SCUOLA DI EDUCAZIONE ALLA POLITICA
Sviluppo umano, Vivere la Costituzione
Promossa dal web magazine fuoricollana.it (nato allo scoppio della guerra russo-ucraina e che opera anche nell’ambito delle attività di terza missione dell’Università di Urbino Carlo Bo) in collaborazione con l’Associazione Itinerari e incontri (dal 1987 autorevole punto di riferimento culturale per credenti e non credenti e luogo di incontro e dialogo tra fedi e religioni diverse). Due esperienze antiche e attuali al servizio di un progetto formativo rivolto a giovani, lavoratori e studenti, e a tutte e tutti coloro che intendono rinnovare il proprio patrimonio di conoscenze e di pensiero, in un percorso di ricerca di valori e di sensoLo Stato della Costituzione.
I Modulo, “Guerra contro le donne” (Urbino)
Registrazione Venerdì 15 marzo, ore 17.00
Registrazione Sabato 16 marzo, ore 9.30
Conclusioni, Antonio Cantaro
Due istantanee. Due istantanee di due tradimenti. Non riassumono tutta le ragioni che stanno dietro la decisione di fare una Scuola di educazione alla politica. E, tuttavia, raccontano di unico fallimento. Raccontano della negazione del diritto costituzionale allo studio dello Stato democratico-sociale in nome di un ruffiano diritto al successo formativo. Raccontano di una pedagogia e di una didattica che non si preoccupano di fornire conoscenze e di istruire alunni e studenti, ma di convincerli di star comprando un buon prodotto. Per la loro formazione professionale. Per farne un buon prodotto, una merce, spendibile nel mercato, nel mercato del lavoro, come è scritto nel “Manifesto” della Scuola redatto da Luigi Alfieri e convintamente sottoscritto da Federico Losurdo e da me. Un’etica che molti di noi qui intimamente non condividono. E che rende il nostro silenzio ancor più grave, complice, scellerato. Abbiamo deciso di rompere questo silenzio, di parlare. Quel che sarà, sarà.
Prima istantanea. Un docente di un Ateneo della Repubblica – lo chiamerò per non fare nomi Antonio Cantaro – ha appena finito la sua lezione frontale. Sa bene che la cosiddetta didattica trasmissiva non è apprezzata dalla cosiddetta governance che la considera roba di altri tempi – una conferenza – che allontana gli studenti dalla frequenza. Ma quel docente della Repubblica, della prima Repubblica, l’unica che conosce, è testardo. Continua a provarci. Si illude che la frustrazione che prova alla fine di ogni lezione frontale dipenda da Lui, dal non aver saputo mettere bene in ordine nozioni, argomenti e contenuti. Non accetta di fare i conti con una dolorosa verità. Il successo della sua lezione non è più nelle sue mani, nelle sue parole, nelle sue conoscenze e capacità sistematiche. Gli studenti sono con l’anima da un’altra parte. E non perché in aula hanno nelle mani uno smartphone. Lui non permette loro di usarlo. Gli studenti sono da un’altra parte come lo era Totò, a prescindere. Non c’è possibilità di comunicazione. Non è che non capiscono – sono lì per imparare, è normale che all’inizio non capiscano – è che non credono a che serve quello che per comodità chiameremo sapere umanistico.
E perché dovrebbero crederci? Non possono crederci, se sono degli umani dei nostri giorni. Il professore della prima Repubblica parla loro di un mondo sociale, culturale, storico, giuridico che non ha più nessun aggancio con le loro vite effettive, con la loro realtà. La realtà di cui parla è per loro una irrealtà. Una dimensione sfuggente, inintelligibile e arbitraria che non che è possibile prendere sul serio.
Per questa ragione, la sensazione istintiva di questo professore della prima Repubblica è di trovarsi di fronte a vandali e disagiati apre un fossato incolmabile. È lui lo zombie. Irreali, fumisterie, noiose sono le cose di cui parla: ideologie, classi sociali, partiti, lotte per la patria, per la costituzione, per la nazione, per la patria, per l’Europa. Per il professore della prima Repubblica la realtà è indirizzare culturalmente la storia; per i suoi studenti la realtà non è la “cultura” ma la quotidianità “vera”, concreta e presente, la “natura” che si trovano quotidianamente di fronte di una vita da vivere – a insegnarglielo sono in primis le loro famiglie – sotto l’egida del “lavora-guadagna-consuma-crepa”. Mentre i temi ‘alti’ che scaldano, in verità raramente, i loro cuori sono altri. Temi identitari e, a modo loro, universali: sesso e genere, ambiente/ecologia, animalismo. Temi che fanno sorridere lo zombie che spocchiosamente annota nel suo diario: ma veramente pensano di “star dicendo la loro” perché lottano per l’auto interpretazione e autodeterminazione dei propri genitali, o perché imbrattano tele contro il riscaldamento climatico, o perché rivendicano i diritti di Bambi? Sì caro Zombie lo pensano davvero. E la tua noiosa lezione frontale è per loro una inoppugnabile conferma della tua irrealtà.
