occupa specificatamente in questo numero il giuslavorista Paolo Pascucci). Per qualche ora, s’intende. La notizia non fa più notizia. Tanto si trova sempre qualche sociologo che si diletta con le favole. È il caso del ‘sociologo’ Luca Ricolfi per il quale la penisola è popolata da tantissima «gente che non lavora, oppure lavora poco e trascorre degli splendidi fine settimana in luoghi di vacanza», con due o più case di proprietà, barche ormeggiate, ristoranti pieni… Un paese di Bengodi, dedito a consumi opulenti e sfrenati che coinvolgerebbero tre quarti della popolazione, a fronte di una parte attiva di lavoratori di meno del 40%. Ricolfi ‘dimentica’, come ricorda in questo numero Salvatore Bianco, molte cose. A partire dalla caduta verticale in Italia del reddito medio familiare, dai valori del 2008, di circa il 13%. Si lavora tantissimo sino allo svenimento (lavoro senza fine), si guadagna sempre meno, si muore sempre di più per ‘incidenti’ sui luoghi di lavoro.
Morti di lavoro, morti di fame. Non solo nel nostro Paese. E non solo per gli incidenti sui luoghi di lavoro. Si muore sempre più dentro, nell’anima. Soprattutto tra quegli sfaticati dei giovani di cui straparla il ‘sociologo’. Lo dimostrano inequivocabilmente i dati sulla diffusione del burnout (tecnicamente, «stato di stress cronico lavoro-correlato caratterizzato dalla sensazione di completo esaurimento delle proprie energie fisiche e mentali»), di ansia e stress nei luoghi di lavoro in tutto il mondo. Recentissimi dati diffusi a fine gennaio dall’Organizzazione Mondiale della Sanità ci dicono che il burnout riguarda circa il 20% dei dipendenti inseriti nelle aziende, soprattutto giovani: l’80% dei lavoratori appartenenti alla Generazione Z e millennials non riesce più letteralmente a reggere una cultura aziendale tossica e pensa che sarebbe meglio dimettersi e morire ancora più di fame.
La CGIL ha legittimamente salutato con grande soddisfazione la recentissima pronuncia n. 559 del 21 settembre 2023 della Corte d’appello di Firenze che, accogliendo un ricorso promosso dai legali di Inca, ha riconosciuto la «costrizione lavorativa» come causa esclusiva di malattia professionale (malattie psicosomatiche, disturbi del sonno, ansia e depressione che causano disarmonia fra sé stessi e il proprio lavoro, conflitti fra il ruolo svolto in azienda e al di fuori di essa). Qualcosa si sta muovendo verso la giusta tutela di quella che la comunità scientifica definisce la ‘malattia del secolo’. C’è un giudice a Berlino, anzi a Firenze. Ma può la giurisprudenza da sola combattere la guerra al lavoro combattuta dal capitalismo neoliberale da oltre mezzo secolo con tutti i mezzi e a tutte le latitudini? Andrea Guazzarotti ci spiega nel suo documentato contributo le insidie che si celano nel puntare esclusivamente sulle magnifiche e progressive sorti dell’intervento giurisprudenziale. Mentre Antonio Cantaro e Donato Caporalini nel loro intervento ripercorrono continuità e cesure della guerra al lavoro condotta da mezzo secolo da parte prima del capitalismo neoliberale e oggi dal capitalismo bellico. La seducente e mortifera promessa di quest’ultimo che la possibile «fine del mondo» vedrà sì un ambiente distrutto, imploso, e tuttavia si tratterà di un mondo tecnologicamente saturo di «novità», di sviluppo del capitalismo cognitivo, delle piattaforme, di scoperte scientifiche, di performance organizzative. Quel lavoro de-costituzionallzzato di cui parla nel suo contributo Gonzalo Maestro Buelga.