Secondo istantanea, gli antidoti alla noiosa didattica trasmissiva: la didattica innovativa, la didattica giocosa, la didattica attiva. Un tradimento peggiore del male che intende curare. Il gergo anglosassone è garanzia di sicuro fallimento, come sanno coloro che hanno nozione dello stato pietoso in cui versa la scuola statunitense: inquiry learning, cooperative learning, skill, metacognitive skill, problem solving, lifelong learning. Un giardino gioioso in cui fiorirebbero flessibilità mentale e competenze pratiche al posto di evanescenti conoscenze teoriche. Un’illusione, il miraggio che si possa apprendere facilmente il difficile tramite giochi immersivi; senza il duro lavoro dell’acquisizione diretta delle conoscenze disponibili; senza astrazione, senza una scienza sistematica che inizia dalle nozioni più semplici e procede verso quelle più complesse per spiegare il perché delle cose, il perché le “leggi” della storia e della vita sociale.
Il culto della falsa antitesi tra conoscenza e abilità cognitive della pedagogia e della didattica innovativa sublima nel dogma che l’ignoranza sia condizione necessaria per formare alunni e studenti creativi che pensano con le loro teste. È questa la fede alla base della didattica per competenze. Credere che si possano acquisire le abilità cognitive (skill) senza memorizzare cognizioni, che si possa pensare criticamente un argomento senza esserne informati; che si possano usare le tecniche di pensiero degli esperti – senza possedere la loro erudizione; che si possa apprendere per tutta la vita iniziando ogni volta dal nulla; che si possa imparare ad imparare senza avere imparato qualcosa. La didattica per competenze concepisce le skill come ultimo gradino di una scala da raggiungere avendo saltato i gradini precedenti, liberi dalle conoscenze come se fossero una zavorra; non comprende che le conoscenze non possono essere separate dalle abilità perché la conoscenza, come costruzione logica, è in sé stessa abilità e l’abilità non è altro che il dominio sulle proprie conoscenze. Si è gran maestri nel gioco degli scacchi non per un’astratta abilità scacchistica, ma perché si conoscono e si ricordano circa 50000 partite.
La conoscenza non è solo la sostanza del pensiero, ma è anche una condizione per svolgere le professioni dirigenti, quelle più ambite. Una scuola che non trasmette conoscenze abbandona gli alunni a sé stessi, e in questo annulla le differenze al suo interno, ma non per questo riduce tutti i ragazzi all’ egualitarismo dell’ignoranza. Infatti la scuola non è il loro unico ambiente di vita. Essi vivono anzitutto in famiglia e le famiglie non sono tutte uguali. Ci sono quelle che educano i loro figli al linguaggio corretto e all’interesse per la cultura e per la scienza, ci sono quelle che non lo fanno. Abbandonando gli alunni a sé stessi, la didattica innovativa non dà a quelli svantaggiati ciò che essi non hanno avuto in famiglia. La conseguenza è che l’ugualitarismo dell’ignoranza all’ interno alla scuola diventa differenziazione classista all’esterno della scuola: lo status della famiglia di provenienza diventa più decisivo che mai per i risultati scolastici e per il destino degli alunni, le differenze di classe si approfondiscono e la scuola non è più in grado di assicurare la mobilità sociale sulla base del merito, che è l’unica forma di uguaglianza possibile al di fuori dell’utopia. Ne era consapevole Antonio Gramsci, che condannò la didattica attiva come una forma di regressione a una società divisa non in classi, ma in caste.
Le due istantanee delle quali vi ho parlato sono, come è ovvio, profondamente diverse e, tuttavia, fotografano una medesima frustrazione, un unico tradimento: quello della scuola e dell’Università, non solo italiane. Mentre il crollo di conoscenze e capacità di base è drammatico e costante, tutte le nostre energie – tanto quelle dei dicenti trasmissivi quanto quelle dei docenti innovativi- sono rivolte a impartire lezioncine omogeneizzate su come essere green, accoglienti, vaccinati, dirittumanisti, ecosostenibili, antirazzisti, antitotalitari, inclusivi, vegani, europeisti, antirussi, e così via. Catechismi laici di second’ordine, spot pubblicitari. Non ci stiamo. È per questo che siamo qua. È finito il tempo della complice scelleratezza.