Questa condizione del lavoro, si dice con malcelata soddisfazione da parte degli apostoli della fine del lavoro, è il risultato della definitiva liquidazione del suo antagonismo rispetto al capitale. La tradizionale conflittualità tra capitale e lavoro – sostiene Aldo Schiavone – avrebbe perso la sua centralità e la sua importanza, «perché il nuovo capitale è riuscito a mutare la natura del suo storico antagonista». La capacità egualitaria e socializzante del lavoro di una volta sarebbe ormai liquidata e con essa le basi sociali che avevano permesso la nascita delle moderne democrazie e delle loro varianti socialdemocratiche. Mentre il futuro si concentrerebbe nel circuito dell’intensità tecnica dei lavori non seriali, dell’innovazione tecnologica e della speculazione finanziaria a fronte di una massa anonima di esistenze umane “senza valore” sempre più respinta nella marginalità e nell’irrilevanza. E tuttavia, come sostiene Luciano Gallino in una delle Lezioni di autore pubblicate in questo numero, la marginalizzazione del lavoro non è solo il prodotto dello “spirito faustiano” del capitale, come vorrebbero i suoi esaltatori. Ma è alimentata dalla politica, da un insieme articolato e pervasivo di interventi pubblici. Quelli che hanno modificato i rapporti di forza nel mercato del lavoro a favore delle imprese. Quelli che hanno progressivamente eroso le protezioni sociali. Quelli che hanno incentivato la liberalizzazione dei capitali, le delocalizzazioni e poi tutte le “riforme strutturali” tese a minimizzare, e laddove possibile azzerare, qualsiasi onere addizionale (imposte, contributi previdenziali, assicurazione sanitaria).
Un caso di scuola di queste pratiche viene descritto nel suo intervento da Massimo D’Antoni: l’euro come strumento per contenere le richieste sindacali e attrarre capitali per il finanziamento del commercio estero. Che si sarebbe trattato di questo era stato previsto da più parti. In particolare Frank Hahn, autorevole economista di Cambridge, aveva chiaramente detto che il vero obiettivo di un sistema di cambi fissi era il controllo della classe operaia e il Pci si era opposto all’entrata dell’Italia nello SME nel timore che ciò avrebbe danneggiato l’occupazione. Il che pone la domanda sul perché la sinistra abbia poi aderito acriticamente a una scelta che indeboliva la sua base sociale.
D’altra parte, la mercificazione del lavoro non esaurisce completamente la soggettività della forza lavoro perché, malgrado tutto, il lavoratore cede ancora oggi soltanto una parte delle sue capacità necessarie allo svolgimento del compito richiesto. Non la propria persona. È con ciò, nonostante la loro apparente onnipotenza, il capitale e l’impresa devono ancora scendere a patti se vogliono ottenere ciò che non potranno mai possedere e di cui hanno però bisogno: la forza lavoro degli uomini e delle donne. Senza la quale l’impresa ancora oggi non esiste. Come sottolinea Roberto Ciccarelli nella Lezione di autore qui pubblicata, sono ancora le persone viventi, la forza lavoro come facoltà e come capacità, il cuore dell’algoritmo, anche se restano invisibili. «Siamo noi che alimentiamo il turco meccanico globale e lo facciamo vivere in ciò che abbiamo in comune: la forza lavoro». Il disciplinamento, la trasfigurazione e la rimozione della forza lavoro – la sua invisibilizzazione sono l’esito di un’egemonia culturale così potente da aver spinto gli stessi lavoratori a credere di essere invisibili.
L’odierna guerra al lavoro non è solo ideologica. Come testimonia il permanere e l’estendersi del caporalato, del lavoro nero, della evasione contributiva, fino alla vera e propria riduzione in schiavitù che connota vasti settori dell’agricoltura italiana. Nel loro reportage sulla vita dei braccianti stranieri e non, Yvan Sagnet e Leonardo Palmisano mostrano come l’attuale modello agroindustriale e le sue interconnessioni con la grande distribuzione e la sua subordinazione all’oligopolio e alla finanza speculativa globale finiscano per spingere alla competizione al ribasso sui prezzi e, quindi, a brutali forme di sfruttamento. Lo stesso intreccio di concause che sta producendo, come documentato recentemente da Emiliano Brancaccio sul Manifesto, la crisi delle piccole aziende e la centralizzazione crescente del capitale agricolo. Da qui le proteste degli agricoltori di queste settimane. Una situazione sempre più insostenibile che in varie zone del paese si è scaricata sulle spalle dei braccianti, soprattutto immigrati. Non solo loro però. Basti leggere il primo dei brani riprodotto in Lezioni d’autore: le donne dell’Alto Salento, condannate a subire soprusi e angherie anche per effetto di quella guerra tra poveri, tra italiani e immigrati, che i caporali hanno interesse ad alimentare.
Dopo il crollo finanziario ed economico globale del 2007 i meccanismi di marginalizzazione si sono, in realtà, estesi, sommando gli effetti delle politiche monetarie al declino del lavoro umano perseguito con l’uso della rivoluzione digitale e la precarizzazione. La crisi della società neoliberale ha assunto da allora dimensioni sempre più ampie, divenendo una vera e propria “convulsione sindemica” con la pandemia, la crisi climatica e la guerra, prodotta, quest’ultima, anche dal tramonto dell’egemonia americana e dal contestuale movimento di convergenza planetaria. Sul piano sociale e politico tutto ciò si è espresso nelle forme del malcontento e del rancore nei confronti delle élite politico-finanziarie e delle loro politiche. E in un crescente distacco dalle istituzioni democratiche e dalla pratica politica che ha finito per avvantaggiare i movimenti populisti, soprattutto di destra.
E qui emerge l’incapacità di pensare una soluzione sistemica. Prigioniere dell’ideologia neoliberale le élite politiche e finanziarie affrontano la situazione alternando la riproposizione dei dogmi monetaristi a pratiche di negoziazione neocorporativa finalizzate alla loro mera sopravvivenza. Un caso emblematico è costituito dal modo con il quale in Europa si pensa di fronteggiare la protesta degli agricoltori che, se presa sul serio, richiederebbe il cambiamento dell’attuale modello agroindustriale che assoggetta le imprese agricole all’oligopolio che domina il mercato mondiale e alla finanza speculativa globale. Andrebbero radicalmente riviste le logiche di concorrenza esasperata che presiedono agli accordi di libero scambio come quelli con il Canada e il Mercosur e andrebbe abbandonata l’insensata politica di sostegno alla prosecuzione della guerra russo-ucraina che ha come conseguenza, oltre agli effetti boomerang delle sanzioni, anche la distorsione del mercato dei cereali e l’aumento dei prezzi dei fertilizzanti. Queste ed altre radicali riforme sono invece escluse e si preferisce, da parte della Commissione europea e del governo italiano, concedere sospensioni e rinvii di singole misure in campo ambientale e fiscale, nella speranza che ciò possa tacitare le proteste e dividere il fronte.
Tutto ciò rende ancora più urgente mettere in campo una nuova soggettività del lavoro, che sappia comprendere come riconnettere le tante identità del lavoro che oggi sono frammentate. È ciò che si propone il progetto Lucio de Carlini della Camera del Lavoro di Milano di cui parlano nel loro intervento Marianna Bruno e Debora Migliucci. Di questa risposta all’attacco a cui è sottoposto il lavoro c’è sempre più bisogno, anche per l’evidente incapacità delle classi dirigenti di costruire una strategia all’altezza delle sfide attuali.
L’Italia e l’Europa (a cominciare dalla Germania) stanno, infatti, subendo gli effetti della prolungata assenza di politiche industriali coordinate a livello continentale, mentre la crisi della globalizzazione provocata dalle politiche Usa rischia di provocare un declino generalizzato. I casi dell’Ilva e di ciò che resta dell’industria automobilistica in Italia ne sono una emblematica testimonianza. Per quello che riguarda in particolare quest’ultimo comparto, è illuminante quanto scrive Vincenzo Comito a proposito della miopia delle classi dirigenti. Le quali sembrano avere un’unica ‘visione prospettica per il futuro del continente: l’associazione di economia e guerra.
Quella guerra che in altri momenti della storia nazionale abbiamo saputo raccontare, rappresentare e mettere in forma anche nelle ‘province’ del nostro Paese. È anche per questa ragione che in questo numero celebriamo con diversi contributi (Antonio De Simone, Bruno Malerba, Massimo Stefano Russo) e fuori dalla ritualità il centenario della nascita di Paolo Volponi. L’Urbinate, il letterato e il politico, l’amico e il comunista, che, insieme a tanti, nel secondo dopoguerra mise a terra l’utopia di Adriano Olivetti e ne sviluppò la forza del suo sogno: un’idea morale della fabbrica, non più solo luogo di profitto, ma modello, stile di vita di un progetto basato su una idea di comunità.